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Sul senso dell'indipendenza sindacale

Sul senso dell'indipendenza sindacale

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In “Un contributo al dibattito sull’intervento sindacale”[1] il compagno Giulio Angeli offre uno stimolo e un’occasione per riprendere una questione che ritengo di non poca rilevanza: il nesso fra progettualità e forza nell’azione sindacale. Sviluppa, in particolare, un’argomentazione interessante che, a mio avviso, è opportuno, per un verso, sottoporre ad una valutazione critica ed a cui è bene rispondere con alcune puntualizzazioni.

Svilupperò, per motivi di chiarezza, le note che seguono nella forma di un dialogato, premettendo che sono perfettamente consapevole del fatto che io mi prenda il privilegio di rispondere mi pone in condizione di vantaggio. D’altro canto il mio obiettivo – sta ad altri valutare se realizzato o meno – è quello di rendere meno oscure di quanto lo siano oggi alcune questioni.

Giulio. “Il compagno Scarinzi individua il discrimine tra sindacalismo concertativo e di classe nell’accordo del gennaio del 2014 in materia di rappresentanza, rispetto al quale l’opposizione della Cub è stata tanto più valida quanto più isolata, perché USB e Conf. Cobas quell’accordo lo hanno, infatti, firmato.”

Cosimo. “Mi corre intanto l’obbligo di chiarire che, pur dando il giusto rilievo all’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, non ritengo affatto che sia un evento epocale. L’integrazione del movimento dei lavoratori nell’ordinamento sociale capitalistico e nell’apparato statale precede di molto quell’accordo ed è assolutamente più articolato, consolidato, strutturale.

Aggiungo poi che le organizzazioni sindacali che l’hanno costituita, RdB, per un verso, e SdL, per l’altro, hanno una lunga storia di firma di accordi che scambiano diritti dell’organizzazione contro concessioni economiche, normative, occupazionali allo stato ed al padronato a danno dei lavoratori in nome del “principio di realtà” o, se si vuole essere più raffinati, del “Primum vivere, deinde philosophari” anche se, va riconosciuto, si tratta di accordi decisamente meno rilevanti dell’accordo del 10 gennaio 2014.

Quell’accordo, in particolare, è importante non perché sia una sorta di astratta frontiera fra “buoni” e “cattivi” ma perché cede sul tema delicatissimo della libertà di azione, organizzazione, sciopero in cambio di alcuni sia pur importanti diritti.

Rifiutarlo dunque a costo di pagare un prezzo importante per questo rifiuto significa affermare una cosa semplicissima e fondamentale: con tutti i limiti, le ambiguità, le stesse contraddizioni dell’azione sindacale, è necessaria, quantomeno sulle questioni essenziali, coerenza fra pensiero e azione, fra dichiarazioni e comportamenti. Significa, in altri termini, affermare nei fatti la possibilità e, comunque la scelta, di un movimento indipendente dei lavoratori. Non mi pare poco.”

Giulio. “(…) la questione rimane comunque mal posta: a cosa vale, infatti, creare nuove sigle sindacali se poi si ripercorrono le antiche vie concertative mille volte condannate e che finiscono poi per tornare a galla?”

Cosimo. “Su questo c’è il mio pieno accordo. Aggiungerei, a cosa vale sostenere vecchie sigle sindacali che percorrono convintamente le antiche vie concertative mille volte condannate e che vale poco criticare a parole e favorire a fatti militando al loro interno.”

Giulio. “La risposta non può essere né quella “tattica” fornita dall’USB (ci siamo opposti con tutte le nostre forze, abbiamo perso e, quindi, firmiamo per limitare i danni); né quella obiettivamente volontaristica fornita dalla Cub, volta a definire un discrimine tra sindacalismo di classe e sindacalismo concertativo al fine di ricavarsi uno spazio d’azione che le difficoltà della fase e lo scarso radicamento rendono però impraticabile.“

Cosimo. “Perché non può essere? Intanto è nel senso che esiste. Nell’area del sindacalismo di base vi sono state scelte diverse, queste scelte sono state motivate sulla base di un’idea generale della natura e funzione del sindacato che si intende costruire. Il fatto che le dimensioni di questi sindacati siano inferiori a quelle di CGIL CISL UIL toglie magari rilevanza alle loro scelte – probabilmente molti lavoratori, che peraltro non hanno molto interesse di regola nemmeno per le scelte di CGIL CISL UIL, non sono informati sull’accordo del 10 gennaio 2014 e sul dibattito che ha attraversato il sindacalismo di base – ma non toglie loro dignità politica.”

Giulio. “Oltre l’impegno e le energie profuse il sindacalismo di base pare dibattersi nell’antico dilemma: accettare accordi velenosi per evitare di essere emarginati, o rifiutarli con coerenza e determinazione per essere emarginati ugualmente.”

Cosimo. “Frase a modo suo illuminante, affermazione elegante il cui contenuto però è, lasciamelo dire, sin troppo brutale. In fondo affermi che il sindacalismo di base è irrilevante e qualsiasi scelta faccia resta tale. È come se dicessi: parce sepulcro.”

Ora, io credo che proprio l’ultima asserzione meriti una riflessione, nei limiti del possibile, pacata. A sostegno della tesi del compagno Giulio Angeli vi è un dato di realtà sin troppo evidente: la grande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici che aderiscono ad un sindacato sono iscritti a CGIL, CISL, UIL o a sindacati autonomi altrettanto inseriti nel meccanismo della concertazione come CISAL, CONFSAL, CSA, UGL ecc. e, per soprammercato, questi sindacati non hanno subito, nonostante scelte criticabilissime e, in alcuni casi, vivacemente criticate, fuoriuscite di consistenza rilevante – al contrario, quando dirigenti o gruppi di dirigenti sindacali ne sono usciti, anche con un certo qual clamore mediatico, non hanno portato affatto con sé masse rilevanti di lavoratori.

Proprio su questa questione però non è corretto, almeno a mio avviso, utilizzare come unico criterio di giudizio il calcolo della consistenza associativa delle singole organizzazioni: non per un aristocratico disprezzo nei confronti dei lavoratori così come sono, ma sulla base del fatto che un sindacato, quantomeno per un libertario, non può essere valutato alla stregua di un supermercato.

Se, infatti, giudichiamo un sindacato non sulla base del “successo” commerciale ma dell’efficacia nella lotta per la tutela degli interessi dei lavoratori – si badi bene, non sto ipotizzando un sindacato rivoluzionario, mi accontento di un sindacato classista – la consistenza associativa va valutata in maniera realistica.

Un sindacato che abbia un numero rilevantissimo di iscritti che sono tali, faccio un caso assolutamente comune, perché fornisce a prezzo conveniente – e reso possibile dalla presenza di finanziamenti statali e padronali – servizi di varia natura, non solo non è in grado di sviluppare lotte radicali ed efficaci ma ha tutte le ragioni per temerle, visto che determinerebbero la rottura degli accordi che gli garantiscono risorse economiche, diritti, ruolo e potere.

Non solo: questo tipo di sindacato – simile a quei grandi eserciti mercenari che si aggiravano in Europa nel diciassettesimo secolo ed i cui capi avevano cura di evitare scontri che ne avrebbero messo a repentaglio la consistenza e messa alla prova la combattività – tratta rigorosamente prima sui propri interessi in termini di finanziamenti e diritti e solo poi su quelli generali dei lavoratori, sino al punto da scambiare questi con quelli. La cosa la si è potuta ampiamente vedere di recente nei casi del contratto dei metalmeccanici che ha posto definitivamente fine all’anomalia FIOM, che tanto ha racconsolato in questi anni molte brave persone progressiste e di sinistra, e dell’intesa sui contratti del pubblico impiego che ha, nei fatti, rimesso in piedi la concertazione nel settore pubblico dopo anni di proclami anticoncertativi del governo, in cambio di concessioni salariali ampiamente oltre i limiti del ridicolo. Se quanto sinora rilevato non è del tutto sbagliato, ne consegue che:

  • le dimensioni formali di un’organizzazione sindacale non ne misurano la forza e l’efficacia, che dipendono necessariamente anche da altri fattori quali la capacità di sviluppare, coordinare, condurre a buon fine conflitto. (Naturalmente quest’asserzione, come qualsivoglia asserzione, se portata oltre i limiti di validità, diventa una sciocchezza. È ovvio che un sindacato, e cioè non un’organizzazione politica che ha altre regole d’ingaggio, deve avere o, quantomeno, puntare ad avere una presenza non marginale fra i lavoratori);

  • l’indipendenza dal padronato e dalla stato non risponde ad un’esigenza di purezza, anche se un’esigenza quantomeno di coerenza e di decenza non fa assolutamente male, ma è funzionale alla possibilità di promuovere lotte efficaci e tali da dare risultati. Faccio, a questo proposito, alcuni esempi concreti: in settori strategici come quello dei trasporti e dell’igiene urbana, una serie di recenti mobilitazioni che hanno avuto, e speriamo – e per noi “sperare” significa agire perché la speranza si realizzi – avranno, una forte adesione ed efficacia, i sindacati che NON hanno firmato, pagando dazio, l’accordo infame hanno potuto indire sciopero mentre quelli, più realisti ed avvertiti secondo il senso comune, che l’hanno firmato hanno dovuto stare fermi.

In sintetica conclusione, se il sindacato che riteniamo utile deve essere uno strumento funzionale ad organizzare la lotta, ne consegue che non può essere un corpaccione molliccio, malato, corrotto ma deve essere, al contrario, adeguato allo scontro, capace di produrre una cultura del conflitto, libero di muoversi e quindi senza obblighi da onorare e favori da restituire.

Certo, lo sviluppo di un sindacalismo conflittuale, classista, radicale non risponde a tutte le esigenze della lotta fra le classi e dei movimenti di opposizione sociale; al contrario serve molto altro e su più terreni, ma è una condizione ineludibile per lo sviluppo di una reale opposizione sociale ed assolutamente favorevole alla stessa crescita di una forte area propriamente libertaria.

Cosimo Scarinzi

NOTE

[1] ANGELI, Giulio, “Un contributo al dibattito sull’intervento sindacale”, in Umanità Nova n.36 / 2016


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