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Find the crack, trova la crepa.

Find the crack, trova la crepa.

Nell’oscurità c’è sempre una crepa,

da lì entra la luce

dove il buio produce

ansia, paura e così ti frega

finché non vedi lo spiraglio

per uscire finalmente salvo

dice Hölderlin in PATMOS.

Il potere o si accumula o si distribuisce, tertium non datur.

Secondo Carlo Milani – hacker impenitente, militante del gruppo C.I.R.C.E.1 e autore del libro “Tecnologie conviviali” edito da Elèuthera – il nostro rapporto con i social network più frequentati2 ormai è giunto a questo bivio: accettare il potere dei padroni del Web in cambio dei giocattoli e dei piaceri propinati, per farci divertire nelle piattaforme di loro proprietà; oppure organizzare ambiti collettivi in cui sperimentare un diverso approccio con gli strumenti che il Web mette a disposizione, per condividere le conoscenze apprese e utilizzarle in modo libertario, senza dirigenti né esecutori. Bello! Ma – ammesso che si possa realizzare – come si fa?

Innanzitutto, suggerisce Milani, bisogna capire cosa vogliamo e cosa ci aspettiamo dalle macchine, computer, dispositivi elettronici, reti di comunicazione e così via, dal momento che giocano un ruolo sempre più fondamentale nelle interazioni psicosociali, politiche ed economiche in cui gli esseri umani sono immersi e coinvolti nel mondo virtuale – il Metaverso, non più fantascientifico3 – che lo scorso anno ha fatturato oltre 50 miliardi di dollari relativo ai prodotti digitali per le esperienze di videogiochi.

Chiarito lo scopo per il quale questi strumenti sono utilizzati, proviamo a fare un ulteriore passo in avanti chiedendoci: e se fossero qualcosa di più e di diverso? Se, oltre ad essere strumenti tecnologici a nostra disposizione, con la privatizzazione da parte dei colossi mediatici si sono trasformati in strumenti che dispongono di noi? Soltanto macchine, strumenti, dispositivi mediatici, quando sono un mondo, creano un mondo, ci coinvolgono nel loro mondo da non poterne più farne a meno? La risposta è tassativa: «sono esseri tecnici dotati di caratteristiche proprie, peculiari, a prescindere da noi umani. Al pari degli altri esseri non umani che convivono su questo pianeta Terra, possono fare alcune cose e non possono farne altre; eccellono in alcune attività e sono carenti in altre; possono cooperare fra loro; si evolvono».

Un cambio di paradigma che è alla base del ragionamento dell’autore, sicuro che con questi “esseri tecnici”, ai quali affidiamo perfino i nostri segreti più intimi, dobbiamo interagire in modo rispettoso e al contempo sospettoso; dobbiamo conoscerli al pari di tutti gli altri esseri viventi e non viventi valorizzandone la diversità, la complessità, l’unicità, per poi essere sospettosi del loro esser diventati uguali, semplici, intercambiabili. Perché da strumenti che ci hanno permesso di essere ovunque liberi e autonomi, in grado di comunicare, conoscere, condividere e perfino a modificare la realtà, sono diventati meccanismi di controllo, ma soprattutto di condizionamento e sfruttamento delle nostre sensibilità emotive. Di chi è la colpa? Degli strumenti o di come ci rapportiamo con i dispositivi informatici, al punto da delegare agli esperti tecnocrati il potere di amministrarli, accontentandoci di un utilizzo immediato, semplice e replicabile in ogni momento e situazione, da non preoccuparci dei contenuti che veicolano e veicolano le nostre emozioni?

Questa volta la risposta di Milani non è più tassativa, ma problematica e tuttavia fiduciosa dei “piccoli gesti” che fanno la differenza tra chi accetta la realtà così com’è, e chi vi intravvede una crepa dalla quale filtra la speranza in un mondo migliore; perché «ogni scarto dalla norma dominante può diventare un esempio da diffondere, moltiplicare e adattare. Non si tratta di esagerare il potenziale dei piccoli gesti, ma di riaffermare un concetto semplice. O riteniamo che la gran parte degli esseri umani, degli esseri tecnici, degli animali, delle piante e così via abbia bisogno di tutela, di essere sottomesso a un despota, a un padre-padrone, a qualcuno che sceglie al posto suo, eccezion fatta per alcuni scaltri, potenti e dominanti, per natura o fortuna (ovvero per violenta autoaffermazione); oppure riteniamo che ogni essere vivente e non sia una potenziale fonte di liberazione per sé e per gli altri».

In altre parole dobbiamo prenderci cura di tutti gli organismi viventi minacciati dalla mancanza di biodiversità, dagli animali alle piante, agli esseri tecnici; poiché, come nel campo agro-alimentare scegliamo cosa produrre e cosa mangiare – aumentando le varietà della specie, non certo selezionandola secondo gli interessi della grande distribuzione commerciale –, allo stesso modo, se i social media sono cibo per la mente, bisogna che siano locali, a km zero, genuini e accessibili a tutti, costruiti in maniera equa e solidale. Pertanto è necessario anche in questo campo aumentare la biodiversità, ovvero la tecnodiversità, grazie a una «maggiore varietà di sistemi d’interazione, di procedure operative, di algoritmi, di servizi implementati, di tipologie di organizzazione delle interazioni fra esseri umani ed esseri tecnici. Il contrario di diversità biotecnica è invece uniformazione, standardizzazione coatta frutto di accordi opachi fra tecnocrati; impiego delle medesime strutture gerarchiche per rispondere a esigenze differenti, in tutte le lingue, a tutte le latitudini; imposizione di procedure identiche a tutti, mediante una quota crescente di modelli premiali gamificati in cui si premia (con classifiche, badge, punti, like e altri segnali di ricompense chimiche) la partecipazione al Grande Gioco della Piattaforma di turno». In pratica bisogna trasformarsi in hacker!

Però, precisa Carlo Milani, «non si tratta di mercenari al soldo di multinazionali, agenzie governative o altri deprecabili attori nel panorama della cosiddetta sicurezza, ma di persone amanti delle tecnologie, della riservatezza (privacy), intenzionate a conoscere e comprendere gli esseri tecnici per vivere armoniosamente e piacevolmente insieme». Si tratta di un’attitudine, un atteggiamento nei confronti della tecnologia mirante a ridurre l’alienazione tecnica, che si può imparare e insegnare; si assume, non è un fatto naturale, non è per nascita, per censo, per genetica, per investitura. Ecco così chiarito il titolo e gli scopi del libro/vademecum del buon hacker, Tecnologie conviviali: un invito ad organizzare autonomamente e in modo autogestionario spazi creativi dove «una buona dose di curiosità, tanta pazienza per ripetere, precisione per tradurre, predilezione per la robusta semplicità può germogliare in mille forme diverse, diffondersi, federarsi, meticciarsi». Per fare cosa? Per sperimentare margini di libertà reciproci sempre più espansi. E scusate se è poco.

Un “poco” riversato in sei capitoli, per raccontare l’esperienza dell’autore e del gruppo CI.R.C.E. nei confronti degli esseri tecnici e del modo in cui è possibile scoprire le nostre vulnerabilità messe in evidenza dai dispositivi informatici, così come individuare le nostre potenzialità diffondendo l’attitudine hacker in attività educative e (auto)formative che ci insegnino – esperti e non esperti – «a disimparare quello che diamo per scontato, e cioè che la tecnica sia un mero supporto neutro per i nostri contenuti» e a convincerci «che è possibile ristrutturare le relazioni tecniche in senso conviviale, proprio come in un banchetto in cui ognuno contribuisce alla comune riuscita». Un mettere in comune le proprie conoscenze, condividere le singole esperienze al fine di trasmettere tecniche di sopravvivenza per non essere facili prede dei social-media in modo da «avere cura delle proprie interazioni digitali, limitare quanto più possibile l’invadenza dei sistemi di monitoraggio e controllo automatizzati (cookie, traccianti, ecc. ecc.), adoperarsi per limitare l’esposizione continua di porzioni intere della vita intima delle persone sulle bacheche pubblicate delle multinazionali tossiche».

Di queste tecniche di autodifesa digitale Carlo Milani ne fa semplicemente dono, nella convinzione che chi leggerà il libro saprà trasmettere le sue tecniche di autodifesa digitale in una sorte di Potlatch rivoluzionario il cui gioco consiste nel contribuire a rendere quanto più difficoltoso possibile l’accumulo di potere e l’insorgere di gerarchie dominanti da parte dei dispositivi mediatici, così da aprire una crepa nell’oscurità del Metaverso. Perché dove c’è pericolo nasce la salvezza. Non esistono le vie di mezzo: anche perché la tecnica non è neutrale.

Gianfranco Marelli

1Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche: https://circex.org/it .

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