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Fronti di guerra. Frontiere, CPR, prigioni libiche, missioni all’estero

Fronti di guerra. Frontiere, CPR, prigioni libiche, missioni all’estero

La linea invisibile


I confini sono linee tracciate sulle mappe. In mare, in montagna, tra i boschi sono invisibili, fatti di nulla. Solo uomini e donne in armi li rendono veri, solo gli eserciti trasformano quei sottili tratti neri nella barriera che separa i salvati dai sommersi, chi ha la libertà di muoversi e chi non ce l’ha.

Il Mediterraneo è da decenni un enorme sudario azzurro che avvolge e inghiotte le vite di migliaia di uomini, donne e bambini in viaggio. Chi lucra sulle loro vite, chi li tortura e li ricatta nelle prigioni libiche lo fa con il beneplacito del governo e del parlamento italiani.
L’esternalizzazione delle frontiere consente di eludere i tenui lacci imposti dalle convenzioni sui diritti umani, costantemente disattese dai governi dei paesi del sud Europa. Gli accordi tra Italia e Libia sono stati costantemente rinnovati, nonostante la guerra civile che ha spezzato in due il paese dopo il 2011 quando le forze armate francesi, inglesi, statunitensi e italiane attaccarono il paese nordafricano. L’antica colonia del regno d’Italia è oggi terreno di conquista tra potenze concorrenti, anche se formalmente alleate sotto l’ombrello della NATO.
Fornire pattugliatori, armi ed addestramento alla guardia costiera libica, che non esista ad impiegarle contro i migranti intercettati in mare, rende il governo italiano complice attivo delle violenze cui sono sottoposte le persone che cercano di raggiungere l’Europa, senza avere in tasca i permessi necessari, i documenti giusti. Le migrazioni verso i paesi ricchi sono frutto della ferocia predatoria delle politiche neocoloniali che, nel nostro paese, sono rappresentate soprattutto dalla bandiera gialla con il cane a sei zampe dell’ENI, i cui interessi sono sostenuti dalle missioni militari all’estero.

Lo Stato apre o chiude le frontiere in base alla convenienza del momento. Alle imprese, legali ed illegali, servono lavoratori e lavoratrici ricattabili, disponibili ad accettare condizioni di vita e di lavoro altrimenti intollerabili. Nel 2020, nella prima fase della pandemia, le frontiere erano serrate per quasi tutt* ma la la necessità di braccia a poco prezzo in agricoltura rese più porosi i confini.

Sappiamo bene che, di là del pietismo verso le vittime delle frontiere, la guerra ai poveri è scritta nelle leggi che rendono impossibile entrare legalmente nel nostro paese: la clandestinità non è una scelta ma un’imposizione dello Stato italiano. La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, approdando ad una sorta di “diritto amministrativo del nemico”.

Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei “diritti” umani, perché se la linea di demarcazione tra cittadini e non cittadini passa da quello che si è, uomini, donne e bambini si ritrovano nel limbo del non umano, dove le regole applicate agli umani non valgono. Diventa banalmente normale che gli umani subiscano lo stesso trattamento inflitto a tanti animali non umani.

La violenza di polizia e militari lungo le frontiere d’Europa è la normalità, non l’eccezione. Sul confine tra la Polonia e la Bielorussia, vivono e muoiono centinaia di migranti, cui la dittatura bielorussa, per fare pressione sull’UE, ha concesso visti di ingresso con il miraggio dell’Europa. Le frontiere polacche restano sigillate: per chi è intrappolato in Bielorussia la vita è un terno al lotto.

La frontiera ad est dell’Italia è stata militarizzata contro chi approda nel nostro paese dalla rotta Balcanica, dopo viaggi che durano anni tra botte, torture, ricatti e stupri. I respingimenti di massa, specie al confine tra Croazia e Bosnia, sono segnati da pestaggi violenti, furti di soldi, cellulari, scarpe. Nel nord ovest polizia e militari italiani collaborano con i colleghi francesi per cercare di fermare chi vuole continuare il proprio viaggio bucando i confini francesi a Ventimiglia come in Val Susa.

A Ventimiglia arrivano da anni. Il loro tempo è fatto di attesa. Attesa dell’occasione buona per passare. Tanti provano e riprovano. Qualcuno ci lascia la pelle: nelle gallerie ferroviarie o sull’autostrada, dove un cartello fisso avvisa gli automobilisti della presenza di pedoni. Ai caselli ci sono gendarmi ad ogni punto di accesso: chi ha la pelle scura viene quasi sempre fermato. Per gli altri basta un’occhiata fugace: la loro pelle chiara è il passepartout.

Nelle giornate e notti impastate del nulla dell’attesa molti bivaccano dove possono, spesso in luoghi freddi e pericolosi come il greto del torrente Roja, che fa paura quando le piogge lo gonfiano e scende ruggendo dai monti. Le tende sono sgomberate ciclicamente dalla polizia. Chi viene preso finisce su un pullman per il sud Italia o deportato nel paese di origine.
È un tragico gioco dell’oca: chi torna alla partenza non sempre riesce ad arrivare. La rotta che attraverso il Monginevro porta i migranti in Francia, dove i turisti passano senza alcun controllo, è un luogo pericoloso da attraversare per chi non ha le carte in regola per vivere e muoversi attraverso l’Europa.
Ogni giorno decine di migranti provano a passare, rischiando la vita nella neve, spesso senza abiti e scarpe adatti, senza conoscere la montagna, le condizioni meteo, il pericolo di valanghe. Tanti vengono respinti più e più volte. I gendarmi che li pescano lungo la strada li caricano sulle camionette e li lasciano al di là del confine, anche in piena notte quando il freddo morde le carni.

Lungo questi confini, oltre ai cani, ai manganelli, ai militari ci sono solidali disposti a mettersi di mezzo, a lottare per disinnescare il dispositivo della frontiera. In alta Val Susa da tre anni è stata tessuta una fitta rete di solidarietà attiva. Prima nel sottochiesa di Claviere, poi nella casa cantoniera di Oulx sono stati aperti due rifugi autogestiti, dove la gente di passaggio ha trovato accoglienza, informazioni, scarpe, cibo, possibilità di decidere in autonomia il proprio percorso. Entrambi i rifugi sono stati sgomberati. Le successive occupazioni sono durate pochi giorni: la polizia è intervenuta subito. Numerosi compagni e compagne in lotta contro le frontiere sono stati colpiti da limitazioni della libertà, denunce e processi. Il Questore di Torino De Matteis è stato premiato per il lavoro svolto ed stato promosso Direttore centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere.

Il valico del Monginevro è segnato dai corpi dei migranti che, a volte, in primavera affiorano dalle nevi. I morti sarebbero stati tanti di più se non ci fosse stato chi si è messo di mezzo, anche a costo delle propria libertà, per cercare di cancellare quel confine che uccide e respinge.

Le frontiere d’Europa sono aperte per la libera circolazione delle merci ma sono sigillate per profughi e migranti. Le persone, mercanzia di nessun valore, restano impigliate nelle reti messe lungo il cammino.
Il confine non è solo la frontiera tracciata sulle mappe, perché per chi non ha documenti ogni pattuglia diventa polizia di frontiera che, non per caso, sorveglia e controlla chi, per la pelle o i tratti somatici, diventa automaticamente sospetto. Stazioni di treni ed autobus diventano posti di frontiera.
Guerra interna e guerra esterna si confondono e mescolano. Le funzioni di polizia e quelle strettamente militari subiscono un processo di osmosi. Da un anno e mezzo ai militari è consentito operare come agenti di polizia giudiziaria: possono fermare, perquisire, arrestare come le altre forze di polizia. Poliziotti italiani danno man forte a quelli greci lungo il confine tra Grecia e Turchia.

Dissimulata nelle pieghe del linguaggio quella contro i migranti è una vera guerra. Con tanto di campi di concentramento, circondati da filo spinato e sorvegliati da poliziotti e militari. I CPR, centri per il rimpatrio, sono i luoghi dove richiudere i corpi in eccesso, gli indesiderabili, quelli che non sono riusciti a passare indenni attraveso le maglie della frontiera. Sono la discarica sociale, in cui i senza carte temono di finire, una minaccia costante, un ricatto costante per chi lavora in nero senza documenti, per chi li ha ma potrebbe non rinnovarli se perde il lavoro.

Il fronte della guerra ai poveri attraversa le nostre città, ma parte dal cuore di ogni sud del mondo, dove il colonialismo continua a depredare e saccheggiare. I militari italiani fanno la guerra in Niger, Libia, Golfo di Guinea, stretto di Ormuz, Iraq, nel Mediterraneo ed in tanti altri luoghi del pianeta. Gli stessi militari, finito un turno di sei mesi all’estero, li ritroviamo nelle prigioni per migranti, nei cantieri militarizzati e nelle periferie, per reprimere sul nascere ogni insorgenza sociale.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce della stessa medaglia.

L’assemblea antimilitarista che si è tenuta a Milano il 9 ottobre, ha lanciato una campagna antimilitarista che ha, tra gli altri obiettivi, la lotta alla guerra interna e l’opposizione alle missioni militari all’estero. Sabato 20 novembre a Torino, città dove si terrà l’aerospace and defence meeting, mercato dell’industria aerospaziale di guerra, città dove il dispositivo delle frontiera è attivo nelle periferie militarizzate e nei CPR, è stato indetto un corteo antimilitarista. L’appuntamento è alle 14,30 a Porta Palazzo, corso Giulio Cesare angolo via Andreis.

Maria Matteo

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