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Superare il capitalismo. Oltre l’ecocittadinanza: socializzare la produzione.

Superare il capitalismo. Oltre l’ecocittadinanza: socializzare la produzione.

La consapevolezza ecologica ha fatto passi da gigante negli ultimi anni. Le nuove generazioni hanno già intrapreso questa lotta per il loro futuro e per quello della biodiversità planetaria. L’ecologia, però, priva di un vero ancoraggio di classe, manca di un solido progetto sociale e democratico, nonché di una strategia in grado di pesare davvero contro il capitale. Tuttavia, le proposte ci sono già e spetta al movimento sociale coglierle e svilupparle.

L’attuale progressione dell’ecologia come preoccupazione sociale è innegabile ma la coscienza ecologica dominante rimane prevalentemente dentro l’orizzonte capitalista, anche se lo si vuole con un volto umano. Di per sé non è in grado di affrontare la questione climatica, i rischi di scomparsa di intere elementi di biodiversità, nonché i problemi dell’estrattivismo e della scarsità di risorse.

Inoltre, la consapevolezza ambientale, di per sé, rimane insufficiente. Non si tratta di difendere soprattutto l’ecologia, ignorando le altre lotte sociali. Deve essere combinata con altre questioni, in particolare le questioni del socialismo e della democrazia (libertaria secondo noi). Deve inoltre convergere verso l’antipatriarcato, l’antirazzismo, l’antivalidismo, l’antispecismo la cui analisi dei legami con l’ecologia meriterebbe un articolo dedicato per ognuno.

Diverse correnti politiche, negli ultimi decenni, hanno cercato di pensare e formulare queste articolazioni. Citiamo in particolare i casi della decrescita,[1] dell’ecologia sociale e dell’ecosocialismo.

La decrescita si è affermata come una corrente politica distinta quando l’ecologia politica si è istituzionalizzata. Al suo interno, in particolare tra gli “obiettori della crescita”, si è sviluppata una concezione della decrescita che punta ai legami tra crescita economica e distruzione ecologica e combina diverse dimensioni: diminuzione dell’impronta ecologica, diminuzione del potere, diminuzione della disuguaglianza. Se il fatto di problematizzare tutto attraverso il prisma della decrescita è discutibile, una tale concezione non è priva di interesse in termini di convergenze politiche.

Lo stesso vale per movimenti come PEPS (Per un’Ecologia Popolare e Sociale). Ispirato dall’ecologia sociale e dal comunalismo di Murray Bookchin, e dichiarando rivendicazioni autogestionarie, questo movimento integra questioni anti-patriarcali, antirazziste e anti-speciste. Dimostra anche un certo discernimento strategico, in particolare attraverso la partecipazione ad appelli per la costruzione di una rete ecosindacalista.

Infine, l’ecosocialismo è una corrente dai contorni incerti. Proveniente dal marxismo ma in rottura con le versioni autoritarie e produttiviste, questa corrente ha fatto un vero sforzo per integrare sia le questioni ecologiche sia anche quelle democratiche. È anche in termini di pratiche sul campo e strategie di lotta che le convergenze tra queste formazioni marxiste e i comunisti libertari sono state le più forti.

Le alleanze politiche non dovrebbero, tuttavia, farsi a scapito di una certa esigenza teorica e programmatica. Le organizzazioni della sinistra radicale, ivi comprese quelle con la pretesa di essere anticapitaliste, possono avere limiti su tre livelli.[2]

Possono infatti entrare in una logica di produzione ecologica e di contenimento degli eccessi del capitalismo – sprechi, sovrapproduzione, obsolescenza pianificata, ecc. – ma non assumono una prospettiva di sufficiente riduzione della produzione e del consumo per essere compatibili con le capacità di rigenerazione planetaria e biodiversità. Potrebbero anche non arrivare fino alla critica del potere.

Una certa frangia della sinistra può così accontentarsi, come orizzonte finale, di una migliorata democrazia partecipativa nell’ambito delle istituzioni borghesi tipo Sesta Repubblica, invece di una democrazia diretta autogestita, nell’ambito di una repubblica di liberi comuni e consigli dei lavoratori. Infine, potrebbero non arrivare fino in fondo alla critica della proprietà privata dei mezzi di produzione.[3]

Ne consegue l’ideale ingenuo che mescola la collettivizzazione delle grandi aziende e il mantenimento a lungo termine delle piccole proprietà private, che può portare solo a crisi sistemiche e precarietà individuale. Muoversi, in modo antiautoritario, verso una socializzazione integrale dei mezzi di produzione e una pianificazione sociale autogestionaria è una necessità per coordinare la sicurezza economica degli individui e la transizione ecologica.

Di là delle questioni teoriche e programmatiche, è anche necessario evidenziare i limiti strategici che possono esistere riguardo ai movimenti ambientali. Se, in quanto organizzazioni che derivano dal movimento operaio, i comunisti libertari e gli ecosocialisti condividono una visione di classe e una comprensione del problema ecologico dal punto di vista dei rapporti di produzione, questo non è il caso di tutti i movimenti ecologisti.

L’ecologia si è formata nel tessuto delle associazioni e della società civile e per molti all’ombra della socialdemocrazia. La sua critica dal punto di vista del consumo piuttosto che della produzione spiega, fin dall’inizio, le sue deboli radici sindacali e il suo carattere interclassista. Una tale ecologia, che sorpassa le opposizioni di classe, rifiuta il confronto con la borghesia e l’abolizione del suo sistema, non può portare a termine la lotta ecologica.

Una simile ottica non può che condurre al sacrificio delle classi lavoratrici con il pretesto dello sforzo individuale necessario per l’interesse generale (discorso che è anche quello delle politiche di austerità). Per diventare veramente combattivi e per essere all’altezza delle sfide sociali, ecologiche e democratiche del 21° secolo, la lotta ambientale deve rompere con le sue basi interclassistiche e di cittadinanza e costruirsi su una base di classe.

Per questo è necessario che le organizzazioni ereditate dal movimento operaio, in particolare i sindacati, prendano le redini della lotta e si affermino come prima forza attiva della transizione ecologica. Se l’ecologia cittadinista occupa attualmente il primo piano della scena, le lotte “ecologiste” della classe operaia non mancano.

Esistono in varie forme dalla nascita del movimento operaio.[4] Oggi si stanno sviluppando convergenze tra sindacati e ONG ambientaliste,[5] che permettono di rompere con le false opposizioni, che i capitalisti cercano di mantenere, tra la lotta contro la fine del mondo e la lotta per la fine del mese. Tuttavia, non si tratta di restare a una così elementare consapevolezza del sindacalismo.

Per trasformare la società in senso socialista, democratico ed ecologico, dobbiamo riconnetterci con il sindacalismo rivoluzionario e il suo progetto di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo scorso dicembre è stata lanciata la Rete Eco-Sindacalista,[6] uno strumento di coordinamento tra i vari sindacati di lotta, che mira ad aiutare i sindacalisti a coordinare e rafforzare il coinvolgimento ecologico delle loro sezioni e delle rispettive confederazioni.

Questo strumento potrebbe costituire la base di un vero ancoraggio di classe dell’ecologia e la chiave del cambiamento di scala di cui abbiamo bisogno. Contribuiamo ora al suo rafforzamento, per preparare il terreno da cui può fiorire la rivoluzione! (Flo UCL – Rouen)

Nell’ambiente delle lotte ecologiste possiamo sentir dire che la distruzione della vita e la crisi climatica sono dovute al consumo eccessivo, che noi consumatori siamo direttamente responsabili.

Sulla base di questa analisi, le strategie vengono proposte e promosse all’interno del movimento sociale. Dovremmo consumare meglio, consumare di meno. Attraverso piccoli gesti individuali e spargendo la voce, potremmo influenzare collettivamente il nostro modello produttivo, economico e politico.

Non c’è niente di sbagliato nel cambiare le proprie abitudini di consumo per far combaciare le proprie azioni con le proprie idee politiche. Questo però diventa problematico quando queste azioni individuali vengono presentate come aventi una forte portata politica e/o come una strategia in grado di stabilire un reale equilibrio di potere. Questa teoria riduce la lotta ecologica alle scelte dei supermercati e conduce, al meglio, a cercare di organizzare grandi boicottaggi collettivi.

L’autoflagellazione militante sul nostro consumo inquinante e distruttivo presenta la società come una somma di individui senza tener conto delle gerarchie capitalistiche e colonialiste. Non permette di ripensare l’organizzazione della produzione dove si giocano le vere poste del potere. Diversi attivisti e collettivi ci avvertono di questa impasse ideologica spesso moralistica.

Il movimento dei giovani per il clima ci ricorda che viviamo in un sistema economico alienante dove chi decide sulla produzione guida anche le nostre “scelte” di consumo.

Grégoire Chamayou ne La Società Ingovernabile. Una Genealogia del Liberalismo Autoritario (2018) analizza come la responsabilizzazione individuale sia un’arma dei capitalisti per dirottare e dissipare le nostre lotte. Se occorresse smettere di agire come consumatori per iniziare ad agire davvero?[7]  (Mélissa – UCL Orléans)

NOTE

[1] Trattiamo qui solo delle organizzazioni “decrescenti” della sinistra radicale, anche anticapitalista.
[2] Per un’analisi più dettagliata dei limiti dell’ecosocialismo e della decrescita, vedere Floran Palinowski, “News from libertarian communist degrowth”, settembre 2021, su Espritcritiquerevolutionnaire.revolublog.com.
[3] Ibidem, per maggiori dettagli sul tema della proprietà privata e della crisi.
[4] Patrick Farbiaz, “Building eco-unionism”, Contretemps, 29 dicembre 2021.
[5] “Ecco la via d’uscita dalla crisi”, Alternative libertaire, luglio-agosto 2020.
[6] “Un ecounionismo che cerca i suoi segni”, Alternative libertaire, dicembre 2021.
[7] “L’ecologia della carta di credito”, Grozeille.co.

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