A mo’ di premessa
Ritengo da tempo che sia buona regola, quando si ragiona dello scontro politico e sociale, non concentrarsi sugli eventi posti in evidenza dal cono di luce mediatico ma cercare di cogliere i segnali che si danno nella struttura profonda delle relazioni di produzione e di potere.
D’altro canto ogni regola prevede l’opportunità di deroghe soprattutto quando la situazione è talmente complessa da rasentare l’opacità e può essere opportuno riflettere su alcuni eventi che si danno proprio sul piano della comunicazione ma che possono essere assunti come scandagli utili per comprendere la partita in corso.
Partiamo appunto da un evento per molti versi singolare. Maurizio Landini, il capo della più importante organizzazione sindacale nazionale, dichiara alcune settimane addietro che crede sia arrivato il momento di una vera e propria rivolta sociale perché avanti così non si può più andare.
Ora è noto che Maurizio Landini si caratterizza per una modalità di comunicazione talmente vintage, un po’ alla Giuseppe Di Vittorio, da funzionare bene dal punto di vista retorico proprio perché usa un linguaggio non usuale da parte dei dirigenti sindacali tanto che lo si potrebbe definire un populista.
D’altro canto il proporre una rivolta sociale appare spropositato per chi abbia un’idea della natura sociale, della struttura, dell’attività effettiva della CGIL, degli accordi che firma e, nello stesso tempo, scatena la reazione della destra che lo denuncia come un pericoloso sovversivo.
Landini ha, sarebbe stato strano il contrario, chiarito che non intende con le parole “rivolta sociale” un ricorso alla pratica della violenza ma ciò è acqua fresca.
Sembra insomma parlare di una mobilitazione politico sindacale un po’ più vivace rispetto a quelle alle quali CGIL CISL UIL ci hanno abituato negli scorsi anni.
Se però incrociamo l’appello barricadero con l’insistenza sul fatto che il governo in particolare, ma anche l’assieme dei suoi interlocutori padronali delegittimano la CGIL, è possibile un’interpretazione forse un po’ maliziosa ma credo fondata della sua affermazione.
Proverei a tradurla così, se governo e padronato insistono nell’abbandono del corporativismo democratico, quello che nel linguaggio corrente viene chiamato concertazione, e trattano i sindacati istituzionali come zerbini, la tensione sociale non potrà che crescere. Insomma la CGIL si differenzia, e non è la prima volta, dalla CISL proprio sul fatto di assumere che ha governi amici e governi nemici mentre, come è noto, per la CISL TUTTI i governi sono amici.
Vi è, questo è bene ricordarlo, una discontinuità nella continuità, l’andamento dei salari, lo smantellamento di scuola, sanità, trasporti e in genere il welfare sono oggi più pesanti che in passato ed è evidente che non sarà facile ottenere concessioni di qualsiasi tipo.
La necessità di una scommessa
È bene ricordare molto brevemente non solo le ragioni della necessità, nonostante le evidenti difficoltà, di una mobilitazione generale delle lavoratrici e dei lavoratori ma le ragioni dell’urgenza della ripresa di iniziativa generale.
Guerra esterna e guerra interna
Siamo in un quadro il cui lo scontro fra un impero statunitense per certi versi in declino ma proprio per questa ragione, se possibile, più pericoloso e un blocco ascendente che vede il suo punto di aggregazione nella Cina, si sviluppa su almeno tre fronti dei quali due, quello Russia – Ucraina e quello Israele – Iran aperti e uno, quello più importante e cioè quello fra Cina e USA, sullo sfondo ma se possibile più preoccupante.
In questo contesto, per quel che riguarda l’Italia, cresce la spesa militare, vi è un aperto processo di militarizzazione della società a partire dalla scuola e con il DDL 1660 una stretta repressiva senza precedenti.
Questa deriva colpisce le stesse relazioni dirette fra lavoratrici e lavoratori da una parte e padronato pubblico e privato dall’altra. L’esercizio del diritto di sciopero si vede sottoposto a vincoli sempre più pesanti.
Sul piano sindacale solo l’area del sindacalismo di base si caratterizza, al di là delle differenze di valutazione su singoli temi, per l’opposizione alla deriva militarista e può costruire una positiva dialettica con i movimenti antimilitaristi e pacifisti.
La questione salariale
L’andamento dei salari vede da decenni la continua erosione dell’inflazione che, tranne rare eccezioni, non è contrastata da contratti che, nel migliore dei casi sono al massimo un recupero assai parziale di quanto si perde.
Una valutazione dell’andamento dei salari deve tener conto in particolare del fatto che la collocazione nella fascia del lavoro povero, quello di chi pur lavorando, non ha un reddito tale da garantirgli una vita decente, riguarda milioni di salariati.
Parlare di salario, d’altro canto, significa ragionare oltre che sul salario diretto su pensioni e salario sociale, sull’accesso ai servizi, a un’assistenza sanitaria decente, al diritto all’abitare e, in genere, al welfare, sulla stessa manovra di bilancio in discussione, tutti terreni in cui si rende evidente una sempre più radicale polarizzazione sociale.
Su questo terreno non sono mancate mobilitazioni positive ed importanti, mi riferisco in particolare agli scioperi del trasporto ferroviario e di quello pubblico locale che hanno visto nelle ultime settimane una massiccia adesione, sia che fossero indetti dal sindacalismo di base, sia che lo fossero dai sindacati istituzionali.
Si tratta, come scrivevo, di lotte importanti e di esempi positivi per la nostra classe ma è anche vero che in sé sono espressione di settori della classe che, per la loro collocazione, hanno un forte potere contrattuale.
Ciò che oggi a mio avviso manca, o almeno non c’è in misura adeguata, è una capacità di trasmettere le esperienze e gli insegnamenti dei settori d’avanguardia all’assieme della nostra classe, vi è insomma un deficit di iniziativa soggettiva.
Lo sciopero del 29 novembre
Lo sciopero del 29 novembre ha una storia sul piano formale, che non è il più importante, ma che è bene ricordare abbastanza articolata.
Viene infatti indetto, mi scuso se mi è sfuggita qualche indizione:
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il 16 ottobre dalla Confederazione Unitaria di Base e dal Sindacato Generale di Base;
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il 30 ottobre da CGIL e UIL;
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il 2 novembre da Adl Cobas, Camere del Lavoro Autonomo e Precario, Confederazione Cobas, Sial Cobas.
Ora, è inutile insistere troppo sul fatto che CGIL e UIL hanno piattaforme e prospettive diverse da quelle del sindacalismo di base e che, di conseguenza, hanno indetto lo sciopero nella stessa data scelta da CUB ed SGB perché, in qualche misura, obbligate dalla stessa legislazione antisciopero che pure hanno accettato molto serenamente per decenni quando non l’hanno favorita.
Le successive indizioni vanno interpretate come prodotto della valutazione da parte delle organizzazioni che le hanno fatte che si desse la possibilità di una riuscita della mobilitazione.
In ogni caso, ci troviamo di fronte a una giornata di sciopero che vede in campo gran parte del sindacalismo di base da una parte e CGIL e UIL dall’altra.
Va da sé che un fronte così largo dovrebbe favorire la partecipazione allo sciopero e alle manifestazioni che vi saranno in quella giornata.
La domanda o meglio la scommessa che segue è se sia nelle cose una ripresa del conflitto sociale e sindacale al di là delle appartenenze delle lavoratrici e dei lavoratori.
Lasciando da parte la pretesa di prevedere un futuro che come è noto riposa sulle ginocchia degli dei, è un fatto che il 29 novembre, sul versante della soggettività organizzata, si daranno relative peculiarità:
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l’unità di larga parte dell’area del sindacalismo di base che negli ultimi anni è sembrato troppo spesso un campo di Agramante. È vero che segnali in questa direzione si avevano da alcuni mesi ma la convergenza che si è data sul 29 novembre è, obiettivamente, inusitata;
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la divisione del fronte sindacale istituzionale. Come ho già detto non è una novità assoluta ma in questo caso le tensioni appaiono particolarmente forti. In altre occasioni sono rientrate abbastanza rapidamente, non è scontato che avvenga anche in questo caso. Ad ogni modo si tratta di dinamiche da seguire con attenzione;
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d’altro canto con un governo che fa della cosiddetta disintermediazione e cioè della fine della concertazione fra sé e i lavoratori un obiettivo dichiarato i margini perché si possa arrivare ad un accordo che veda protagonista la CGIL sono, ad essere buoni, assai modesti. È, a ben vedere, probabile che Maurizio Landini, fatte sfilare le sue truppe ed incassato il plauso dell’opposizione parlamentare, punti tutte le sue carte sui referendum come forma effettiva di “rivolta sociale” a bassa intensità.
Un tema infine si ripropone. L’unità tattica del sindacalismo di base sullo sciopero è, la cosa va da sé, necessaria. C’è da domandarsi, e da farlo sul serio, se però è sufficiente.
A mio avviso la questione non va posta da un punto di vista moralista e improduttivo. Che l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori sia un bene lo sappiamo infatti a memoria. La questione è se i gruppi che animano il sindacalismo di base hanno l’ambizione di gestire delle aziende familiari o poco più o se, con qualche decennio di ritardo a mio avviso, non sono disposti a porsi l’esigenza di dar vita ad un’aggregazione che per qualità e quantità sia utile ed interessante per le lavoratrici ed i lavoratori.
Il 29 novembre, in ogni caso, sarà un’occasione per portare e rendere visibile sui posti di lavoro e nelle piazze la nostra opposizione al padronato e al governo, cerchiamo di andare oltre in una prospettiva di lungo periodo costruendo una mobilitazione articolata ed efficace.
Cosimo Scarinzi