Search

L’economia del radioattivo

L’economia del radioattivo

Vista la delicatezza dell’argomento una premessa metodologica è d’obbligo. In primis non si esporranno posizioni pro o contro il nucleare in sé e per sé, dal momento che si sta parlando di prodotti di risulta di un processo già avvenuto, suonerebbe perciò quantomeno faceto sciorinare le ragioni contrarie all’uso di materiale fissile per ottenere energia. Ci si concentrerà su questioni economiche, politiche e sulle ricadute sociale di queste. Per chi è avvezzo alle battaglie come quella sul nucleare, saprà benissimo (o almeno così dovrebbe essere) che di là degli aspetti tecnici, la spinta propulsiva per l’uso dei radionuclidi in campo energetico è stata in passato intimamente legata a due aspetti fondamentali, potere economico e supremazia tecnologica. Le due facce della stessa medaglia. Il percorso per giungere alla discussione sui rifiuti radioattivi che qualcuno si ritroverà dietro casa non è ancora finito, la premessa deve necessariamente dilungarsi su alcuni aspetti determinanti per la comprensione della complessità del problema. Comprendere ciò potrebbe impedire che qualche politicante linguacciuto possa cavalcare la localizzazione delle scorie per fare la solita incetta di voti prendendo per il naso le popolazioni locali.

Supremazia tecnologica e potere economico, almeno nella nostra ipotesi, sono i due motori che spingono in avanti il sistema nel quale siamo immersi e che in qualche modo ci determina – ci piaccia oppure no questo è ininfluente. Quello che costituisce la carrozzeria accattivante di questo sistema è l’ideologia, la quale maschera sotto strati di vernice scintillante la brutale banalità del meccanismo di accumulazione ed accentramento di potere attraverso il controllo delle ragioni economiche di determinate scelte. Che si prendano come esempio le centrali nucleari negli USA o quelle dell’URSS tra gli anni ’60 e gli anni ’80, o che si considerino le tecnologie che ancor oggi impiegano radionuclidi a scopi diagnostici o militari, ebbene troveremo un polo comune, osservando il quale lo schema acquista una sua coerenza. Essere i primi a sfornare un certo tipo di tecnologia, in un sistema affamato di innovazione, vuol dire assicurarsi supremazia nei mercati. Per inciso questo ha spinto i Dogi veneziani ad investire nello sviluppo del cannocchiale: avere il vantaggio di avvistare la concorrenza od il nemico con qualche ora di anticipo voleva dire salvare il carico e pagare meno l’assicurazione – si, esisteva l’assicurazione dei carichi anche nel XVII secolo.

La corsa al nucleare non era solo la ricerca di avere bombe più potenti o in maggiore quantità, era anche la corsa ad accaparrarsi l’esclusiva per la vendita di tecnologie ad esso connesse. Pensiamo un attimo a quello che la manipolazione del nucleo si portava dietro e potremmo comprendere come dal più fesso dei dosimetri, alla cattedra di fisica od ingegneria nucleare, nel mezzo ci stanno imprese, banche, partiti politici, interessi, costi, potentati, clientele ecc. In altre parole tutto un pezzo di mondo che su quella tecnologia ha deciso di investire, speculare e trarre guadagni a tutti i costi, tanto in termini economici quanto in termini di immagine. Di costi, poi, questa tecnologia ne ha e di molto alti. È proprio per contenere i costi proibitivi della sicurezza degli impianti e dei laboratori che si sono verificati i peggiori disastri della storia o che si siano coperte faccende assai squallide. Se Chernobyl deve avere un senso, sicuramente non è quello di ribadire che il nucleare è pericoloso, questo può andar bene per mio nipote di dieci anni. Dovrebbe invece essere letto nella complessità del binomio potere ed economia e dell’ideologia che li accorpa.

L’infallibilità dell’Unione Sovietica (ai tempi paragonabile a quell’altra barzelletta dell’infallibilità papale) imponeva ideologicamente l’obbligo di nascondere i dubbi dietro un muro di censure, ma c’era anche l’obbligo di nascondere le pezze al culo della grande madre Russia dietro l’ideologia dell’essenzialità contro l’inutile complessità del modello americano. In parole povere hanno partorito un modello di produzione energetica per un buon 45% gestito da reattori mastodontici funzionanti con una tecnologia sostanzialmente spartana ed economica, seppellendo i difetti fisiologici di questi bestioni. Dall’altra parte dell’atlantico le cose non andavano meglio, le centrali erano gestite da aziende private che, nonostante i lauti contratti con la difesa per la fornitura di materiale adatto alle testate nucleari, limavano al ribasso i costi di gestione. Gli incidenti e le morti lente dovute ad ambienti lavorativi assolutamente incompatibili con la sicurezza ha mietuto in maniera silenziosa le sue centinaia di vittime in più di 40 anni di attività termonucleare dello zio Sam. L’altra faccia della medaglia sono le apparecchiature industriali e mediche, funzionanti con materiali radioattivi, dai raggi-x agli sterilizzatori a raggi gamma, dalla radioterapia. Per farla breve, la tecnica intesa come raggiungimento indefinito di scopi, coagula in sé le più frenetiche aspettative innescate dalla volontà di supremazia.[1]

Veniamo dunque alla propaggine di questo processo che più ci riguarderà nell’immediato futuro. Ad essere onesti non è lo stoccaggio in sé di materiale pericoloso che può togliermi il sonno, è il processo entro cui ciò si verifica che desta preoccupazione. La tendenza a fare profitto ed a speculare su tutto per massimizzare anche la più insignificante voce di guadagno ed a minimizzare anche la più misera voce di spesa è il vero e proprio problema. Se storicamente per risparmiare si è passato sopra a procedure di sicurezza, materiali impiegati, tecniche di costruzione e altro e, se per giunta questa prassi è quella che manda avanti un mondo strutturato sul profitto, non si capisce come anche queste operazioni di inertizzazione e stoccaggio non debbano essere viziate da questa sorta di peccato originale. Non è di per sé un problema che la SOGIN abbia scelto i siti, o che implicitamente abbia imposto la presenza di questa robaccia a qualche territorio, questo fa parte di un procedimento di selezione di siti a basso rischio sismico e idrogeologico, unito alla conformazione geologica del terreno. Tecnica applicata per minimizzare i rischi. Quello che preoccupa è la realizzazione in sé dei siti di stoccaggio che si configurano come Grande Opera, ossia grandi cantieri, subappalti, varianti in coso d’opera ecc. ecc.

Se nel nostro Paese ogni singolo appalto pubblico diventa una sorta di assalto alla diligenza ed in una situazione di economia stagnante si trasforma in un “tutti contro tutti” per accaparrarsi la possibilità di restare sul mercato mezzo minuto in più della concorrenza, non oso immaginare cosa mai potrà succedere una volta individuato un sito adatto. La solita macchina della propaganda si metterà in moto (produce quattrini pure quella), si prometteranno posti di lavoro, anche solo per il tempo utile dei lavori ma, nel bel mezzo del niente, 3-4 anni di contratto valgono sempre più della miseria. La pantomima delle consultazioni popolari farà da lubrificante, permettendo a qualche galletto da sagra locale di ergersi a paladino di una non meglio definita giustizia popolare, qualche trombato della politica si ricostruirà una verginità e qualche partito nazionale utilizzerà la faccenda per far contare la sua presenza in una maggioranza di governo traballante.

Assisteremo al balletto degli esperti, siano essi più o meno improvvisati non ha importanza, basta dire quello che la gente vuol sentire. I sindacati insorgeranno solo per il tempo necessario a strappare due euro di salario in più o semplicemente per mantenere l’egemonia locale. Nel frattempo tutto il clangore della carovana coprirà le discussioni per gli accordi e gli appalti, ribassi e sconti assurdi per accaparrarsi il lavoro, con la solita realizzazione ad mentula canis, tanto i guai su manufatti realizzati per resistere 350 anni forse li vedremo tra altri 40 o 50 e chissenefrega. Nel frattempo quello che conta è che i flussi di capitale corrano liberi senza intoppi, dal momento che è l’unica cosa che inquieta tutto il sistema. Non vi è molta differenza tra la creazione di città nel bel mezzo del nulla in epoca sovietica, per gestire energia elettrica e produzione di uranio arricchito, la creazione di atti federali per il finanziamento all’energia nucleare negli Stati Uniti ed il contentino popolare di posti di lavoro ben pagati, qualche ospedale o una scuola per far vedere che le cose servono a tutti e vanno a giovamento di tutti.

Se solo ci fermassimo ad analizzare la vera essenza del problema, non limitandoci come tanti stolti a guardare dita indicanti le rotondità lunari, potremmo capire da dove si originano veramente i disastri. Se solo avessimo la pazienza e la costanza di analizzare la realtà che ci circonda, invece di limitarci a farcela raccontare in pillole dal primo venuto, forse potremmo scorgere i fili che tengono in piedi il sistema giungere fin dentro casa nostra, passare dal nostro modem, dal frigorifero, infilarsi nella paccottiglia che stipiamo nei ripostigli e poi sfrecciare fuori per girovagare nella casa del vicino. Molta dell’immondizia radioattiva che dovranno seppellire in qualche angolo d’Italia non viene dalle nostre centrali nucleari, o meglio non solo. Viene dalla dismissione di macchinari industriali e ospedalieri solo in parte pubblici. Macchinari che quando utilizzati in ambito privato generano profitti ragguardevoli ma, poi, le spese di gestione della rottamazione finisce a carico del contribuente, non tutto per fortuna ma una buona parte si.

In conclusione più che starnazzare sugli impianti in sé o sul fatto di non volerli dietro casa, dovremmo pretendere che di queste scorie non ne venissero più prodotte, ciò però vorrebbe dire pagare di più alcuni prodotti, o non averne affatto. Vorrebbe dire boicottare le cliniche private ma in alcune aree geografiche sono le uniche che, di riffa o di raffa, a torto o a ragione, garantiscono la diagnostica. Vorrebbe quindi dire rivedere le nostre abitudini in maniera radicale. Capire che più o meno consapevolmente quella robaccia dipende anche da noi, vuoi per la nostra ignoranza, vuoi per la nostra noncuranza, voi per la nostra pigrizia nel cambiare stile di vita, o modo di informarci. Ora giunti al dunque dovremmo capire come minimizzare i rischi ed estorcere garanzie e opportunità reali al processo di stoccaggio. Ho paura però che si preferirà agire con la solita pantomima, il solito lavacro di coscienza per poter dire di averci provato e poi gettare la spugna con gran dignità. Quello che differenzia noi del 2021 dalla popolazione di Pryp”jat’ è che noi dovremmo conoscere molte cose più di loro e non cedere alla narrazione affabulatoria dei pifferai magici; pare purtroppo che nella generalità dai casi preferiamo marciare coi topi sulle note di un motivetto orecchiabile.

J. R.

NOTE

  1. La tecnica da mezzo dell’agire umano per raggiungere scopi si è trasformata in fine in sé. Da qui ne consegue che una società in cui la tecnica diventa fine, questa finisce col porsi in conflitto con l’etica, cioè purché lo scopo possa essere raggiunto ogni prezzo è giustificabile. “La tecnica sta all’inizio della nostra civiltà ma il suo dominio è andato sempre più crescendo ed oggi noi viviamo nel dominio della tecnica e ogni aspetto della nostra vita dipende dal modo in cui la tecnica ha organizzato l’esistenza dell’uomo sulla terra” (Storia del Pensiero Occidentale, a cura di E. Severino, Vol. 1, Milano, Mondadori, 2019).

Articoli correlati