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Risposta ad Anonimo Specista

Risposta ad Anonimo Specista

Con quanto segue cercherò di controbattere all’articolo Antispecismo, una critica apparso su Umanità Nova del 10 dicembre 2017.

Innanzitutto preme una constatazione che va oltre le posizioni soggettive: l’antispecismo, o meglio l’istanza di liberazione animale o, forse ancora meglio, di liberazione totale, non vanno ultimamente di moda come sostiene l’autore dell’articolo, ma hanno profonde radici storiche anche all’interno del pensiero e della pratica anarchica. Basti infatti pensare che già Lev Tolstoj, nel 1895, scriveva Contro la caccia e il mangiar carne o che Elisée Reclus, nel 1901, scriveva un testo chiamato Sul vegetarianismo e che nello stesso chiamava gli altri animali fratelli e paragonava l’azione di chi uccideva gli altri animali alle stesse barbarie commesse dagli umani sugli umani e sulla natura tutta. Ma, almeno per amor della coerenza, l’autore sosterrà, sono sicuro, che le tesi dell’anarchico russo e di quello francese sono stupide. Chissà inoltre se l’autore conosce le tesi sull’intersezione dello sfruttamento e delle gerarchie sostenute con forza da Murray Bookchin già qualche decennio fa – stupido anche lui? – senza pensare che ormai da almeno trentacinque anni e più gruppi di azione diretta come ALF o Earth First! sostengono la necessità di andare oltre la lotta contro lo sfruttamento umano per allargare le prospettive di liberazione totale anche agli altri animali e nei confronti della natura tutta. Stupidi! Tutti stupidi!

Lasciamo però da parte questa breve parentesi perché mi sembra piuttosto evidente che l’autore dell’articolo abbia delle serie mancanze anche solo storiche sotto questo punto di vista.

Mi si permetta inoltre di dire che solitamente faccio molta difficoltà a prendere sul serio chi parlando di temi sociali usa vezzeggiativi con l’unico intento di sminuire e offendere, parlando ad esempio di agnellino o di animaletti tanto carini, ossia facendo emergere la chiara incapacità di smontare le tesi altrui. La risposta, in realtà, è nel suo stesso articolo: parla da allevatore e dunque dal punto di vista di chi lucra e vive sulla vita di altri esseri senzienti.

Risponderò alle sue critiche numerandole, consapevole che non potrò controbattere, per ovvi motivi, anche a tutte quelle piccole frasi buttate qua e là – tipo quando sostiene che l’antispecismo critica la produzione alimentare capitalista soltanto da un punto di vista animalista (sic!), quando parla “del nostro ruolo”, degno de più bieco determinismo teologico, oppure quando accenna in maniera totalmente confusa a una presunta catena alimentare. Prenderò perciò solo alcune questioni, tralasciandone altre per motivi di spazio.

1) L’anonimo specista fa emergere con chiarezza tutta la necessità di parlare di antispecismo già dalle prime righe della sua analisi, analisi a dire il vero estremamente nota e non nuova tra chi guarda all’antispecismo da una posizione di pregiudizio negativo, tanto che avrebbe potuto tranquillamente fare un copia e incolla da qualche altro articolo.

Dopo avere constatato la necessità di “individuare delle alternative e combattere uno sviluppo idiota e distruttivo”, l’autore dell’articolo però sostiene che concentrarsi su supposti diritti animali sarebbe frutto del benessere borghese. A parte che sulla questione del concetto di diritti animali all’interno del movimento antispecista ci sono divergenze, ma pur prendendo per buono che intendesse fare riferimento al diritto alla vita e alla libertà individuale di ogni singolo animale non umano, perché allora sostenere l’importanza delle riflessioni sulla intersezionalità delle lotte salvo poi dire che “Le vittime della barbarie umana ci sono, a miliardi, nell’ambito della nostra stessa specie, senza bisogno di andare a cercare oltre”? Cioè, se si dà credito alle teorie sull’intersezionalità delle lotte, perché poi si vuole includere in queste lotte solo l’umano? Se infatti l’intersezionalità delle lotte è necessaria, è perché il prodotto dello sfruttamento rende tutte le gerarchie identiche: il sistema capitalistico schiavizza tutto ciò che è sfruttabile a proprio vantaggio. Che siano umani o non umani, un sistema basato sullo sfruttamento delle classi subalterne è tale a prescindere dalle vittime, e la liberazione di un individuo o di un intero popolo non sarà mai realmente tale se necessita di sfruttare altri individui o altri popoli.

Soprattutto, però, perché allora non allargare l’idea identitaria così caldeggiata dall’anonimo specista (tanto da sostenere che bisognerebbe pensare solo agli umani piuttosto che a tutti gli sfruttati e non, quindi, anche ai non umani)? Qual è il limite oltre cui la lotta diventa borghese? Perché è valida la differenza tra specie – termine che contesto nella sua comune accezione ma che per semplicità qui utilizzo – umana e non umana, e non ad esempio quella di genere, o del colore della pelle, del sesso oppure del numero di gambe? Perché la differenza di specie è giusta per validare la necessità di lottare solo per gli umani, e non la differenza di provenienza?

C’è chi sostiene invece che il colore della pelle sia un buon motivo per cui è necessario lottare prima per gli italiani senza pensare agli africani, c’è chi sostiene che ci sono già troppi problemi sociali per pensare adesso alle questioni di genere o per l’eliminazione delle barriere architettoniche e, guarda caso, usando proprio gli stessi pretesti usati dall’anonimo specista. Allora, se è vero come è vero che esiste una specie umana che si basa sul comune genoma che ci unisce tutti, è anche vero che gli individui sono unici e irripetibili; dunque, se è vero che la comune appartenenza ad una specie umana potrebbe portare a unirci e lottare insieme, è anche vero che sullo stesso concetto potremmo farci guerra gli uni contro gli altri appunto perché ognuno è fine a se stesso.

Voglio dire: se è questo il motivo per cui gli umani dovrebbero pensare solo agli umani, è anche vero che ognuno è diverso da tutti gli altri, per questo ognuno potrebbe pensare prima a se stesso perché nessuno è uguale ad un altro individuo. Ma davvero il caro anonimo specista è caduto in questo perverso gioco al massacro? No, non può essere così semplice. Il mondo, da come lo concepisco io, si divide in sfruttati e sfruttatori, e non tra umani e tutti gli altri. Sebbene un magnate del petrolio sia umano, non avrà mai niente da condividere con me nella costruzione di società paritarie fino a quando continuerà a produrre distruzione ecologica, e starò sempre dalla parte della foca o dell’orso polare cacciati dai loro habitat – benché diversi dalla mia specie – per far posto alla piattaforma petrolifera.

Questo vale, ovviamente, anche se si parla solo di umani: starò sempre al fianco dello sfruttato cingalese anche laddove sarà il mio dirimpettaio a sfruttarlo. Se così non fosse, allora le posizioni dell’anonimo specista sono più che valide, ma bisognerebbe però rispondere alle domande di cui sopra. Infatti, laddove l’autore dell’articolo continua a sostenere la sua posizione, per coerenza dovrà sempre anteporre le istanze umane rispetto a tutte le altre, anche dunque l’interesse del petroliere. Ma se così non fosse, ovvero se le istanze umane non hanno sempre la precedenza su tutte le altre, allora vuol dire che escludere tutti gli sfruttati non umani è solo un pretesto per continuare a mantenere la propria posizione di potere ma, anche in questo caso, le domande prima poste continuano a valere.

2) Quando l’anonimo specista sostiene che molta della produzione alimentare non animale è capitalistica, sostiene il vero. Come dargli torto? Ma cosa c’entra questo con la critica all’antispecismo? Avrebbe potuto trovare di meglio. Voglio dire che non troverà mai un antispecista, che per definizione lo è per un’idea politico-sociale, a favore della Del Monte e della Chiquita solo perché producono ananas e banane. Sebbene l’antispecista sia vegan, è anche vero che lotta per la liberazione totale: dunque liberazione animale – intendendo animali umani e non umani – e della Terra. Laddove ci sia una produzione vegetale distruttiva, ci saranno sempre antispecisti a lottare contro quel sistema. L’antispecismo è tale perché lotta per la liberazione totale, lo ripeto.

3) L’autore dell’articolo si chiede cosa mangino gli antispecisti ed il motivo a tale domanda è tutto all’interno del suo articolo, ossia quando ancora una volta c’è chi paragona una supposta sofferenza dei vegetali a quella di un qualsiasi essere senziente.

Cercando di domandarsi il motivo per cui quando si parla di diritti l’antispecismo non allarga questi diritti anche ai vegetali, l’anonimo specista pone alcune domande: “Cosa vi hanno fatto, infatti, le forme di vita vegetali per non meritare di essere considerate titolari di diritti? Perché ci si focalizza solo sugli animali, peraltro quasi sempre solo sui mammiferi maggiori, dimenticando, tanto per citare il cece o l’insalata? Forse che essi non provino dolore? e chi ce lo dice? (…) La vera differenza tra questa vita e quella animale, dove sta? Nella deambulazione? Nella mancanza degli occhi? Nel fatto che noi umani non siamo in grado di percepire il loro dolore?”. Ma non è tutto, l’exploit arriva quando sostiene che “Tra la linfa che sgocciola dal pistillo reciso e il sangue che sgorga dalla gola tagliata, la differenza è in fondo solo nella percezione umana”.

Partiamo da una constatazione: il dolore viene percepito non grazie al sangue ma in virtù del sistema nervoso centrale, di cui i vegetali non sono dotati. Ad oggi, voglio dire, non si ha alcuna evidenza scientifica del fatto che i vegetali abbiamo un sistema deputato alla percezione del dolore, tutt’al più ipotesi – a differenza invece di quanto è dimostrato rispetto agli animali. Dunque, basandosi sui dati conosciuti, i vegetali non soffrono. Se chi scrive volesse fare passare il messaggio che il dolore delle piante non c’è solo perché noi non siamo in grado di percepirlo, oppure perché “chi ce lo dice che non soffrono?”, allora sarebbe valida qualsiasi supposizione che ci induca a non farci spostare di un millimetro dalla nostra posizione. Infatti, sostenendo che non bisognerebbe mangiare vegetali solo perché non sappiamo se questi soffrono o meno, allora bisognerebbe ugualmente essere contrari alla masturbazione perché non sappiamo se uno spermatozoo soffre come un umano o contro l’aborto perché l’embrione è come un umano (c’è chi sostiene simili congetture: sono quelli che solitamente sono vestiti di nero e hanno un colletto bianco…solitamente predicano dagli altari).

Dato per assodato che i vegetali non soffrono, il discorso potrebbe anche chiudersi qui. Ma l’anonimo fa di più, fino a paragonare la linfa del pistillo al sangue che esce da una gola tagliata, volendo far trapelare il messaggio che la sofferenza è resa evidente dalla linfa e dal sangue! Dunque, ragionamento di uno stupido quale sono: se la linfa è uguale al sangue di una gola tagliata, la linfa delle cime di rape è uguale anche al sangue dell’autore dell’articolo e, perciò, la cima di rapa è portatrice dello stesso diritto alla vita che possiede l’anonimo specista. Sì: se è la linfa che esce fuori dal pistillo a dover far desistere dal mangiare vegetali, appunto perché questa linfa è come il sangue di un qualsiasi animale, indirettamente lui si sta paragonando a qualsiasi vegetale.

Ma anche se fosse che i vegetali soffrano, credo sia ovvio cercare di produrre meno sofferenza possibile – non è che siccome c’è il razzismo nei confronti dei neri possiamo dire “sì, ma che cazzo te ne frega, picchia anche quel cinese tanto già picchiano i neri!”. Ma siccome i vegetali non soffrono, a quanto sappiamo, il problema, sotto questo punto di vista, non si pone.

Nicholas Tomeo


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