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La marcia del vittimismo

La marcia del vittimismo

So, you’ve been to school / For a year or two / And you know you’ve seen it all /
In daddy’s car / Thinking you’ll go far / Back east your type don’t crawl / Playing ethnicky jazz /
To parade your snazz / On your five-grand stereo / Braggin’ that you know / How the niggers feel cold / And the slum’s got so much soul”

Dead Kennedys – Holiday in Cambodia

Assistere alla March4ourLives del 24 marzo e alle reazioni entusiaste di una buona fetta della sinistra istituzionale europea e della presunta sinistra radicale europea ci fa pensare che sia il caso di aprire una serie di considerazioni. In questo pezzo ci dedicheremo ad alcune considerazioni contingenti ma queste stesse dovranno successivamente essere espanse e divenire considerazioni di carattere generale.

Una breve storia

Tanto per iniziare: un po’ di storia. Il 15 febbraio un giovane nazista della Florida entrava nella sua ex scuola, da cui era stato espulso, e ammazzava a colpi di arma da fuoco 17 tra studenti e personale della scuola. Sui retroscena di questo grave fatto abbiamo già scritto in “Armi, società e potere – Militarizzazione sociale” apparso sul numero 8 di questo anno di Umanità Nova. Per un inquadramento della vicenda rimandiamo quindi alla lettura del citato articolo e in particolare dei paragrafi inerenti alla cultura di destra che sta dietro a questi atti. Per quanto riguarda più in generale la questione della armi da fuoco nella società statunitense rimandiamo invece agli articoli: “La propaganda alla prova dei fatti” parte uno e parte due, pubblicati rispettivamente su Umanità Nova numero 31 anno 95 e sul numero 1 anno 96, a “La stretta autoritaria negli USA” pubblicato sul numero 24 anno 96, a “La social-misantropia” pubblicato sul numero 30 anno 97. Per un maggiore inquadramento della questione della violenza poliziesca, tema che è strettamente legato a quello trattato negli altri articoli, rimandiamo invece a “Genealogia della violenza poliziesca”, pubblicato sul numero 33 anno 93. Tutti gli articoli sono reperibili sia sul sito di Umanità Nova che sul blog dell’autore (photostream.noblogs.org).

Quello che ci interessa qui analizzare invece è quanto è successo dopo la strage di Parkland con l’emergere di quel movimento denominato “March4OurLives”, un movimento che ha suscitato forti entusiasmi a sinistra ma che si muove completamente all’interno del paradigma della compatibilità sistemica. Un movimento che è pienamente conservatore e, in alcuni aspetti, reazionario.

Iniziamo con l’analizzare la piattaforma del movimento, reperibile facilmente sul web. La fonte che ho usato io è l’articolo “Parkland students: our manifesto to change America’s gun laws” pubblicato sull’edizione online del Guardian ma curato direttamente dagli studenti di Parklands. Consiglio vivamente la lettura della pagina web originale in quanto iconograficamente svela molto a un occhio attento. Il punto primo della piattaforma rivendicativa è intitolato “Bandire le armi semi automatiche che sparano proiettili ad alta velocità” ed esordisce con “I civili non dovrebbero avere accesso alle stesse armi a cui hanno accesso i soldati”. E già qua chiunque abbia una concezione anche solo vagamente progressiva della società dovrebbe sentire un brivido lungo la spina dorsale: la piattaforma esprime chiaramente la necessità del monopolio statale non solo della forza ma anche della possibilità dell’uso della forza e della possibilità stessa di accedere a determinati strumenti su cui i “civili” non dovrebbero mettere le mani perché sono pericolosi. E, attenzione, non perché siano strumenti pericolosi, solo un cretino potrebbe negarlo, ma perché i civili stessi sono pericolosi: “Il fatto che possano essere comprati dai civili non promuove la tranquillità domestica ma, bensì, ci espone al tipo di pericoli che sono affrontati da uomini e donne nelle zone di guerra”. Da questo se ne ricava che va bene che i militari statunitensi ammazzino – e si facciano ammazzare – all’estero, fuori dai confini della tranquillità domestica, ma guai se un’arma simile circola entro i confini statunitensi. Insomma: chi non è un membro effettivo delle forze armate sarebbe oggettivamente più pericoloso e va tenuto sotto controllo. Basterebbe già questo a classificare una siffatta piattaforma come autoritaria, ma andiamo avanti, aggiungendo un altro dato banale ma spesso taciuto: le armi semi-automatiche in grado di sparare proiettili ad alta velocità sono disponibili sui mercati civili, e a prezzi accessibili, in quasi tutte le nazioni europee. In alcuni casi, come in quello italiano, in calibro leggermente differente, ma non meno potente, rispetto a quello militare, e con gli stessi identici effetti in termini di balistica terminale. E in questi paesi di mass-shooting non ve ne sono stati mai o ve ne sono stati pochissimi. Ma non si può pretendere che chi scrive una simile piattaforma abbia la consapevolezza del fatto che il mondo continua anche al di là del suo naso.

Il secondo punto della piattaforma è: “Proibire gli accessori che simulano la ripetizione automatica dei colpi”. Ancora torna fortemente il tema della necessità del monopolio statale dell’accesso a determinati strumenti, in quanto in mano ai civili sarebbero pericolosi dato che questi sono ontologicamente inaffidabili.

Il terzo punto dimostra ancor più quanto sia pienamente conservatore questo movimento. Infatti, esso chiede di stabilire dei controlli approfonditi su chi compra un’arma, inerenti alla sua salute mentale e alla sua fedina penale. Sull’aspetto della salute mentale torneremo in seguito, ma intanto dobbiamo rilevare come una simile proposta in un paese noto per politiche di incarcerazione di massa, per l’applicazione pluridecennale del diritto penale del nemico, per una pesantissima razzializzazione della società, e della giustizia penale, che si aggiunge all’oppressione di classe, significa fondamentalmente chiedere di impedire l’accesso a strumenti di autodifesa ad appartenenti alle classe popolari e alle minoranze marginalizzate. Il diavolo, per altro, sta nei dettagli: il punto prende in considerazione la “capacità fisica” di chi possiede un’arma. Cosa vuol dire? Non si sa in quanto non è esplicitato. A logica si capisce solo che se, metti caso, sono in sedia a rotelle non dovrei possedere un’arma. Perchè? Non si sa.

Ma non è finita qua: il punto successivo chiede direttamente di modificare la legge sulla privacy per permettere agli organi preposti alla salute mentale di comunicare con la polizia. Stupendo. Così una persona sarà ancora più scoraggiata dal rivolgersi a un centro di aiuto psicologico sapendo che lì non troverà un persona con cui stabilire un rapporto di fiducia ma un possibile delatore. In un paese che ha poi fatto della medicalizzazione della devianza sociale e dell’imposizione dello stigma la sua strategia principe nell’affrontare le questioni di salute mentale possiamo tranquillamente immaginare persone che si troveranno impossibilitate a possedere uno strumento di difesa perché anni prima hanno mandato a quel paese il professore e sono stati spediti a colloquio con lo psicologo della scuola o perché sono “stressate”. E non stiamo esagerando: basta guardare le statistiche sulle prescrizioni di psicofarmaci negli USA per capire come vengono affrontate queste problematiche.

Aggiungiamoci poi il fatto che stragi come quelle perpetrate da Cruz non hanno la propria origine in patologie psichiatriche o in disagi psicologici ma nella completa introiezione dei meccanismi basilari della società capitalista: darwinismo sociale, suprematismo, misoginia. Quindi, invrece di intervenire su questi temi, prendiamocela con adolescenti medicalizzati e psichiatrizzati fin dalla più tenera età, bollandoli come possibili stragisti. Evviva lo stigma: Goffmann, chi era costui?

Seguono alcuni punti sugli escamotage legali che fanno sì che esista uno scarso controllo sull’acquisto di armi da fuoco, la cui trattazione prevederebbe un livello di approfondimento che va al di là dei nostri scopi dato che variano da stato a stato. I tre punti finali invece sono da analizzare attentamente. Il primo chiede di alzare a ventuno anni l’età che dà accesso alla possibilità di acquistare armi. Con l’intelligentissima motivazione: “dato che fino a ventuno anni non possiamo bere alcoolici o prendere in affitto una macchina dovremmo essere messi nelle condizioni di non potere comprare un’arma semiautomatica”. Tradotto: “siccome siamo considerati dei minorati vogliamo essere considerati ancora più minorati”. Una rivendicazione che va sicuramente in direzione dell’emancipazione individuale e collettiva. Altra perla del punto è il classificare l’AR15, la versione civile e semiautomatica dell’M16, come arma di distruzione di massa. Si vede che chi ha scritto questo punto non ha mai visto l’effetto delle vere armi di distruzione di massa: e dire che di video che mostrano i bombardamenti al fosforo su Falluja da parte dell’USAF se ne trovano, come se ne trovano che mostrano gli effetti delle bombe termobariche e FAE sui villaggi afghani. Ma è inutile fare queste osservazioni a chi ha affermato fin dall’inizio che è legittimo ammazzare il prossimo al di fuori dei confini patrii. Ovviamente, nel punto è scritto chiaramente che questa misura non va applicata a chi a 18 anni si arruola nell’esercito.

Il secondo punto della parte finale torna sulla questione della salute mentale, chiedendo maggiori fondi federali dedicati a questo tema e sottolineando, ancora, come chi commette dei mass shooting sia sofferente di “depressione, disturbi post traumatici e altre malattie mentali”. Peccato che non sia affatto così. Si richiede poi una maggiore medicalizzazione delle scuole con l’introduzione di ancora più psicologi e “counselors”, ovvero quelle figure con il compito di consigliare e guidare gli studenti. Insomma, oltre a voler essere a tutti i costi considerati come minorati in quanto giovani, costoro vogliono pure essere considerati malati.

E, infine, il punto conclusivo: “Aumentare i fondi per la sicurezza scolastica”, in cui letteralmente chiedono di militarizzare, con una maggiore presenza poliziesca, scuole e università. Una rivendicazione, anche questa, che va senza dubbio in direzione di una maggiore emancipazione, sopratutto in un momento in cui avvengono imponenti mobilitazioni di massa dei lavoratori della scuola – appoggiati in molti casi dagli studenti – per avere aumenti salariali.

Le mezzeclassi del vittimismo

I dati che emergono da questa mobilitazione sono diversi e van tenuti in conto per una valutazione generale del fenomeno:

  1. si è trattato di una mobilitazione esclusivamente delle mezzeclassi urbane, concentrate sopratutto nella costa est e nelle grandi città della costa ovest. Il Midwest, il sud e l’area delle Montagne Rocciose, così come l’Appalachia e l’Altopiano di Ozark, hanno visto ben poco di questa mobilitazione;

  2. come scrive lo stesso Washington Post (https://www.washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2018/03/28/heres-who-actually-attended-the-march-for-our-lives-no-it-wasnt-mostly-young-people/?utm_term=.2a3ace64f66a), che pure è un giornale che su questa mobilitazione molto ha puntato, la maggioranza dei manifestanti non erano giovani. Secondo la loro rilevazione, solo il 10% dei partecipanti alla marcia a Washington erano adolescenti e l’età media degli adulti presenti era appena sotto i 49 anni. L’89% dei presenti a Washington sono stati elettori della Clinton e il 72% ha un titolo accademico;

  3. la mobilitazione è stata fortemente voluta e promossa dai quadri del Democratic Party e in particolare dalla frazione di destra, quella di cui i Clinton sono stati i massimi esponenti;

  4. anche se in alcune città sono stati portati anche altri temi, i tagli pluridecennali all’istruzione in primis, l’attenzione dei media si è concentrata sulla questione armi.

Siamo di fronte quindi a una mobilitazione che possiamo definire come specifica della classe media e medioalta delle aree urbane, che è sporadicamente riuscita a cooptare elementi delle classi popolari, come a Chicago.

È interessante notare che chi ha animato questa mobilitazione non solo si autorappresenta come vittima ma vuole vedere riconosciuto e mantenere questo status sociale, e non emanciparsi, in quanto in questo vede dei vantaggi. È tipico delle mezzeclassi nei periodi di crisi autorappresentarsi in questo modo: vittime della finanziarizzazione, dei flussi migratori, del disfacimento dei costumi, di qualche oscuro complotto. Il voler vedere riconosciuto e mantenere lo status di vittima, e quindi di soggetto da mettere sotto tutela, è il tentativo di pararsi dai colpi della proletarizzazione incombente di sempre più ampi settori delle classi medie. In molti casi, queli che si sono organizzati, o che più spesso si sono fatti organizzare dalle organizzazioni legate al Democratic Party, per scendere in piazza “contro le armi”, sono gli stessi che hanno sistematicamente taciuto davanti a tutte le guerre condotte dallo Stato, sono gli stessi che si voltano dall’altra parte quando a cadere sotto il piombo della polizia sono appartenenti al proletariato e al sottoproletariato.

Si potrà dire: però non si può negare che i sopravissuti della strage di Parkland che hanno parlato dal palco di Pennsylvania Avenue siano stati vittime. Ma, ancora, il diavolo sta nei dettagli: essi sono stati vittime di una strage, e pur essendovi sopravvissuti ne porteranno i segni per sempre, ma questo non li rende sacri e incriticabili. Un conto è essere effettivamente vittima di un qualche evento e un altro conto è assumere il ruolo di vittima eterna facendo leva sui peggiori attrezzi dell’emotività elevata a strumento di irregimentazione del discorso pubblico per far passare un messaggio che ha precisi scopi, che emergono tranquillamente da un’analisi dei punti della piattaforma rivendicativa, presentandolo come “naturale” in quanto proveniente da vittime.

D’altra parte, come già segnalavamo nell’articolo “La stretta autoritaria” pubblicato nel luglio 2016, il tentativo di porre sotto un maggiore controllo l’accesso agli strumenti di difesa rientra pienamente nell’irrigidimento del controllo sociale che è strutturalmente legato a un periodo che vede una crisi economica globale oramai perenne e un’erosione della legittimità delle strutture politiche correnti. Non è un affare puramente statunitense, come ben dimostra il tentativo fatto a livello europeo di regolamentare maggiormente, e in termini restrittivi, l’accesso alle armi per i “comuni cittadini” con la direttiva 477.

Possiamo altresì sostenere che la critica portata da destra a questa tendenza altro non è che l’altra faccia della stessa medaglia. Gruppi di pressione come l’NRA negli Stati Uniti e i loro – estremamente minori – omologhi europei rappresentano l’altra voce della media borghesia in crisi e poggiano su un retorica securitarista e razzista che è speculare a quella di chi scende in piazza per chiedere di disarmare tutti meno che lo stato. L’NRA è uno dei tanti tasselli del suprematismo bianco, ovvero l’ideologia base degli stati occidentali, e non è un caso che abbia taciuto quando la polizia ha ammazzato Phileando Castile, detentore di un porto d’armi ma nero, e quindi soggetto alla possibilità di essere ammazzato per strada senza motivo.

Spesso si sostiene che la democrazia per sua natura sia opposta al razzismo ma in realtà non è così. La democrazia rappresentativa moderna è legata in modo indissolubile allo stato-nazione, in quanto si basa sul rappresentare l’umanità divisa, non in base al collocamento di classe, ma all’appartenenza ad un gruppo nazionale – presentato come naturale ma in realtà con una precisa genesi storica che affonda nella materialità dei rapporti di produzione – che avrebbe la sovranità su un dato territorio per diritto di sangue. Nei periodi di crescita economica ci si può illudere che la democrazia sia per sua natura includente, dimenticando l’accumulazione originaria rappresentata da secoli di colonialismo che hanno, tra l’altro, permesso la creazione di sistemi di welfare. Ma nei periodi di recessione o comunque di crisi il rimosso dell’origine strutturalmente razzista della democrazia ritorna, sotto forma di ideologia sovraniste e particolarmente reazionarie o sotto la forma dell’ideologia liberal democratica che allo stato demanda il mantenimento del buon ordine sociale, come se lo stato fosse strumento imparziale e non organizzazione specifica della classe dominante in un dato contesto geografico. Questa ideologia liberal-democratica a ben vedere è autoritaria e razzista al pari del sovranismo – o in altre epoche del fascismo propriamente detto – in quanto pretende di mettere i “soggetti discriminati” sotto tutela permanente cooptandoli in parte all’interno della struttura sociale dominante ma dispiegando al contempo dispositivi di controllo sociale estremamente penetranti.

Tra l’NRA e i supporter della teoria secondo la quale solo lo stato deve essere armato vi è meno differenza di quanto si possa pensare e, per quanto riguarda le nostre sorti, tra un Bannon e un liberale editorialista del New York Times la differenza è nulla.

Il feticismo delle masse e l’eterno ritorno dell’opportunismo

Ovviamente non sono mancati coloro che nella sinistra radicale, compresi pezzi della variegata galassia trotskysta, hanno visto con simpatia o hanno partecipato alla March4OurLives. La giustificazione addotta per l’essersi fatti portare a spasso dal comitato elettorale del Democratic Party è stata: “ci stanno le masse quindi il Partito deve stare là”. Una posizione similare è stata espressa anche da chi in Italia si riempie la bocca dei termini “autonomia e contropotere” in un articolo su Infoaut che criticava Obama per non fare abbastanza per diminuire il numero di armi circolanti. Il movimentismo e il feticismo per le masse hanno come unico sbocco l’opportunismo, d’altra parte. Al posto di lavorare sulle contraddizioni esistenti costoro hanno scelto il vicolo cieco che parte dall’abdicazione delle capacità di analisi autonoma e finisce con l’intruppamento dietro a una delle tante fazioni borghesi.

Da un punto di vista puramente classista, basti considerare una cosa: un personaggio come George Cloneey, che ha donato cinquecentomila dollari all’organizzazione di March4OurLives, può tranquillamente non sentire la necessità di doversi difendere in prima persona. È appartenente a una fascia di popolazione ricca che è difesa dalla polizia e, sopratutto, può permettersi, e le ha, guardie private pagate per pigliarsi eventuali pallottole al suo posto e per reagire di conseguenza. Una lavoratrice o un lavoratore di colore di un qualche suburbio o di una zona rurale invece possono contare solamente sulla propria capacità di difesa, e, speriamo, sulla capacità di difesa collettiva della comunità in cui vivono, e di certo non sulla protezione offerta dalle varie polizie pubbliche o private.

Chi negli Stati Uniti invece lavora per costruire forme di autogestione e di radicale alterità rispetto alle condizioni presenti non è un caso che si opponga sia a questi tentativi di stretta autoritaria che alle varie organizzazioni che sono espressione del suprematismo bianco.

Chi chiede più controlli, più polizia nelle scuole e nelle università, di essere considerato e di considerare tutti dei soggetti da mettere sotto tutela, evidentemente ha altri interessi.

Lorcon


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