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La concorrenza e il signor Draghi. Ulteriori danni dall’ideologia del libero mercato.

La concorrenza e il signor Draghi. Ulteriori danni dall’ideologia del libero mercato.

Nella foga di esaltare le gesta del Governo Draghi, si creano dei cortocircuiti mediatici che, talvolta, degenerano nel grottesco. Prendiamo ad esempio il disegno di legge sulla concorrenza, inviato all’approvazione parlamentare in questi giorni: si tratta di una delle 42 “riforme” che l’Italia si è impegnata ad approvare per ottenere dall’Europa i finanziamenti del PNRR. Oltre ad essere una delle più importanti (ritenuta “abilitante” per la riuscita del piano) sarà anche la prima ad arrivare in aula.

I media stanno esaltando la capacità risolutrice del governo nel mettere ordine in una materia controversa e citano i gestori degli stabilimenti balneari, i notai, i tassisti come categorie interessate al provvedimento. La parte grottesca della narrazione consiste nel citare situazioni che non sono per nulla affrontate dalla legge: c’è una parte omissiva, ben più rilevante, su quanto si sta decidendo.

Nessuno si è posto la domanda sul perché sia considerata così importante questa riforma: lo stato italiano ha 97 procedure d’infrazione aperte da parte della Commissione Europea per il mancato recepimento delle Direttive dell’Unione o per violazione di normative europee. Di queste 97 solo 6 infrazioni riguardano il capitolo “concorrenza e aiuti di Stato”, eppure proprio questa materia è stata ritenuta prioritaria tanto da essere la prima a essere varata. Per completezza d’informazione segnalo che il maggior numero di infrazioni (19) riguarda le violazioni in materia di ambiente su cui non è previsto, nel PNRR, nessun intervento legislativo.

Le infrazioni alla concorrenza riguardano principalmente il mancato rispetto della Direttiva “Bolkestein” approvata nel 2006 dalla Commissione Europea. Si tratta della Direttiva che disciplina la gestione delle concessioni governative, cioè quegli atti con cui lo stato assegna a un privato l’utilizzo di un bene demaniale. Applicando la Direttiva, tutte le concessioni avrebbero dovuto essere messe a gara con regole chiare e pubblicità internazionale.

È una situazione che riguarda molte attività. Gli esercenti dei banchi nei mercati rionali sono titolari di una concessione governativa per l’occupazione di suolo pubblico che, se dovessero concorrere periodicamente con un’asta pubblica al rinnovo della concessione, si vedrebbero aumentare, e di molto, i costi fissi di gestione del banco, la precarietà e la povertà della propria situazione lavorativa.

Poi ci sono le concessioni per il demanio marittimo, rilasciate per gli stabilimenti balneari e per chi abbia l’utilizzo esclusivo di coste di mari, laghi e fiumi: in Italia sono 29.693 e di queste 21.581 pagano meno di 2.500 euro l’anno. C’è una commistione forte tra politici, locali e nazionali, e i titolari delle concessioni. Ci sono alcune famiglie che gestiscono ininterrottamente dall’inizio del ’900 dei tratti di spiaggia. Tanto per fare qualche esempio: il Papeete, che aveva fatturato 3,2 milioni di euro nell’anno in cui Salvini ci passò le vacanze e fece cadere il governo, paga 10.000 euro l’anno per tutta la struttura. L’Hotel Cala la Volpe, in Costa Smeralda, paga 512 euro l’anno per avere l’uso esclusivo di un grosso tratto del Golfo in cui può affittare camere da letto a 2.240 euro a notte. Nel 2018, il Governo Lega-5Stelle decise, fregandosene della Bolkestein e delle possibili maggiori entrate erariali, la proroga delle concessioni balneari fino al 2034. In questi giorni il Consiglio di Stato (che è il massimo organo della giustizia amministrativa) ha stabilito che la proroga era illegittima e che non potrà andare oltre il 2023.

I giornali parlano anche degli ordini professionali. In Italia esistono 26 ordini o collegi professionali: sono enti di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio di alcune professioni (medici, giornalisti, avvocati, commercialisti, geometri, ecc.). Gestiscono l’albo, l’esame di ammissione all’esercizio della professione, raccolgono i contributi e amministrano le casse di previdenza. Senza l’iscrizione all’ordine non si può esercitare una determinata professione e in Italia c’è il più alto numero al mondo di professioni disciplinate.

Per far capire quanto conti un ordine professionale, basti pensare ai notai e agli avvocati. Al momento dell’unità d’Italia, nel 1871, c’erano 22,1 milioni di residenti e 7.000 notai. In quegli anni lo status dei 17.000 avvocati era superiore a quello dei notai, spesso dipendenti degli studi legali di un certo livello per bollare gli atti redatti dagli avvocati. Oggi ci sono, in Italia 59,5 milioni di abitanti, 4.723 Notai e 240.000 Avvocati e si è invertito lo status del ruolo. È per questo (e per il fatto che, registrando tutto, non possono evadere le tasse) che i notai sono diventati la categoria professionale con il più alto reddito dichiarato pari a 400.000 euro l’anno, a testa, di media.

Si tratta di argomenti scomodi e divisivi per l’impatto che hanno nei bacini elettorali dei vari partiti: per questo il governo ha preferito, dove era indispensabile far garantire il rispetto di qualche direttiva europea, far decidere la magistratura e non fare alcun atto legislativo. Sempre per questo motivo di tutto questo nella legge non c’è traccia, anche se ne sono piene le pagine dei giornali. Per capire di cosa si occupi veramente la legge, e perché sia così importante, bisogna fare una premessa sulla natura dell’Unione europea.

L’Unione europea non è un “superstato” o uno stato federale. È nata, e ha continuato ad essere, un “mercato” dove i vari stati che ne fanno parte producono e scambiano merci e servizi. Tutte le direttive europee vengono emanate per rimuovere qualsiasi tipo di vincolo che crei ostacoli o distorsioni al mercato. Tanto per spiegarla meglio: finché un argomento (si tratti dell’equivalenza dei titoli di studio, del salario minimo, dell’età pensionabile, dell’assistenza sanitaria, o di altro) non è un problema per il “mercato”, l’Unione europea non se ne occupa. Se diventa un problema per il mercato (gli aiuti di stato alle imprese, la normativa antinquinamento, i deficit dello stato, ecc.) l’UE lo regolamenta attraverso trattati e direttive.

La teorizzazione che c’è dietro è quella del neoliberismo selvaggio. In Europa, in seguito alle lotte sociali e per la divisione in blocchi del mondo, era presente un sistema di assistenza sociale tra i più avanzati, a est come a ovest. Ai vari stati membri non è parso vero di poter utilizzare l’esaltazione del mercato comune e della concorrenza per effettuare operazioni di riduzioni di libertà e garanzie per i lavoratori e favorire i capitalisti “amici” con la scusa del “ce lo chiede l’Europa”.

Oltre al peggioramento delle condizioni di vita e lavoro, in ossequio ai dettami neoliberisti, si è scelto di limitare la presenza dello stato nella gestione diretta dell’economia. Per questo motivo, negli anni ’90 in Italia sono state fatte 114 operazioni di privatizzazione di aziende di proprietà dello stato, incassando 140 miliardi di euro e ponendosi come secondo paese al mondo (dopo il Giappone) per la quantità di beni privatizzati. Intanto il debito pubblico, che gli incassi delle privatizzazioni avrebbero dovuto ridurre, è passato dal 94% del PIL del 1990 al 109% del PIL del 2000.

A cosa siano servite le privatizzazioni è sotto gli occhi di tutti: le aziende sono state “risanate” aumentando le tariffe in maniera spropositata e non facendo alcun investimento. Oltretutto questo non ha garantito per nulla la “concorrenza” visto che si sono creati dei monopoli (il caso di Autostrade è esemplificativo) dove è il gestore che decide le tariffe e l’utenza non ha alcun miglioramento dei servizi.

Tanto per dare un’idea dei profitti fatti da chi ha acquistato le compagnie privatizzate, è significativo il caso delle banche, perché sono quotate in Borsa, quindi è facile vedere la differenza di valore acquisita in poco tempo e a quanto sia ammontato il regalo fatto vendendole sottocosto a imprenditori “amici”. La vendita del Credito Italiano nel 1992 ha fruttato allo stato 930 milioni di euro; dieci anni dopo, nel 2002, la stessa banca (che aveva cambiato nome in Unicredit) valeva 26,5 miliardi di euro. Il Banco di Napoli (ripulito dei crediti inesigibili per 6,2 miliardi di euro, posti a carico dello stato) fu venduto per 32 milioni di euro a BNL. Pochi anni dopo è stato rivenduto dalla BNL a 1 miliardo di euro. L’IMI è stato venduto, tra il ’94 e il ’96 a 2 miliardi di euro, 6 anni dopo capitalizzava 6 miliardi.

Gran parte di queste privatizzazioni furono gestite dall’allora direttore generale del Ministero del Tesoro, un certo Mario Draghi. Evidentemente proprio con queste privatizzazioni è stata notata l’affidabilità dell’attuale Presidente del Consiglio che, poco dopo, è stato assunto come vicepresidente da Goldman Sachs, una delle investment bank internazionali che, oltre ad aver spesso svolto il ruolo di advisor nelle privatizzazioni, aveva acquistato a prezzi di favore tutto il patrimonio immobiliare dell’ENI. La priorità di questa legge è legata proprio alla conferma dell’affidabilità di Draghi nei confronti di quei gruppi finanziari che ne hanno costruito la carriera politica e istituzionale.

Va anche tenuto presente che, per velocizzare l’approvazione, si è scelto lo strumento della Legge Delega: il Parlamento delega il Governo a realizzare una Legge (che poi si chiamerà Decreto Legislativo) limitandosi a dargli delle indicazioni di massima, senza definire e discutere il contenuto degli specifici articoli. Il che significa che, nella redazione del testo definitivo della legge, il governo avrà poteri ancora più discrezionali del solito.

Gli articoli di questa legge delega sono 32 e dentro c’è un po’ di tutto, il perno centrale della legge è però dato dall’art. 6, che prevede la privatizzazione delle società municipalizzate. Sono le società di proprietà dei comuni (che si occupano di trasporto pubblico locale, di rifiuti, gas, acqua, farmacie, ecc.) e che verranno messe in vendita o date in gestione ai privati.

Il decreto individua la competenza esclusiva dello stato sulle municipalizzate e individua nella tutela della concorrenza la modalità di esercizio della delega legislativa. Dà per scontato l’aumento delle tariffe e inserisce la privatizzazione come criterio prevalente di gestione, imponendo al Comune l’obbligo della decisione motivata in caso di gestione in proprio dei servizi e prevedendo la revisione periodica delle motivazioni. Simili a questo sono gli articoli sulla concorrenza nella Sanità. C’è un’ulteriore apertura ai privati, con la semplificazione delle procedure di accreditamento e convenzionamento e un minor livello di controlli.

Altri articoli sono di delega per decidere sulle concessioni per i porti, i gasdotti e le centrali idroelettriche, che serviranno a far trattare direttamente il governo con chi è interessato alla gestione, cioè le multinazionali dell’energia e della logistica o gli Stati, come nel caso dell’interesse della Cina nel sistema portuale italiano. In maniera analoga c’è la delega per le infrastrutture digitali, le reti e i servizi di comunicazione. Lì la partita sarà per il 5g e per il ruolo che giocheranno le imprese cinesi, oligopoliste del settore, in materia.

C’è l’indicazione di privatizzare la consegna delle raccomandate aventi valore legale (finora esclusiva delle Poste). Siccome in questo comparto viaggiano gli atti giudiziari, le messe in mora, le diffide legali, le multe, immaginiamo quali soprusi potranno venir fuori da una gestione privata tutta orientata al profitto. Nel pacchetto ci sono alcune norme semplificatrici per realizzare discariche e termovalorizzatori per i rifiuti e la gestione delle assicurazioni per le auto. Chiudono le procedure di nomina per le autorità antitrust.

Questa legge è l’ennesima applicazione del dogma della “libera concorrenza” sostenuto da quelli che teorizzano il capitalismo come migliore dei mondi possibili. Si sostiene che la pluralità di domanda e di offerta e la mancanza di vincoli legali alla piena libertà del mercato sia quella che consenta il miglior utilizzo dei fattori di produzione e la migliore forma di distribuzione dei beni.

Che questo dogma fosse completamente falso si è capito fin da subito: l’evidenza che il libero mercato non realizzasse nessuno dei benefici menzionati non ha però scoraggiato i suoi cantori. La mancanza di vincoli, che consente al capitalista di sfruttare in maniera selvaggia sia i lavoratori, sia la natura (la legislazione sociale, ambientale, per la sicurezza sul lavoro e gli stessi contratti di lavoro sono visti come vincoli al libero mercato), ha consentito la continuazione della propaganda ossessiva di questo mito.

Quelli che oggi vediamo messi in pratica in questa legge, e che vedremo nelle varie leggi di attuazione del PNRR non sono che gli effetti di questa teoria. Le conseguenza le stiamo pagando e le pagheremo in misura maggiore nei prossimi anni.

Fricche

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