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Nell’abisso di Calais. Terrore di stato e solidarietà.

Nell’abisso di Calais. Terrore di stato e solidarietà.

Spalla a spalla, stringendosi sottobraccio, hanno fermato lo sgombero. Ogni giorno a Calais le forze di polizia sgomberano gli insediamenti di fortuna dove vive chi prova a passare clandestinamente la Manica e raggiungere l’Inghilterra. La mattina di giovedì 4 novembre quando le camionette sono arrivate all’ex Lidl, sul terreno appena fuori città che si apre tra la ferrovia e il bosco, hanno però trovato decine e decine di persone determinate a impedire che la polizia distruggesse per l’ennesima volta l’accampamento, facendo a pezzi le tende, rubando teli impermeabili e sacchi a pelo. Ci sono membri delle associazioni e delle Ong che sono attive nella solidarietà, attiviste e attivisti locali, abitanti della zona, che si sono unit* alle persone rifugiate che vivono là. I reparti antisommossa, impreparati a fronteggiare questa azione solidale, si sono ritirati.

In fondo a quel terreno, dove si vedono i teloni colorati dei TIR oltre l’alta recinzione, c’è il parcheggio del Transmarck: l’area logistica dove il 21 ottobre è morto investito da un carico pesante un giovane di cui ancora non si conosce l’identità. È morto come Yasser, sudanese di 16 anni, che il 28 settembre è stato colpito a morte da un camion in quello stesso parcheggio, mentre cercava di nascondersi nel rimorchio di un mezzo diretto oltremanica.

Nelle ultime settimane altre quattro persone hanno perso la vita cercando di giungere in Inghilterra. Martedì 2 novembre un uomo è annegato dopo che la barca su cui cercava di attraversare il Canale con altri rifugiati si è rovesciata; mercoledì 3 un altro è annegato vicino Dunkerque; giovedì 4 un treno regionale ha investito un gruppo di eritrei che si trovavano nei pressi del loro campo e uno di loro – i media non hanno diffuso l’identità – è morto; sabato 6 è stato rinvenuto sulla spiaggia di Calais il corpo senza vita di un altro naufrago annegato, poco lontano da uno scafo pieno d’acqua. Sono 309 le vittime della frontiera franco-britannica dal 1999 e le morti sono sempre più frequenti. Le persone non muoiono però per disperazione o per avventatezza: è la politica di frontiera basata su controllo, violenza e terrore a ucciderle.

Chilometri e chilometri di muri, recinzioni e filo spinato sono stati eretti a Calais soprattutto dopo il 2016, con lo sgombero del grande campo non ufficiale che sorgeva a est della città e che veniva chiamato Jungle. Da quel momento, seppur con fasi alterne, i sempre più frequenti interventi della polizia hanno portato negli anni le persone a non concentrarsi in un unico luogo ma a creare più insediamenti di ridotte dimensioni, nella boscaglia, tra la vegetazione, in zone vicine all’autostrada o ad aree in cui sostano i camion. Molte aree verdi per questo sono completamente chiuse da alte reti metalliche, controllate da telecamere, mentre parcheggi, stazioni di rifornimento e stores per camionisti sono chiusi come fortini, presidiate da camionette di CRS e da guardie private con cani. Lo stesso accesso alla città, arrivando in autostrada da Lille, è chiuso da recinti invalicabili. Ben prima di raggiungere il porto le carreggiate sono ingabbiate in una rete e, ogni qual volta si crea una coda per il traffico, la CRS corre letteralmente a caccia di coloro che provano a cogliere l’occasione per salire su uno dei mezzi incolonnati.

Con la Brexit, gli accordi tra Francia e UK per il controllo dei confini sono stati implementati e lo scorso 20 luglio i ministeri degli esteri dei due paesi hanno steso una dichiarazione congiunta per aumentare la sorveglianza sulle coste francesi, raddoppiando la presenza di polizia per la seconda volta in un anno, estendendo le barriere fisiche e aumentando le forme di sorveglianza anche attraverso nuove tecnologie “smart”. I droni sorvegliano le spiagge; non solo a Calais ma lungo tutta la costa da Dieppe a Dunkerque.

Nel corso di quest’anno sono aumentati considerevolmente i tentativi passaggio a bordo di piccole imbarcazioni e gommoni. Secondo i dati della Prefettura marittima della Manica e del Mare del Nord di Cherbourg, tra il primo gennaio e il 31 agosto 2021 ben 15.400 persone hanno tentato l’attraversamento in barca. Nell’intero 2020 erano 9.500, nel 2019 erano 2.300, nel 2018 erano 600. La Manica tra Dover e Calais è larga 34 km: la costa inglese si vede chiaramente dalle dune e in quel tratto il traffico marittimo è molto intenso.

Pattugliamenti e controlli ultratecnologici sono presentati dalla propaganda anche come dispositivi per evitare disastri in mare e soccorrere chi si trova in difficoltà; nella realtà però ci sono molti casi in cui le persone a bordo di imbarcazioni in avaria non ricevono alcuna forma di aiuto nonostante le richieste di soccorso e, se sono fortunate, riescono a mettersi in salvo raggiungendo autonomamente la costa dopo ore alla deriva. È successo a un gruppo di eritrei a bordo di un gommone la mattina del 18 ottobre: il motore si era rotto in mezzo al Canale, hanno chiamato i soccorsi ma nessuno è arrivato, sono allora tornati a riva remando per 5 ore. Una volta approdati su una spiaggia a ovest di Calais hanno raggiunto a piedi, scalzi, con i vestiti ancora bagnati un punto di distribuzione delle associazioni per chiedere scarpe e indumenti asciutti.

Anche chi viene soccorso in mare non riceve alcun tipo di cura. I naufraghi condotti in porto a Calais dalla guardia costiera sono lasciati a se stessi sulla banchina e invitati ad andarsene, non vengono fornite loro cure mediche, non ricevono abiti asciutti o cibo, tanto meno assistenza psicologica. Solo alcune associazioni si occupano di queste emergenze, realtà solidali che quotidianamente subiscono intimidazioni da parte della polizia e che vedono la propria attività criminalizzata e spesso repressa.

Mentre gli arrivi di rifugiati a Calais e i tentativi di passare la Manica aumentano, si è fatta più dura negli ultimi mesi la violenza della polizia sulla frontiera franco-britannica. Ogni giorno ci sono a Calais circa sette sgomberi ma, in alcune giornate, si verificano fino ad otto interventi di sgombero. Queste informazioni sono raccolte da Human Rights Observers, ONG che dal 2016 documenta le violenze di polizia su quel pezzo di confine. L’associazione chiarisce che, con questo ritmo, di fatto ciascun insediamento viene sgomberato quasi quotidianamente. Se fino a qualche mese fa passavano almeno 48 ore tra uno sgombero e l’altro, adesso lo stesso sito può subire due sgomberi in meno di 24 ore.

Chi prova a riprendere i propri averi o la propria tenda durante un’operazione di polizia viene malmenato. Chi viene trovato nella propria tenda viene sbattuto fuori con violenza e, al termine delle operazioni, tutte le tende, i sacchi a pelo, i materassi e i teli impermeabili vengono sequestrati o fatti a pezzi e resi inservibili. Zaini, vestiti e tutto ciò che si trova dentro le tende, compresi i documenti di identità, vengono spesso gettati direttamente in discarica o comunque sono di fatto non più recuperabili. Quando infine viene offerta alle persone la possibilità di recarsi presso un centro per richiedenti asilo, ciò avviene sotto la minaccia dell’identificazione ai fini dell’espulsione, trasformando quello che in teoria sarebbe l’esercizio di un diritto in una deportazione sotto minaccia.

Nel mese di ottobre erano circa 1.800 le persone costrette a vivere in condizioni disumane, spesso senza neanche il riparo di una tenda, tra Calais e Grande-Synthe, piccolo comune alle porte di Dunkerque. Sono sudanesi, eritrei, somali, curdi, iraniani, afghani e vietnamiti. La maggior parte non ha accesso a cure mediche perché gli ospedali spesso rifiutano le cure ai rifugiati. Secondo First Aid Support Team, associazione che effettua interventi sanitari di primo soccorso nei campi, oltre alle malattie anche gravi causate dalle condizioni in cui la repressione statale costringe a vivere queste persone, molti necessitano di cure anche per le conseguenze dirette della violenza della polizia. Non solo per i colpi delle manganellate e dei proiettili di gomma che già possono provocare gravi ferite e mutilazioni ma anche per i morsi dei cani che vengono utilizzati dalla polizia.

La paura e il ricatto sono la costante quotidiana. Assieme alla violenza fisica la polizia esercita anche una fortissima violenza psicologica sulle persone che vivono nei campi. Ogni giorno infatti chi non vuol farsi derubare dalla polizia dei propri averi deve spostare le propria tenda e tutto quello che ha, è costretto a scegliere tra usufruire dei pochi servizi messi a disposizione dalle autorità o sorvegliare le proprie cose. Mentre gran parte delle associazioni e delle ONG che fanno assistenza e solidarietà sono continuamente prese di mira dalla polizia, quelle organizzazioni che forniscono servizi ai rifugiati per mandato della prefettura invece non solo agiscono liberamente ma sono funzionali ai sistemi di controllo e repressione. Ad esempio i furgoni che portano la colazione nei pressi dei campi arrivano quasi contemporaneamente agli sgomberi, in modo da obbligare le persone a scegliere tra fare colazione e salvare la propria tenda. Questo avviene anche per altri servizi come la doccia. Questa politica è chiamata con freddezza burocratica “evitare che si creino punti di appoggio stabili”. È di fatto una guerra che applica scientemente ogni genere di angherie per spingere le persone ad allontanarsi dalla costa e soddisfare così le richieste del governo britannico.

L’intensificarsi della repressione statale ha raggiunto alla fine di settembre un livello particolarmente grave. Lo stesso giorno della morte di Yasser, il 28 settembre, la polizia aveva effettuato un grande sgombero nell’area di Virval a Calais, dove abitavano circa 400 persone. Al termine delle operazioni l’intera area era stata dichiarata cantiere di costruzione e interdetta per ordine municipale, con divieto di stazionamento. Un divieto che oltre a proibire l’installazione di nuovi insediamenti vietava anche il transito e la sosta dei mezzi esponendo le associazioni a multe salatissime. Un provvedimento che molti temevano potesse essere replicato anche in altre aree di insediamento rendendo di fatto impossibile ogni forma di solidarietà.

In questo clima hanno iniziato a intensificarsi, su più piani, le iniziative di lotta. Venerdì 8 ottobre si è tenuto a Calais un corteo per Yasser organizzato da rifugiati sudanesi cui si sono uniti anche eritrei ed altre componenti della popolazione rifugiata oltre a molti solidali: circa 200 persone hanno manifestato per le vie della città nonostante il divieto delle autorità a portare la protesta nel centro, sotto i palazzi del potere. L’11 ottobre è iniziato uno sciopero della fame, ancora in corso, condotto da tre cittadini francesi Anaïs, Ludovic e Philippe, due attivisti e un cappellano. Gli scioperanti presidiano la Chiesa di St. Pierre a Calais, avanzando tre richieste: sospensione degli sgomberi durante la “tregua invernale” (in Francia dal 1 novembre al 31 marzo non possono essere eseguiti sfratti e sgomberi. Questa misura non è mai stata applicata per i rifugiati a Calais); stop alla requisizione illegale dei beni dei rifugiati durante gli sgomberi; apertura di un dialogo reale tra le autorità e le associazioni che non hanno il mandato della prefettura.

In tale contesto si è attivato un movimento di solidarietà che ha permesso di stringere rapporti più stretti tra attivisti, membri di ONG provenienti da altri paesi, associazioni locali. Va considerato che il clima di stretto controllo poliziesco che si respira in città, con camionette di CRS ad ogni angolo e la politica brutalmente razzista attuata dal governo fa sì che anche normali associazioni di volontariato si trovino ad agire sul terreno della protesta. Basti pensare che anche il passaggio, il 15 ottobre, della marionetta gigante Amal, performance finanziata dall’UE per sensibilizzare sulla condizione dei minori rifugiati, è diventata un’occasione di protesta a Calais, osteggiata dalle istituzioni. Lo sciopero della fame continua ancora, ormai al 35esimo giorno. Philippe ha deciso per motivi di salute di fermare la protesta il 25 ottobre ma Anaïs e Ludovic continuano la loro protesta, mentre lo scorso sabato 13 novembre centinaia di persone sono scese in piazza a Calais per sostenere le loro rivendicazioni.

Oggi la vita dei rifugiati a Calais è, ancora più che in passato, moneta di scambio nelle trattative tra Francia e Inghilterra. È chiaro che in vista delle elezioni presidenziali francesi del prossimo anno Macron sia pronto ad una ulteriore stretta repressiva sui confini: per questo anche segnali come quello del 4 novembre sono importanti. Il blocco dello sgombero da parte di una manifestazione composita di rifugiati, volontari, militanti e abitanti è un esempio importante di come l’azione diretta possa bloccare anche qualcosa di apparentemente inarrestabile come la politica degli sgomberi quotidiani a Calais.

Dario Antonelli

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