Premessa
Bene ha fatto la redazione di Umanità Nova a pubblicare due articoli sul tema del sindacalismo sul numero 3 del settimanale, sia per i temi affrontati, sia per l’esperienza e il ruolo nelle rispettive organizzazioni sindacali degli autori. È una ghiotta occasione per dare il via a un dibattito sulle esperienze di questo ultimo anno, che possono dare il via a un nuovo inizio per il movimento operaio. I temi affrontati nei due articoli, inoltre, possono fornire spunti al dibattito in vista delle prossime riunioni della Federazione Anarchica Italiana.
Nell’articolo “Un anno non proprio gradevole. Presente e futuro del sindacalismo di base”, Cosimo Scarinzi traccia un quadro non proprio esaltante delle prospettive del movimento operaio e delle organizzazioni sindacali di base. All’interno di questo quadro, brillano solo poche luci: lo sciopero dell’11 ottobre, che comunque non è riuscito a coinvolgere il grosso del movimento operaio, e la vertenza GKN. La vertenza, secondo Cosimo, si è chiusa in maniera positiva, dando vita a un vero e proprio movimento.
A questo proposito è bene ricordare che la vertenza è nata per impedire lo smantellamento della fabbrica e il licenziamento dei dipendenti. Per questo era stata rifiutata anche la cassa integrazione. Ora gli ex dipendenti della GKN sono in cassa integrazione, la fabbrica è stata smantellata e si aspetta il piano industriale della nuova proprietà; con tutto l’ottimismo della volontà, difficile scacciare la sensazione che si tratti del primo passo dell’ennesima lenta agonia.
1. Difesa del posto di lavoro e assistenzialismo per ricchi
Per quanto riguarda il movimento che si sarebbe formato, attorno alla GKN si è raggruppato soprattutto ceto politico e attivisti sindacali. Il risultato più significativo è che la mobilitazione contro i licenziamenti ha ridato vigore a posizioni fabbrichiste e lavoriste, una versione antagonista dei sussidi all’industria privata. Il solito assistenzialismo per ricchi insomma. La giornata del 18 settembre ha visto a Firenze tre manifestazioni, di cui quella a sostegno dei lavoratori licenziati era la più numerosa; queste tre manifestazioni mettevano in discussione diversi aspetti della formazione economico-sociale capitalistica. Esisteva quindi la possibilità, a partire dalla presenza contemporanea nello stesso luogo, di avviare un confronto fra diverse esperienze; purtroppo, a parte un timido tentativo, questo non è avvenuto; le rappresentanze sindacali dei lavoratori GKN e il gruppo di supporto hanno preferito percorrere la strada della difesa dell’azienda e della proposta di legge sulle delocalizzazioni.
Di là dell’entusiasmo che in tanti ambienti ha generato la lotta della GKN e dell’impegno generoso dei suoi protagonisti, credo che su questo tema debba aprirsi un dibattito franco nel sindacalismo di base e nel movimento anarchico, visto che le crisi aziendali si moltiplicano e la scelta di condurre le vertenze fabbrica per fabbrica si traduce in una lenta agonia, mentre lavoratrici e lavoratori vengono sballottati da uno speculatore all’altro, con l’aiuto di sussidi via via più esigui.
La responsabilità della crisi occupazionale che attraversa oggi l’Italia è in primo luogo delle scelte del governo Draghi, che ha deciso prematuramente di sospendere il blocco dei licenziamenti, appoggiato dai sindacati collaborazionisti. Di là delle cause contingenti delle singole crisi aziendali, l’attuale fase produttiva si caratterizza per una costante diminuzione della richiesta di forza lavoro e per una trasformazione strutturale del processo produttivo, con la definitiva chiusura di settori ormai agonizzanti, come il settore automobilistico.
Questa trasformazione strutturale ha un impatto inevitabile sull’occupazione e sul reddito dei ceti popolari. Un movimento come il nostro, come l’anarchismo, non può disinteressarsi di questi fenomeni che mutano radicalmente le condizioni di vita e di lavoro. È urgente aprire un dibattito su questi temi, e sulle proposte che vanno per la maggiore nel sindacalismo di base e nei settori antagonisti.
Quando si parla di politica industriale e di lotta alle delocalizzazioni, bisogna tener presente che i capitalisti investono avendo di mira la redditività dell’investimento, cioè la percentuale di profitto che ne ricaveranno. Che si tratti di armi, droga, rifiuti, burro o educazione l’investimento segue le prospettive del profitto. La politica industriale serve a garantire ai capitalisti che investono in quel settore un profitto sicuro proporzionato all’investimento. Questo fenomeno è amplificato dal fatto che ogni nuovo investimento si muove in una scala maggiore del precedente. Ad esempio il piano dell’Unione europea per i semiconduttori ha una dimensione di 43 miliardi di euro, una cifra che ovviamente supera le disponibilità di ogni singolo capitalista. La concentrazione di capitale monetario necessaria all’avvio di nuovi investimenti richiede quindi l’intervento del sistema creditizio e dello stato come garante; è chiaro che le banche concederanno i loro finanziamenti solo se saranno certe che lo stato garantirà, oltre al profitto per il capitalista, un congruo interesse per loro. Se le attività economiche fossero in grado di gestirsi da sole, in grado di garantire redditività adeguata, i capitalisti non le avrebbero chiuse. Si tratta allora di garantire il profitto e l’interesse a spese del contribuente. Ecco che il tanto decantato liberismo si rivela il più vorace dirigismo, l’ennesima forma di assistenzialismo per ricchi, e il capitalismo una cleptocrazia garantita dallo stato.
Sono convinto che sia possibile trasformare questo fenomeno da una minaccia in una opportunità, a condizione che nasca un movimento di lotta per la riduzione del tempo di lavoro a partire dalla abbassamento dell’età pensionabile, un movimento di lotta per il reddito a partire dal reddito garantito per tuttə. E non si venga a dire che non ci sono soldi: basta mettere fine alle infinite regalie (finanziamenti, crediti di imposta, tariffe agevolate, rimborsi e chi più ne ha più ne metta) a favore delle aziende ormai fallite, piccole e grandi, industriali, agricole, finanziarie, commerciali. Non sono le singole aziende ad essere fallite, è il modo di produzione capitalistico ad aver fatto bancarotta.
2. Per l’unità del movimento operaio
Il 2021 ci lascia in eredità un percorso unitario fra tutti i sindacati di base, percorso che ha visto due momenti significativi nello sciopero generale dell’11 ottobre e nella giornata di mobilitazione del 4 dicembre.
Si tratta di un percorso unitario irto di difficoltà ma di fronte al quale, ancora una volta, non possiamo essere indifferenti come movimento anarchico. Il tema dell’unità è un tema molto sentito fra i lavoratori e anche fra gli attivisti, di là dell’appartenenza sindacale. Il buon risultato dello sciopero generale sarebbe stato impensabile senza questa tensione unitaria che, per lo meno in quello che ho visto a Firenze, è riuscito a incidere in quello che Cosimo chiama il corpo centrale della classe lavoratrice. È stato un segnale preoccupante per la burocrazia cgiellina, che per questo ha indetto lo sciopero del 16 dicembre, avendo cura di farne uno prima per la scuola, in modo da evitare il rischio di trovarsi di fronte, il giorno del “loro” sciopero, piazze conflittuali.
Di là dei rapporti fra i vari sindacati, c’è un elemento di unità che ha caratterizzato le giornate dell’11 ottobre e del 4 dicembre: la capacità di tenere insieme quei settori contrari al green pass vittime delle persecuzioni governative e padronali. Non bisogna dimenticare che il green pass, oltre a essere uno strumento di controllo nelle mani del governo che non ha nulla a che vedere con la prevenzione della pandemia, ha provocato una frattura fra lavoratrici e lavoratori e nello stesso tessuto militante che sarà molto difficile rimarginare. Ritengo che la scelta della piazza fiorentina di mettere al centro della giornata la solidarietà nei confronti delle lavoratrici e lavoratori perseguitati per le loro scelte di cura sia stato un esempio concreto di unità, di là dell’unità, sempre posticcia, delle sigle.
Credo che il principale ostacolo all’unità del sindacalismo di base sia la burocrazia, grande o piccola, che si è costituita all’interno dei singoli sindacati. Un processo unitario non può prescindere dalla messa in discussione di questa burocrazia, dalla revisione dei processi decisionali interni, implementando quelle pratiche libertarie a cui fa riferimento Massi nel suo articolo.
Occorre andare oltre l’unità delle sigle, ai documenti decisi da segreterie più o meno allargate con una sfilza di firme in calce, valorizzando il ruolo delle lavoratrici e dei lavoratori esposti in prima persona sul posto di lavoro, quindi valorizzando il ruolo delle RSU costruendo questa unità a partire dal posto di lavoro, dal livello territoriale, per poi arrivare a quello di categoria e a quello nazionale e, se non è possibile annullare l’apparato burocratico, riducendolo a mera struttura di servizio.
Valorizzare il ruolo delle delegate e dei delegati significa mettere in discussione la funzione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie. La cosa che più mi ha stupito, negli articoli pubblicati su Umanità Nova, è che in entrambi non si faceva minimamente cenno ai consigli come possibile momento di organizzazione della classe, sia a livello aziendale sia territoriale. Ormai la tematica dei consigli è relegata alle rievocazioni storiche o ai dibattiti teorici: credo che invece soprattutto il movimento anarchico dovrebbe recuperare questo strumento di organizzazione, per farne il perno dell’organizzazione dal basso del movimento operaio.
3. Per la ripresa del dibattito all’interno del movimento anarchico
È importante che su questi temi si interroghi il movimento anarchico, perché questo non aspira a conquistare la direzione del movimento per volgerlo ad una incomprensibile strategia che si risolve sempre nella conquista del potere da parte di un’avanguardia che si estranea dalla condizione materiale delle classi sfruttate. Il movimento anarchico non ha quindi interessi separati da quelli dell’intero proletariato, non impone né principi né un particolare modo di ragionare su cui modellare il movimento di classe e gli elementi più combattivi di esso. Storicamente il movimento anarchico ha attratto la parte più decisa e più avanzata delle classi sfruttate di ogni paese perché, nelle singole lotte, ha rappresentato l’interesse generale del movimento rivoluzionario, indipendentemente dalla nazionalità e dalle forme accidentali che assume lo scontro fra sfruttati e sfruttatori.
Siamo convinti infatti che la causa dell’elevamento morale della classe sfruttata e della sua emancipazione, la causa della rivoluzione sociale ha solo da guadagnare dal fatto che sfruttate e sfruttati si uniscono e lottano per i loro interessi.
Se il nostro scopo non è quello di impadronirci dei vertici delle organizzazioni sindacali per piegarle alle nostre indicazioni, non per questo non abbiamo nessun ruolo: discutere e criticare quei modelli ideologici che rendono succube il movimento operaio degli interessi dei capitalisti e delle politiche governative, proporre soluzioni organizzative che permettano alle lavoratrici e ai lavoratori, singolarmente e collettivamente, di operare per la propria autoemancipazione, critiche e proposte da portare avanti con la propaganda e con l’esempio, mai con l’imposizione, credo che siano compiti irrinunciabili del movimento anarchico.
Tiziano Antonelli