Deborah Gressani, Giorgio Sacchetti e Sergio Sinigaglia S’avanza uno strano soldato – Il movimento per la democratizzazione delle forze armate (1970-1977), ed. DeriveApprodi, Torino 2022.
L’esperienza dei PiD, i Proletari in Divisa, è una di quelle esperienze storiche che rischiano di non lasciare traccia, perché non hanno chi le ricordi e ne rivendichi l’eredità. Eppure, pur con le sue ovvie contraddizioni, non si può negare che ebbe un suo impatto su quegli anni e che seppe generare conflitti e tensioni all’interno di una delle ‘istituzioni totali’ (assieme a carceri e manicomi) che vennero messe in discussione nel periodo successivo al ’68.
La prima di tre sezioni che compongono il testo, a cura di Gressani, inizia con una necessaria premessa teorica riguardo alle varie posizioni sull’obbligo di leva nei primi anni ’70, quando i giovani formati dagli scontri a Valle Giulia, nei viaggi in autostop in tutta Europa, negli slogan come ‘vietato vietare’, si trovarono chiamati alla leva e inseriti nell’Esercito, ‘istituzione totale’, in cui lo Stato è Stato al 100%, più chiaro, più palese nei suoi meccanismi di oppressione: all’ingresso la recluta perde ogni diritto civile, viene spersonalizzata, rasata, numerata e rivestita. Viene de-civilizzata.
Al rifiuto totale del tradizionale antimilitarismo anarchico e di alcune confessioni cristiane, si aggiunsero in quegli anni il pacifismo e la non violenza mutuate dalla controcultura americana formata nell’opposizione all’intervento degli USA in Viet Nam. Lotta Continua, ed in seguito Avanguardia Operaia e il gruppo de Il Manifesto, vedono invece in questo rifiuto della naja vertenze che porterebbero tutt’al più all’istituzione dell’obiezione di coscienza, che finirebbe per togliere dalle caserme elementi rivoluzionari e favorire la creazione di un esercito professionista borghese. Per loro la naja veniva letta (almeno in una prima fase) come un’occasione di intervento rivoluzionario dall’interno. In tal modo la proposta di LC si distaccava anche dalla linea riformista del PCI, che vedeva nell’ <<esercito popolare>> una garanzia di per sé di presidio democratico, senza alcun bisogno di intervento militante.
Di seguito Gressani ripercorre la storia dei PiD e degli altri gruppi con cui si sviluppò una sostanziale collaborazione in caserma, con tanto di firme collettive o congiunte su volantini e iniziative: i Collettivi proletari antimperialisti legati ad AO e i Collettivi militari comunisti connessi a Il Manifesto.
Il primo ambito di intervento fu la caserma, come ‘luogo’ in cui si concretizza l’istituzione totale: rancio, esercitazioni pericolose, condizioni sanitarie. Su questi temi iniziano le prime proteste, le insubordinazioni, gli scioperi e Lotta Continua inizia a pubblicare le lettere di denuncia che arrivano dalle caserme, dai compagni arruolati o in forma anonima.
Nella primavera del ’70 c’è un primo caso documentato di ribellione. Al CAR di Casale Monferrato, 800 soldati si ritrovano in cortile a seguito di 8 casi di meningite virale, chiedendo opportune contromisure. Di seguito furono molti gli episodi di protesta per il rancio o le condizioni igieniche. LC documentava il conflitto, e lo alimentava, con lo spazio Lettere dai compagni soldati.
Nell’estate del ’70 inizia a formarsi una rete e nell’autunno la rivista di LC tiene ormai una rubrica dal titolo Proletari in divisa, che presto diventerà un bollettino autonomo. Il 24 novembre, esce il primo numero autonomo del bollettino dei PiD.
Il secondo passo è la messa in discussione del principio di autorità, visto come meccanismo di formazione di cittadini obbedienti e disciplinati. Allora la parola d’ordine diventa rendere consapevoli i soldati dei propri diritti civili, per contrastare lo “Stato dentro lo Stato” (e tutto ciò nel contesto della critica antimperialista al ruolo dell’Esercito Italiano nella NATO). Il punto è anche ‘defascistizzare’ l’esercito per rispondere ad eventuali trame golpiste. Tuttavia, se le rivendicazioni di migliorie nella vita di caserma sfondano ed escono dai limiti dei militanti, ottenendo peraltro anche un certo miglioramento, questo secondo passo non attecchirà.
Il Friuli, solitamente marginalizzato, diventa centrale in quanto sede di 2/3 dell’EI. E così una prima timida apparizione pubblica si ha in occasione della marcia della pace (antimilitarista e non violenta) in Friuli nel ’72. I PiD, benché distanti dalle premesse non violente degli organizzatori radicali, e da quelle antimilitariste dei gruppi anarchici che vi parteciparono in forze, parteciparono alla marcia, e per la prima volta militari in divisa si videro in piazza con i propri striscioni.
Nel ’73, un po’ per i fatti del Cile, un po’ per l’istituzionalizzazione di LC in partito, l’entrismo da rivoluzione imminente si muta in ‘democratizzazione’. Il tradimento dell’esercito cileno agli ordini di Pinochet rende impellente trasferire nell’EI pratiche democratiche in funzione antigolpista. L’anno successivo la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo rafforza questa idea.
Nel ’74 a Udine si tiene la manifestazione per l’anniversario del golpe cileno, l’11 settembre, e un centinaio di PiD sfilano in divisa. La scena di un centinaio di soldati in marcia, fazzoletto sul volto e pugno chiuso, si ripete il 14 settembre a Roma. Il 25 aprile del ’75 (50esimo dalla liberazione e anniversario della Rivoluzione dei garofani) in tutta Italia i soldati partecipano alle celebrazioni. 500 a Milano, 400 a Spilimbergo (comune di 11 mila abitanti).
Ormai si realizza un’unità democratica di intenti con PSI e PCI in funzione antigolpista e per la revisione del “regolamento di disciplina”. Il 22 novembre ’75, 220 PiD in rappresentanza di 133 caserme si riuniscono a Roma. Si parla di diritto di assemblea, salute, diritto di partecipare alla vita sociale e politica. Il 4 dicembre viene indetto lo sciopero generale contro un prima bozza di modifica del regolamento, giudicata insufficiente. La mobilitazione ha successo, ma a questo punto PCI e sindacati si tirano indietro perché il passo successivo, un sindacato nell’esercito, era considerato troppo lungo.
L’esperienza si conclude con ‘lo sposalizio finale tra l’Italia e i suoi militari’, avvenuto tra le macerie del Friuli a seguito del terremoto del 6 maggio 1976. Il testo rileva vari lati tenuti in ombra dalla narrazione istituzionale del terremoto friulano, dal rifiuto della militarizzazione delle tendopoli da parte dei comitati di autogestione sorti in esse, al ritiro delle truppe in giugno per arrestare un ‘incivilimento’ dei militari. Il testo cita il Coordinamento dei militari democratici e un incontro che organizzarono a Udine il 6 giugno. Nel convegno si rilevò come l’unico rapporto possibile tra forze armate e popolo, era un rapporto di classe tra truppa e popolo, come è dimostrato dall’inserimento dei soldati, contrastato dai vertici, nei meccanismi di autogestione delle tendopoli. Inoltre il convegno poneva la questione delle servitù militari e chiedeva l’utilizzo sociale delle caserme, la fine della militarizzazione del territorio ed anzi l’impiego dell’esercito nella ricostruzione, la sospensione della leva per i terremotati.
Dopo questo canto del cigno, il movimento subisce la sorte di LC e del generale riflusso.
La seconda parte del testo, a cura di Sergio Sinigaglia, ex redattore di LC, raccoglie varie testimonianze di ‘reduci’ PiD, utili anche a ricostruire il contesto emotivo, spesso tralasciato nei racconti storici, un contesto fatto di rapporti umani, solidarietà, ingenuità, gioia.
Conclude il testo Giorgio Sacchetti, professore di Storia culturale e sociale a Firenze, peraltro noto storico dell’anarchismo, che sviluppa un discorso interessante, dal punto di vista metodologico e storiografico, ponendo domande sull’utilizzo delle fonti prodotte dagli organi di repressione nello studio dei movimenti.
In conclusione, si può dire che il testo è molto significativo perché va a riempire un vuoto e ha tutti i pregi e i difetti di una ricerca pionieristica. Si spera sia un primo tassello di una ricerca più ampia che, ad esempio, superi l’appiattimento sulle sole fonti di LC anche nel senso (non certo facile) indicato da Sacchetti: fonti giudiziarie, di polizia, dell’EI. Queste fonti potrebbero essere utili per un’analisi sociale e demografica dei PiD: quanti sono stati, da che ambienti sociali venivano, da quali zone, ecc… Un altro ordine di ricerca potrebbe riguardare il riflesso del movimento nei mass media più istituzionali, ma anche nella pubblicistica di altri settori del movimento post ’68.
Igor Londero