Search

L’aumento della disuguaglianza in Italia. Bollette ma non solo.

L’aumento della disuguaglianza in Italia. Bollette ma non solo.

In questi giorni un po’ tutt* noi abbiamo avuto – o avremo a breve – la sgradevolissima sorpresa di trovare le nostre bollette di gas ed energia elettrica notevolmente aumentate, situazione che ha colpito in modo particolare i ceti medio/bassi della popolazione italiana. Certo, anche le aziende sono state colpite dagli aumenti ma, a differenza del lavoro dipendente, esse potranno rifarsi sui costi finali del loro prodotto o servizio, in un circolo vizioso che andrà ad aumentare sempre più lo stato di povertà di buona parte della popolazione. I media ci parlano di un governo che, teneramente preoccupato delle nostre sorti, sta cercando di investire alcuni miliardi per ridurre l’impatto degli aumenti: peccato che quei soldi che verranno investiti alla fine li pagheremo noi, tramite una diminuzione dei servizi sociali ed un aumento del debito che noi dovremo prima o poi ripagare.

La questione si risolverà, come è fin troppo evidente, in un aumento della disuguaglianze sociali, traducendosi in una diminuzione, per le classi medio/basse, del loro potere d’acquisto, senza nessuna “scala mobile” o residuo di essa a sua difesa. Anzi: è estremamente indicativo il fatto che nelle attuali trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici – in qualche modo punto di riferimento per tutti gli altri contratti del lavoro dipendente – l’inflazione verrà calcolata in base all’indice europeo IPCA ma che verrà “depurato” dai costi dei prezzi energetici.[1] In pratica, si richiede la conferma dell’impoverimento dei ceti medio/bassi anche in seguito ad eventuali aumenti salariali futuri.

La cosa, dicevamo, colpisce sicuramente sull’immediato ciascun* di noi ma, purtroppo, non è isolata e si colloca all’interno di un generale e costante aumento delle disuguaglianze sociali che va avanti oramai da oltre quarant’anni, sostanzialmente dopo la fine dei “trent’anni gloriosi” e lo smantellamento del cosiddetto “Stato sociale”. Il rifiuto appena ricordato dell’idea di un recupero anche solo formale del potere di acquisto precedente è tutto dentro questo processo, fatto di tantissimi aspetti e che, come ricordavamo, si è sviluppato dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso ad oggi. In quest’articolo però ci soffermeremo sugli ultimi sviluppi del fenomeno nella penisola italiana.

Il reddito reale, il potere d’acquisto effettivo, è certo un indicatore diretto delle disuguaglianze sociali ma è anche un indicatore indiretto del grado delle libertà civili: come spesso si ricordava in passato, la “stessa” libertà garantita formalmente in maniera universale può essere effettivamente utilizzata in una scala che va da chi è più ricco e scende gradatamente a chi è più povero. Formalmente, tutt* possiamo volere che i nostri figli studino “fino ai più alti gradi degli studi” come recita la Costituzione della Repubblica Italiana, di fatto questa cosa ha un costo notevole che non tutt* possono permettersi – giusto per fare un esempio, il quale ci dice anche come l’aumento del costo dei servizi sia uno dei punti fondamentali del processo di aumento della cosiddetta “forbice” sociale.

Giungiamo allora ai tempi recenti. Le disuguaglianze patrimoniali nella popolazione adulta si sono ulteriormente dilatate nel 2020 sia su scala planetaria sia all’interno della stragrande maggioranza dei paesi [2] e gli indicatori attuali per l’anno appena passato indicano la stessa tendenza che, d’altronde, come dicevamo, dura da decenni. Questo dato si ottiene sia utilizzando la quota di ricchezza netta del top-1%, sia la quota di ricchezza netta del top-10%, sia l’indice (o coefficiente) di Gini.[3] La situazione nel paese Italia non fa certo eccezione.[4]

Alla fine del 2020, infatti, il 20% più ricco degli italiani possedeva più dei 2/3 della ricchezza nazionale, il successivo 20% il 18,1%, il restante 60% più povero solo il 14,3% della ricchezza nazionale. Il patrimonio del top-10% della popolazione italiana possedeva, inoltre, oltre sei volte la ricchezza del 50% più povero. Utilizzando altre scale, si vedeva come la ricchezza del 5% più ricco degli italiani, con il possesso del 40,4% della ricchezza nazionale netta, superava quella posseduta dall’80% più povero degli italiani (32,4%) e come l’1% più ricco detenesse il 22,2% della stessa ricchezza nazionale, il che equivaleva ad oltre cinquantuno volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione. Una situazione che si era andata sviluppando, con minime fluttuazioni, negli ultimi decenni come certificato da recenti studi:[5] in questi si nota anche come nel periodo 1995-2016 la quota di ricchezza del top-0,01% degli italiani maggiormente ricchi è pressoché triplicata in 22 anni, passando dall’1,8% al 5%.

La pandemia, poi, ci ha messo certamente il suo, dimostrando tra l’altro come i potenti della Terra non siano stati, per usare un eufemismo, particolarmente solidali con il resto della popolazione, puntando a un ulteriore arricchimento a scapito delle classi lavoratrici anche in questa situazione. Infatti, mentre la stragrande maggioranza della popolazione si impoveriva, tra marzo 2020 e novembre 2021 il numero dei miliardari italiani nella Lista Forbes è passato da 36 a 49 e complessivamente la loro ricchezza netta a inizio novembre 2021 era di 185 miliardi di euro – un incremento in valori reali del 56% dal primo mese della pandemia. La quarantina di miliardari italiani più ricchi possiede oggi complessivamente l’equivalente della ricchezza netta del 30% degli italiani più poveri. Messa in altri termini, poiché il 30% in questione significa 18 milioni di persone adulte, mediamente ciascuno di loro possiede la ricchezza di 450.000 persone. Mediamente: i più ricchi tra loro anche molto di più.

Vediamo ora le cose dall’altro punto di vista – il nostro. Il governo Conte e poi, anche se in misura nettamente minore, quello Draghi hanno vantato e vantano tuttora i loro interventi di sostegno alla capacità di acquisto delle famiglie: in realtà si è trattato di pannicelli caldi. Infatti nel biennio pandemico i redditi primari delle famiglie nel solo primo anno della pandemia sono calati del -7,3%, con l’ovvia parallela contrazione della spesa per i consumi e, ovviamente, l’aumento percentuale della povertà assoluta nel nostro paese. Le famiglie in povertà assoluta sono appunto passate da 1,6 milioni nel 2019 a 2 milioni nel 2020 passando dal 6,4% al 7,7%. Nell’anno appena passato si sono formati più di un milione di nuovi poveri con la percentuale della povertà assoluta individuale del 9,4% – l’1,7 in più rispetto al 2019. Un fenomeno paragonabile, in tempi recenti, solo alla crisi dei debiti sovrani di una decina di anni fa, su cui la pandemia, come suol dirsi, è andata a piovere sul bagnato.

La situazione, ovviamente, sarebbe stata ancora peggiore se i pannicelli caldi non ci fossero stati: il risultato finale, però, insieme all’aumento delle grandi ricchezze, mostra come i governi non ci abbiamo regalato quasi nulla e che, se di qualcosa ci si deve lamentare, è la piccolezza dell’intervento, di fronte all’aumento della ricchezza di ricchi e straricchi. Al contrario, i governi sembrano essersi pentiti anche di questo poco che hanno fatto, come mostra la polemica ricorrente sul Reddito di Cittadinanza: mentre i dati sull’aumento della ricchezza dei più ricchi vengono di solito sottaciuti, è in atto una campagna denigratoria verso i percettori del Reddito di Cittadinanza. Anche qui i termini della questione andrebbero rovesciati: se davvero si volesse un minimo delimitare il crescere delle disuguaglianze, meccanismi del genere andrebbero ampliati sia quantitativamente sia qualitativamente – non certo diminuiti.

Quest’attacco, questa ricorrente propaganda ideologica verso i percettori del Reddito di Cittadinanza, ha un senso preciso: di fronte all’aumento della povertà e del fatto che oggi in questa fascia rientrano anche persone che un lavoro ce l’hanno ma ne ricavano un reddito minimo – i cosiddetti working poors – il tentativo è quello classico: deviare la rabbia dei ceti medio/bassi dalle classi dominanti verso chi sta ancora peggio di loro. La propaganda d’odio di classe verso i lavoratori immigrati, accusati di ogni genere di nefandezze e che non è certo finita, ora si sta allargando all’interno dello stesso mondo del lavoro “autoctono”.

A farne le spese sono, oltre ai poveri “standard”, anche il punto più basso della scala sociale: i senza fissa dimora. Oltre alla diminuzione dei fondi pubblici destinati agli interventi loro dedicati, in molte città si assiste ad un attacco ai loro luoghi di rifugio, in nome del “decoro” urbano.[6] La giustificazione ideologica presentata è ovviamente quella di volerli togliere da queste situazioni di degrado per offrirgli sistemazioni migliori – una giustificazione che però cozza gravemente con il già ricordato taglio dei fondi pubblici con cui si dovrebbe fare quest’operazione. In pratica, perciò, il tutto si risolve in una campagna d’odio sociale, come se non bastassero incentivi a chi ogni sera attacca fisicamente i senza fissa dimora, con conseguenze talvolta tragiche.

Tra l’altro, si verifica nel mondo dei senza fissa dimora una sempre maggiore contiguità con quello dei già citati working poors. Nel 2019, prima dello scoppio della pandemia, l’11,8% dei lavoratori occupati per almeno 7 mesi all’anno era povero, godeva cioè di un reddito familiare sotto il 60% del valore mediano del reddito disponibile equivalente su base familiare. Alcuni anni prima, nel 2017, una ricerca[7] che trascurava il reddito familiare e considerava poveri i lavoratori con retribuzioni annue inferiori al 60% della mediana delle retribuzioni, mostrava in base ai dati dell’INPS che quasi un terzo dei dipendenti privati, collaboratori, professionisti e lavoratori domestici erano working poors.

La situazione non sembra affatto migliorata, per usare ancora una volta un eufemismo, con la situazione pandemica. Anzi, nel biennio pandemico si è visto una forte diminuzione del numero degli occupati – soprattutto lavoratori dipendenti o (pseudo)autonomi – particolarmente nei primi dodici mesi dallo scoppio della crisi sanitaria (-878 mila unità registrate a gennaio 2021), che se nei mesi successivi ha visto un recupero si è trattato soprattutto a causa di occupazioni a tempo determinato.

È il capitalismo, bellezza – certo. È anche però il risultato della difficoltà della classe lavoratrice e, in generale, delle classi inferiori della società a reagire efficacemente a questo stato di cose. In altri tempi, per tornare all’inizio del nostro discorso, un aumento delle bollette di gas ed energia elettrica di una tale portata avrebbe portato a mobilitazioni enormi: oggi i ceti medio bassi sembrano completamente distratti da temi oggettivamente del tutto secondari. È il risultato di decenni di condizionamento ideologico che ha influito fortemente sull’immaginario collettivo, dando al presente stato di cose una sorta di carattere di ineluttabilità e di impossibilità del suo superamento.

È con questa difficile situazione che abbiamo a che fare nel nostro Belpaese. Non c’è altra strada d’uscita che la ripresa della propaganda e dell’azione sui temi fondamentali della questione sociale: occorre tornare ad agire sulla condizione materiale di vita delle persone, tornando ad offrire, insieme alla lotta “sindacale” sui bisogni, anche la rinnovata prospettiva di un mondo diverso, di liberi e di uguali, in cui vivere.

Enrico Voccia

NOTE

[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/02/11/inflazione-anche-la-cgil-chiede-di-rivedere-il-calcolo-degli-aumenti-contrattuali-altrimenti-con-i-rinnovi-i-salari-calano-invece-di-salire/6490314/

[2] https://www.credit-suisse.com/about-us/en/reports-research/global-wealth-report.html

[3] Coefficiente_di_Gini, Il coefficiente di Gini è un indice del grado di diseguaglianza di una distribuzione, ed è comunemente utilizzato per misurare la distribuzione del reddito.

[4] Il link a nota 2 ne presenta alcuni per il 2021.

[5] Vedi ad esempio ACCIARI, Paolo, ALFAREDO, Facunto e MORELLI, Salvatore, “The Concentration of Personal Wealth in Italy 1995-2016”, in CSEF Working Paper, 608, (https://ideas.repec.org/p/sef/csefwp/608.html), 2021.

[6] http://stampacritica.org/2021/02/15/decoro-urbano-la-lotta-ai-senza-fissa-dimora/ |https://www.lastampa.it/topnews/lettere-e-idee/2021/02/06/news/il-decoro-urbano-si-difende-sanando-la-sofferenza-1.39865585/ | https://www.ilmattino.it/napoli/citta/galleria_umberto_napoli_ultime_notizie_oggi_dormitorio_clochard-6452762.html

[7] https://www.eticaeconomia.it/i-working-poor-tra-salari-bassi-e-lavori-intermittenti/

Articoli correlati