Sfruttati da morire. PCTO/Alternanza scuola – lavoro

Cinque studenti morti in PCTO tra gennaio e marzo 2025: questi i dati ufficiali recentemente forniti dall’INAIL. L’acronimo significa “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”, la definizione pretenziosa con cui è stata rinominata da qualche anno l’alternanza scuola lavoro, l’attività che preleva gli studenti dai banchi per affittarli alle imprese. Cinque studenti morti in tre mesi è un’enormità. Ma è chiaro che, se il mondo del lavoro è fatto di precarietà, di sfruttamento, di ricerca del profitto, di mancanza di sicurezza, tanto da produrre una strage fatta di 3 morti al giorno, anche gli studenti che vengono sbattuti in una situazione simile sono esposti a rischi che troppo spesso si traducono in tragedie.

Fra il 2017 e il 2022 ci sono stati 21 morti e centinaia di migliaia di infortuni tra gli studenti in alternanza: considerando che nel 2020 e parte del 2021 a causa del covid le scuole hanno funzionato con didattica a distanza e le attività interne ed esterne sono state ridotte o annullate, il dato è ancora più spaventoso. Ma spaventoso è anche il silenzio che avvolge questa situazione. Se ci è ancora familiare il nome di Lorenzo Parelli, morto nel 2022 schiacciato da una trave di acciaio di 150 chili durante uno stage in fabbrica, il nome di tanti altri studenti è pressoché sconosciuto e la cronaca non ne fa menzione più di tanto, ingoiandoli dentro i numeri clamorosi dei morti sul lavoro, al punto che i dati delle morti studentesche, quando andiamo a leggerli scorporati, ci lasciano quasi increduli. Eppure è così.

Dopo i 21 morti censiti dal Ministero dell’Istruzione tra il 2017 e il 2022, nel 2023, dopo le proteste successive alla morte di Lorenzo Parelli che chiedevano l’abolizione del PCTO, il governo rispose istituendo il fondo INAIL per il risarcimento degli studenti morti in alternanza. Da allora decessi e infortuni di studenti in alternanza sono censiti appunto dall’INAIL. Ben 12 sono gli studenti morti nel 2023, 13 quelli morti nel 2024, cinque in questo scorcio di 2025.

Il modello dell’alternanza scuola lavoro risale al 2003, ma diventa obbligatorio dall’anno scolastico 2015-16 con la legge 107, la “buona scuola” di Renzi. Viene presentata all’epoca come una forma di “regolarizzazione” delle pratiche di stage e tirocini già ampiamente diffusi; in realtà, come fu immediatamente denunciato da chi a quella riforma si oppose, la buona scuola incardinò l’alternanza scuola lavoro nel sistema scolastico, ne istituì l’obbligo, ne definì un monte ore fisso e un ventaglio di possibili declinazioni, estese la deriva aziendalistica della scuola pubblica, sottrasse ore alla formazione e allo studio, generalizzò la pratica del prestito di studenti al mondo del lavoro, esponendoli tra l’altro senza tutele alla giungla dello sfruttamento. Le morti e gli innumerevoli infortuni lo dimostrano. Il governo era piddì, le ministre dell’istruzione dell’epoca, in sequenza, erano Giannini e Fedeli, quest’ultima proveniente dai ranghi dirigenziali CGIL. Tanto per dire quanto possa essere credibile l’opposizione da operetta al PCTO che sentiamo ora provenire da piddì e CGIL.

Il diverso monte ore dell’alternanza scuola lavoro già denotava inoltre la natura classista di questo dispositivo: 90 ore negli ultimi tre anni del liceo, 150 ore nei tecnici, 210 nei professionali. La lettura è perfino banale: meno ore sottratte allo studio per chi avrà ruoli sociali di dirigenza, più ore sottratte allo studio per chi dovrà lavorare, soprattutto per chi lo farà in modo meno qualificato.

Va da sé che anche le sedi di svolgimento dell’alternanza sono molto diversificate, con diverse modalità di coinvolgimento operativo degli studenti: studi di professionisti, redazioni di giornali, uffici amministrativi e logistici per i licei; settori direttamente produttivi, fabbriche e ristorazione per i tecnici e i professionali.

Nel 2017 il Decreto 195 definisce un Regolamento dell’alternanza e nel 2018 escono le Linee guida per quella che ormai si chiama PCTO. Si asfaltano le lotte di studenti e    lavoratori della scuola che ne chiedevano l’abolizione, si dà ascolto al forum delle associazioni di studenti, ai sindacati concertativi, a quei settori funzionali al mondo delle imprese con cui governi e istituzioni interloquiscono; si tiene conto degli obiettivi di Confindustria e delle associazioni imprenditoriali, e anche degli interessi degli enti locali, che hanno il monopolio della formazione professionale. Nelle scuole si costruisce una enorme sacca di lavoro burocratico e un enorme spreco di risorse umane ed economiche per i mille adempimenti collegati alla gestione del PCTO: stesura di convenzioni con le aziende, gestione del monte ore di ogni studente, rendicontazione, certificazione delle competenze e rilascio delle skill cards, iniziative di formazione alla sicurezza. Perché sulla carta la questione sicurezza riceve attenzione. Peccato che per gli studenti, come per i lavoratori, le iniziative di formazione siano spesso esclusivamente un obbligo formale da assolvere, un’operazione di facciata che ha poco a che fare con la sicurezza vera. Peccato che, una volta “formati” sulla carta, gli studenti vengano catapultati in una situazione dove la sicurezza non c’è, in barba a tutte le firme e a tutti i bolli messi sui DVR. La scia di sangue delle morti e degli infortuni in alternanza parla chiaro.

Ma non ci si ferma qui. Da un paio d’anni la situazione è divenuta ancora più pesante. L’alternanza scuola lavoro concepita sugli ultimi tre anni della scuola superiore tende sempre più a coinvolgere anche gli anni precedenti, estendendosi al biennio, quello che teoricamente sarebbe il periodo coperto dall’obbligo scolastico.

Lo scorso 21 maggio il Senato ha approvato all’interno del decreto PNRR scuola per il 2025-26 una modifica alla normativa che rende possibile, negli istituti tecnici, anticipare di un anno l’alternanza scuola lavoro a partire dalla seconda classe, coinvolgendo studenti quindicenni.

Del resto, un simile provvedimento si collega ad altri, già avviati, che tendono ad accorciare sia il percorso scolastico   (da 5 a 4 anni) sia il tempo destinato alla didattica, aumentando il tempo trascorso in azienda e affidando addirittura alle aziende ore di docenza nelle materie di indirizzo all’interno delle scuole. La quadriennalizzazione dei licei, il cui iter sta procedendo, e l’istituzione della filiera quadriennale degli istituti tecnici e professionali, già in vigore a livello sperimentale, impongono di anticipare di un anno il PCTO, a cominciare dalla seconda classe, per assicurare alle aziende il famigerato triennio di risorse studentesche. La filiera tecnico professionale, inoltre, come già abbiamo avuto modo di segnalare, vede un aumento massiccio delle ore destinate all’alternanza. Non solo. Il collegato Lavoro 2024 ha introdotto il contratto di apprendistato duale, incrementando il sistema di apprendistato già esistente e consentendo allo studente ancora in obbligo scolastico e in percorso di studio di poter accedere al contratto di apprendistato, diventando di fatto un lavoratore a tutti gli effetti, anche per un arco temporale lungo, passando dall’apprendistato di primo livello, quello finora consentito in percorso scolastico e privo di retribuzione, a quello di secondo e terzo livello, fino allo scorso anno preclusi agli studenti, con la possibilità di mantenere il contratto di apprendistato iniziato a 15 anni per tutta la durata della formazione, anche all’università o nel corso di un dottorato di ricerca, con una retribuzione che non può superare il 10% del salario minimo spettante.

Il meccanismo con cui le imprese sfruttano la manodopera studentesca è micidiale. È qualcosa di più di un processo di aziendalizzazione, è un vero e proprio travaso dell’impresa nel sistema d’istruzione e un assorbimento diretto degli studenti nel lavoro. Un meccanismo disastroso che occorre contrastare.

La lotta contro l’alternanza scuola lavoro non è facile perché si scontra con un processo in linea con i tempi e le esigenze di mercato, mascherato da modernismo contro una scuola presentata come un ferro vecchio, aldilà di qualsiasi retorica sulla necessità di ritorno allo studio tradizionale.

C’è una campagna martellante, che spesso fa presa anche su famiglie e studenti, che scredita lo studio e l’apprendimento a fronte di una presunta esperienza sul campo, facendo leva sulle tante cose che a scuola non vanno e che possono comprensibilmente generare insofferenza. C’è una narrazione dominante che attribuisce la disoccupazione giovanile alla non corrispondenza fra la preparazione scolastica e le richieste del mondo del lavoro: il cosiddetto “mismatch”, un disallineamento che qualche intervento premuroso cerca di colmare scaraventando quindicenni nel mondo del lavoro. C’è alla base un concetto distorto di che cosa significhi una scuola aperta al territorio e anche di cosa si intenda con il termine territorio, che non vuole dire rete dei profitti delle imprese.

Ma a fronte di tante difficoltà c’è anche la forza dell’evidenza. È chiaro che la presunta esperienza sul campo significa addestramento allo sfruttamento precoce. È chiaro che, nonostante tutti i difetti della scuola, la disoccupazione giovanile non dipende dal disallineamento fra preparazione scolastica e mondo del lavoro, ma da precise scelte politiche che impongono povertà e precarietà.

È chiaro che ridurre il tempo destinato allo studio e allo sviluppo delle proprie capacità cognitive per andare ad acquisire le competenze parcellizzate richieste in un dato momento da un’azienda locale vuol dire imparare alcune operazioni e sequenze esecutive che saranno immediatamente superate, il che significa precarietà e disoccupazione. È chiaro che scaraventare gli studenti in un mondo del lavoro regolato dal profitto a tutti i costi vuol dire esporli, oltre che allo sfruttamento, anche al rischio di infortuni e morte, che nel mondo del lavoro sono la regola quotidiana. Se non fosse chiaro ci pensa la scia di sangue degli studenti morti in alternanza a ricordarcelo. Con la determinazione di questa chiarezza occorre contrapporsi con forza alla violenza dello sfruttamento precoce rappresentata dall’alternanza scuola lavoro, in qualsiasi forma essa si presenti, unendo le forze di lavoratori e studenti per delegittimarla ed eliminarla dal sistema scolastico e formativo.

Patrizia Nesti

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