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La comunicazione della crisi

La comunicazione della crisi

Malgrado ciò che dicono alcuni, non esiste una legge naturale (legge dei salari), la quale determina la parte che va al lavoratore sul prodotto del suo lavoro: o, se legge si vuol formulare, essa non potrebbe essere che questa: il salario non può scendere normalmente ai disotto di quel tanto che è necessario alla vita, né può normalmente salire tanto da non lasciare nessun profitto al padrone. (MALATESTA, Errico, Il Programma Comunista Anarchico Rivoluzionario, 1919)
Ipotizziamo che, partendo da un feterminato focolaio, la lebbra si si stia espandendo in tutto il pianeta, colpendo ovunque un numero enorme di persone. I media mondiali sono pieni di informazioni e commenti d’ogni genere rispetto all’evento: dove si è sviluppata inizialmente l’epidemia, perché, come si sta espandendo, le varie strategie messe in atto dai governi per affrontarla, il fatto che tali strategie non sembrino atte ad affrontarla, dal momento che dilaga senza freno di anno in anno e che bisogna intensificarle sempre di più per evitare il disastro.
Poi, osservando meglio le cose, notiamo che esistono in questo oceano di informazioni alcune parole tabù: ad esempio Diaminodifenilsulfone, Rifampicina, Clofazimina… Si tratta della tipologia di antibiotici che possono essere usati con notevole successo per estirpare la malattia e che, in occasioni simili avvenute in passato, hanno svolto egregiamente il loro compito. Approfondendo la questione, scopriamo che non solo le strategie “antilebbra” messe in atto, od anche semplicemente discusse dai governi, non ne tengono assolutamente conto, ma che, anzi, questi fanno di tutto per non utilizzare i rimedi dimostratisi realmente efficaci e ve ne sostituiscono altri che, invece di curare la malattia, la aggravano, come dimostrato dagli stessi scienziati che hanno studiato l’uso delle terapie efficaci.
La vera notizia sull’epidema di lebbra, a questo punto, dovrebbe essere questa: i governi di tutto il mondo, pur lamentandosene ad oltranza, non fanno assolutamente nulla per debellarla, pur avendo in mano tutti gli strumenti per sconfiggerla, anzi fanno di tutto per aggravarla e diffonderla – una notizia che si bada bene dal divulgare in qualsiasi modo.
Per ciò che concerne la lebbra, si tratta come è ovvio di una assoluta invenzione; ma, con minime variazioni, è ciò che sta accadendo per la crisi economica mondiale degli ultimi – oramai – decenni.
Innanzitutto, la crisi odierna non è per niente una novità: nel 1873 e nel 1929 ce ne sono state di simili e per ciò che riguarda quest’ultima, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, contro di essa vennero messe in atto una serie di contromisure che risultarono efficacissime. Non solo, infatti, la bloccarono, ma crearono contestualmente un processo di enorme espansione economica e di redistribuzione della ricchezza definito, non certo a caso, i “trent’anni d’oro”.
Come nella ipotetica incontrollata epidemia mondiale di lebbra, i media di tutto il mondo sono e/o sono stati stracolmi di notizie e commenti su dove è nata la crisi, perché, come si è allargata all’intero pianeta, sulle varie strategie “anticrisi” ipotizzate ed attuate dai governi per affrontarla, sulla loro sostanziale inefficacia e necessità di reiterazione; anche qui, però, nemmeno una parola o quasi sul fatto che i governi non mostrino nemmeno lontanamente l’intenzione di utilizzare gli strumenti che, nel passato, hanno così brillantemente risolto la situazione ed insistono, invece, nell’utilizzare strategie che, a detta di chi ha ideato pratiche realmente efficaci, aggravano la crisi invece di risolverla.
Di nuovo, anche qui abbiamo le nostre parole tabù: propensione al risparmio, moltiplicatore, econometria… persino chi ha studiato professionalmente tali concetti e li conosce benissimo, evita accuratamente di usarli, come se temesse di bestemmiare in una chiesa.
Nel passato precapitalistico, le situazioni di difficoltà economiche maggiormente diffuse erano crisi di sottoproduzione – le carestie. Il capitalismo, utilizzando a pieno le risorse della Rivoluzione Industriale, ha fatto scomparire questo genere di crisi, ma ne ha prodotto un tipo diverso: la crisi di sottoconsumo. Nel passato precapitalistico, le tasche potevano essere piene, ma le vetrine desolatamente vuote; nel capitalismo, le vetrine possono essere stracolme ma ad essere carenti sono le possibilità di accesso al consumo di chi dei loro contenuti avrebbe bisogno. Anche le cosiddette “carestie” di oggi sono, in realtà, a ben guardare, fenomeni di sottoconsumo. Come quella del 1929 e di tante altre che l’hanno preceduta e seguita, anche la presente è senza dubbio una crisi di tal genere.
Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, il matematico e liberale inglese John Maynard Keynes cominciò ad interessarsi all’economia e si pose questa domanda: restando all’interno dell’ecomomia capitalistica e senza ricorrere ad un diverso modo di produrre e distribuire la ricchezza – il comunismo, insomma, nel senso originario del termine – come evitare questo genere di crisi? Questa domanda lo portò a creare la macroeconomia e la risposta che diede fu la seguente, semplicissima: di fronte ad una crisi di sottoconsuno occorre far ripartire i consumi. Individuò allora il meccanismo della propensione al risparmio, che fa si che, proporzionamente, la propensione in questione è maggiore fra i redditi alti che fra quelli bassi: chi possiede una maggiore quota di reddito, infatti, tende a tesaurizzarne una gran parte, cosa che è assai meno possibile per le fasce povere della popolazione. Di conseguenza, di fronte ad un aumento di reddito, le classi ricche lo dedicheranno in gran parte ad una ulteriore tesaurizzazione, mentre quelle povere tenderanno a spenderlo quasi immediatamente, reimmettendolo nel circuito economico. Questo processo fa scattare un altro meccanismo, sempre da lui formalizzato: il principio del moltiplicatore. Questo principio consiste nel fatto che ogni nuovo reddito speso ne crea altro, in virtù dell’aumento della richiesta di nuova manodopera per l’accresciuta richiesta di nuovi beni e/o servizi, questo a sua volta ne creerà altro tra i ceti poveri, che lo spenderanno a loro volta creandone ulteriore altro, ecc. Tra l’altro il meccanismo funziona anche al contrario, come demoltiplicatore: ogni decremento di reddito porta ulteriore decremento, il quale ne crea ulteriore, ecc. – e questo meccanismo, tra l’altro, è per Keynes all’origine delle crisi capitalistiche.
La sua proposta di soluzione era che i governi, di fronte ad una crisi, applicassero politiche di momentaneo deficit spending a favore delle classi con minima propensione al risparmio, individuando anche una serie di calcoli econometrici per indirizzare al meglio queste politiche economiche, redistribuendo il reddito tolto alla tesaurizzazione delle classi ricche verso le classi povere, rilanciando così l’economia. Quando, a partire dal New Deal roosveltiano negli Stati Uniti, la teoria keynesiana divenne prassi comune delle politiche economiche dei governi dal secondo dopoguerra a circa la metà degli anni settanta, la cosa funzionò alla perfezione – dando vita ai “trent’anni gloriosi” – e non si vede alcun motivo per cui non dovrebbe funzionare anche adesso.
Ciononostante, il circuito comunicativo del potere fa di tutto per non parlare di ciò. Negli anni passati, il nome del matematico ed economista inglese era citatissimo, sia pure in negativo, per esaltare le magnifiche sorti e progressive del “neo”liberismo: oggi, invece, si evita persino di nomimarlo, nel timore, evidente, che ci si possa ricordare del fatto che le sue politiche anticrisi avevano funzionato e che sarebbe il caso, se si decide di restare all’interno dell’economia capitalistica, di applicarle anche oggi.
Quale era il difetto, agli occhi delle classi dominanti, di queste politiche, nonostante il loro successo nell’impedire le crisi ed, anzi, creare un notevole sviluppo economico con tassi di disoccupazione che oggi riterremmo ridicoli ed un diffuso benessere? In effetti, esse funzionavano perfettamente da questo punto di vista, ma al prezzo – ad un certo punto ritenuto insopportabile – di una notevole perdita di controllo della forza lavoro.
Questa, ricevendo un discreto reddito da spendere, in parte da tesaurizzare e, altro aspetto delle politiche keynesiane di redistribuzione del reddito, potendo fare affidamento ad una rete di servizi sociali diffusa e gratuita, era assai meno soggetta ai piccoli e grandi ricatti padronali. In particolare, in presenza di un mercato del lavoro affamato di dipendenti causa il basso tenore di disoccupazione, quello del licenziamento. Di conseguenza, era assai più ribelle e pronta a rivendicare i propri diritti: le lotte degli anni cinquanta, sessanta e settanta furono l’espressione di questo stato di cose. Inoltre, dal punto di vista dell’aristocrazia capitalistica, c’erano troppi ricchi in giro, dal momento che le politiche di stato sociale avevano creato un forte nucleo sia di classe media benestante sia di piccoli e medi imprenditori che ricavavano discreti profitti dall’andamento regolare dell’economia e dai forti consumi di base. Troppa gente insomma che competeva con essa relativamente allo stile di vita, minando alla radice il senso di superiorità sociale che essi pretendevano.
Pertanto, agli inizi degli anni settanta, sfruttando anche il clima creatosi con lo shock petrolifero, l’aristocrazia capitalistica ed il potere politico decisero di porre termine a tali politiche e di tornare al tradizionale “liberismo”: insomma, di drenare ricchezza dalle classi lavoratrici (poi anche a quelle medie ed alla piccola/media imprenditoria) ed utilizzare i finanziamenti statali solo per se stessa. Il risultato l’abbiamo sotto gli occhi: perdita di reddito del lavoro dipendente e delle classi medie con conseguente loro proletarizzazione, aumento vertiginoso della disoccupazione, fallimento o comunque ridimensionamento economico di tutti coloro che, negli “anni gloriosi”, si erano arricchiti grazie al maggiore e regolare consumo sostenuto dal reddito delle classi lavoratrici e medie. L’allargamento della forbice sociale ha così portato, dopo varie di minore portata, alla crisi attuale ed ai processi di finanziarizzazione dell’economia – una situazione, insomma, che ha riportato il pianeta alla situazione pre 1929 (1).
Ora, è chiaro che i grandi media sono sotto il controllo dell’aristocrazia del dominio – e questi sono gli stessi che parlano della crisi come se essa non avesse soluzioni a portata di mano che non siano quelle che, dal punto di vista keynesiano, portano a processi di demoltiplicazione e perciò, invece di sanarla, la aggravano. L’attuale aristocrazia del domino ed il potere politico che ne è parte integrante, infatti, sono nate e cresciute ideologicamente all’interno della reazione volta alla ripresa del controllo sulla forza lavoro, nonché alla riaffermazione dell’esclusività del suo stile di vita (2).
Idem. Prima di dare un centesimo in più a chi vive fuori dal suo stretto giro si farebbe, piuttosto, tagliare le palle.
Di qui il terror panico che coglie i dominanti di fronte al fatto di sapere benissimo che l’unica via d’uscita alla crisi – all’interno del capitalismo – consiste proprio in quel centesimo che non vogliono dare. D’altronde, la crisi è esattamente ciò che loro vogliono, per rendere il loro club ancora più esclusivo ed ancora più ricattabili le classi lavoratrici: persistono, pertanto, nelle loro politiche demoltiplicative finché possono – insomma, finché non trovano una opposizione reale e forte fino al punto da costringerli a fare un minimo di concessioni. La storia recentissima degli Stati Uniti è indicativa a questo proposito: il presidente Obama era stato eletto proprio in quanto aveva promesso di fare un minimo dietro front rispetto alle politiche “neo”liberiste dei suoi predecessori ma, durante quasi tutto il primo mandato, non aveva fatto sostanzialmente nulla in tal senso, continuando a regalare soldi ai vari “Wolfs of the Wall Street”; ha cambiato rotta solo di fronte ad un movimento di massa di enormi dimensioni – quell’Occupy Wall Street tanto per cambiare abbondantemente censurato nella sua portata dai nostri media. Oggi gli Stati Uniti, di fronte ad un minimo di redistribuzione del reddito a favore delle classi lavoratrici, sono usciti dalla crisi e viaggiano ad un ritmo di crescita del 5% annuo, ma con l’aristocrazia del dominio che rosica ed attende il momento opportuno per ritornare alla “rivoluzione capitalistica” degli anni passati.
Questo, insomma, è ciò che c’è dietro la strategia comunicativa dei grandi media relativamente alla crisi: sovraesporre l’informazione su temi del tutto secondari, continuare a proporre le politiche demoltiplicative come “soluzione” alla crisi, rendere tabù la soluzione a portata di mano. Da parte nostra sarebbe il caso, invece, di tornare a discutere non solo di una via d’uscita interna al capitalismo – che oramai sappiamo essere solo momentanea, anche se possibile – ma anche e soprattutto di un modo diverso di vivere e di produrre: come si diceva non molti anni fa, di un altro mondo diverso e possibile.
Enrico Voccia
1 Vedi VOCCIA, Enrico, “Saremo il 99,99%”, in Umanità Nova, 2/3, 2016.
2 idem

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