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La ZEE italiana nella complessità del mare nostrum

La ZEE italiana nella complessità del mare nostrum

La definizione della Zona Economica Esclusiva italiana sembra stia vedendo la luce: dopo essere passata assolutamente in sordina, l’iter amministrativo sembra sia giunto alla fase conclusiva. Prima di cominciare la trattazione è doveroso chiarire cosa siano le Zone Economiche Esclusive (da ora in poi ZEE). Esse rappresentano un’area di mare, adiacente alle acque territoriali, in cui uno Stato costiero gode di diritti sovrani per lo sfruttamento delle risorse naturali, la fauna ittica in genere.[1] Queste zone garantiscono allo Stato costiero inoltre giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali, mobili o fisse, di ricerca scientifica, per la protezione e conservazione dell’ambiente marino. Va inoltre rammentato che le ZEE non riguardano lo sfruttamento del sottosuolo marino, per quello vi è un altro ambito denominato Piattaforma Continentale.[2]

Fatte queste dovute precisazioni, utili ad inquadrare i termini che andremo ad usare in queste righe, c’è da fare una prima serie di considerazioni che condurranno a formulare le ipotesi sulle quali è incentrato l’articolo. Il nostro giornale si è già ampiamente occupato di Mediterraneo e di tutta una serie di sommovimenti che lo interessano negli ultimi due lustri, in termini di una sua militarizzazione[3] o dei forti interessi economici e geopolitici.[4] In tempi non sospetti, ad avere un minimo di intuito, si potevano già immaginare alcuni scenari futuribili, che si sono poi venuti a palesare ai giorni nostri. Che il Mediterraneo tornasse a giocare un ruolo sempre più strategico mano a mano che la Cina intensificava le sue relazioni e stabiliva record di export sempre più strabilianti, non era un mistero per nessuno, in primis per gli analisti economici, in secundis per gli analisti della difesa. Quindi dal FMI a Bloomberg, da Stars and Stripes”ad Analisi e Difesa è stato tutto un susseguirsi di stime, valutazioni, proiezioni e quant’altro da almeno una decina d’anni a questa parte. Gli unici che sembrano non aver fiutato la faccenda sembrano essere stati i vari siti di movimento e la “compagneria” in generale, spesso troppo distratta dall’iper-specializzazione militante per poter godere di uno sguardo ampio sulla complessità in atto.

Non è però solo una faccenda di rotte commerciali, sebbene queste abbiano spinto paesi come la Turchia ad azioni militari per potenziare la loro presenza nel mediterraneo[5] o altri paesi ad intraprendere percorsi di profonda trasformazione dei siti portuali per accaparrarsi anche solo il transhipmet.[6] Quello che si sta ulteriormente agitando negli ultimi tempi è l’emergere di una nuova concezione del mare e del suo sfruttamento strategico attraverso quella che va sotto il nome di “Blue Economy”. Il termine allude ovviamente all’acqua e fu introdotto, per la prima volta nel 2010, da un economista belga, Gunter Pauli, nel suo libro che per l’appunto porta il titolo di Blue Economy. 10 Anni. 100 Innovazioni. 100 Milioni di Posti di Lavoro. Nell’ intenzione di Pauli vi è l’ introduzione di una nuova forma di economia sostenibile, simile a alla Green Economy, ma differente da essa. Partendo dal fatto che già la Green Economy è tutto fuorché green, a più di dieci anni dalla stampa di quel testo, la Blue Economy si è palesata per quello che è, con buona pace di Pauli, ossia un sistema di sfruttamento integrato delle risorse blu, che nel versante marittimo si estrinseca in turismo, attività ittiche ed energetiche.

Una delle sintesi più significative è fornita dal dipartimento delle attività economiche portuali di San Diego (Port of San Diego), nel quale si elaborano statistiche per implementare e ridefinire le attività legate alla Blue Economy. Dai cantieri navali alle attrazioni turistiche, passando per l’energia dal mare, all’acquacoltura fino all’itticoltura in mare, comprese sperimentazioni con la flora marina. Ora non ci resta che mettere in fila quanto finora raccolto, azzardare un’ipotesi e tentare di descrivere, in ragione di tale ipotesi, la configurazione del Mare Nostrum nei lustri più prossimi. Da un lato abbiamo un concordato internazionale che consente in specifiche zone ben delimitate di intraprendere alcune attività, tanto per fini commerciali quanto per fini “scientifici e di ricerca” e “difensivi”!

Difatti nella proposta di legge vengono riportate le finalità della ZEE: “L’istituzione della ZEE garantirà al nostro Paese un conseguente vantaggio economico importante, ad esempio per una parte dell’economia blu come la pesca. Potrà inoltre costituire un importante strumento per mettere in campo iniziative più mirate alla sicurezza delle nostre coste e alla tutela dell’ambiente marino salvaguardando così una preziosa risorsa dallo sfruttamento eccessivo, in un’ottica sempre più sostenibile. È quindi un intervento legislativo necessario per regolare tra le altre la pesca, la tutela dell’ambiente, e per rispondere a chi tenta di intaccare la nostra sovranità, cercando di appropriarsi di ciò che ci appartiene”.[7] Più eloquenti di così sarebbe difficile essere. Si può quindi comprendere come le finalità delle ZEE sono quelle di stabilire confini chiari da difendere anche con manu militari, confini ovviamente di squisito interesse economico.

Mettendo assieme il concetto di piattaforma continentale (PC) che determina gli ambiti di sfruttamento delle risorse del sottosuolo marino e quello di ZEE, si può capire come ci sia una corsa ad accaparrarsi i nuovi mercati emergenti, sia in termini di giacimenti sottomarini, sia per quanto riguarda i problemi della pesca che costringe alla ricerca della risorsa ittica in tratti di mare sempre più distanti dalla costa. Se a tutto ciò sommiamo il fatto che l’Italia è un degli ultimi paesi a sancire le sue zone di interesse economico si comincia ad avere un quadro abbastanza chiaro della situazione. La spiegazione la si ritrova esattamente nella definizione di ZEE e più specificamente l’uso di attrezzature artificiali, temporanee o fisse. In questa definizione rientrano a pieno titolo le condutture per gas e petrolio, o le nuove ricerche per la sostituzione del Gas Naturale o del Metano con l’Idrogeno.[8] Una nuova stagione di implementazione infrastrutturale per pompare combustibile da un capo all’altro del Mediterraneo, raccordando gasdotti e oleodotti esistenti che giungono dall’Africa e dall’Asia, verso la grassa e vorace Europa.

Quindi quanto ipotizzato anni orsono, in altre parole un Mediterraneo come nuovo territorio di conflitto, sembra essersi realizzato. Avere un mare lottizzato nel quale in un miglio quadrato possono liberarsi risorse economiche di un certo rilievo, potrebbe aprire ad uno scenario di continue “scaramucce” tra confinanti, ognuno spalleggiato a sua volta da interessi molto forti. Si potrebbe immaginare il Mare di Odisseo definito in aree di influenza: da una parte la NATO che ne detiene i capisaldi centrali, dall’altra la terra di mezzo anatolica che dialoga con l’orso russo, consentendone il transito attraverso il Bosforo e poi l’area orientale sulla quale si affacciano i maggiori traffici commerciali da e per l’oriente che fanno estrema gola un po’ a tutti. In un contesto che appare assai più complesso di un misero stallo alla messicana, sancire delle zone esclusive vuol dire avere aree da offrire come zone franche o come transito protetto, tanto per natanti tanto per condutture e altro. Il conflitto tra interessi occidentali ed orientali si sposta quindi sullo scacchiere marino.

J.R.

NOTE

  1. In base alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (“United Nations Convention on the Law of the Sea”, UNCLOS), la ZEE può estendersi fino a 200 miglia dalle linee di base (baseline) dalle quali viene misurata l’entità delle acque territoriali (territorial waters). Nel caso in cui l’ampiezza delle acque territoriali fosse di 12 miglia, la ZEE potrebbe avere l’estensione massima di 188 miglia. Come è previsto per la “zona contigua” – che, allorché esista, è compresa all’interno della ZEE – la ZEE, perché diventi effettiva, deve essere proclamata formalmente nei confronti della comunità internazionale.

  2. Secondo il diritto internazionale e la Convenzione di Montego Bay del 1982, allo Stato costiero sono attribuiti i diritti di sfruttamento economico della piattaforma continentale. Gli Stati possono sfruttare in modo esclusivo le risorse minerali e gli idrocarburi presenti sul suolo e nel sottosuolo, le risorse viventi sedentarie nonché installare isole e circondarle di zone di sicurezza. Storicamente, la piattaforma continentale è stata sottratta al fondo marino internazionale a partire dalla prima metà del Novecento, quando il presidente statunitense Harry Truman rivendicò diritti esclusivi di sfruttamento sull’area.

  3. Cfr. JR & Lorcon, “Mare Nostrum, para bellum!”, in Umanità Nova, 2020, https://new.umanitanova.org/?p=11634

  4. Cfr. JR & Lorcon, “Libia e Dintorni”, in Umanità Nova, 2020, https://www.umanitanova.org/?p=11453

  5. L’operazione militare che a aperto un corridoio strategico verso l’area di influenza marittima cipriota, cfr. JR & Lorcon, “ Notte senza fine”, Umanità Nova, 2020, https://new.umanitanova.org/?p=10840

  6. La pratica del transhipment consiste nello scaricare merci (generalmente stoccate in containers) da una nave all’altra, quindi il porto in questione agisce come area di sosta ma diviene nel contempo un nodo logistico strategico.

  7. Cfr. Proposta di Legge dell’On. Iolanda Di Stasio (A.C. 2313).

  8. Cfr. Malanova, “Imbroglio Neocoloniale dell’Idrogeno, una Proposta di Lettura del PNRR”, consultabile online: https://www.malanova.info/2021/05/21/limbroglio-neocoloniale-dellidrogeno-una-proposta-di-lettura-del-pnrr/

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