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Contro la cultura dello stupro. La guerra è anche una questione di genere.

Contro la cultura dello stupro. La guerra è anche una questione di genere.

La guerra alle porte di casa fa tremare le nostre certezze e i nostri punti di riferimento, mette in discussione le nostre priorità, quelle che fino ad un attimo prima sembravano inscalfibili, come se ci potesse essere una gerarchia di battaglie da combattere in una vita che è limitata sotto tanti aspetti.

La guerra alle porte, la guerra guerreggiata, non quella sottile dell’economia e dello sfruttamento, non quella escludente, mascherata, dello stato burocratico e nazionale, dei documenti, della razza, della provenienza geografica; la guerra delle bombe, dei soldati per le strade e dei rifugi antiaerei, degli ospedali evacuati, della fuga dei profughi, delle trincee e delle barricate, questa guerra lì ci fa precipitare nella realtà, nella materia più concreta, quella fatta di carne, sangue e lacrime e tutto il resto sembra cadere in secondo piano.

Non si vive di idee, sembra dirci questo dramma che si sta compiendo, si vive quando si continua a respirare, a bere e a mangiare. Si vive se il nostro corpo rimane abbastanza integro da garantirci tutte le funzioni necessarie al suo sostentamento. Tutto il resto: le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze che non ammazzano se ti comporti “bene”, secondo le regole, tutto il resto non conta o conta meno. Apparentemente la nostra vita si blocca illuminata da quei fuochi, diventiamo come le falene suicide verso le torce in estate.

La guerra guerreggiata può sopraffarci con appelli alla neutralità facendoci dimenticare quello per cui lottavamo un istante prima, quello per cui vale la pena vivere, il percorso che stavamo compiendo verso una società di libere ed uguali. Io però questo “shift” non ho alcuna intenzione di farlo e, per questa ragione, per le mie compagne ucraine e russe che in questo momento sono al centro di una scena non voluta di violenza totale, scrivo e scendo in piazza con le nostre ragioni femministe e transfemministe, ancora più convinta della necessità di abbattere questo sistema alla radice, di trasformare gli elementi costitutivi del potere, per costruire relazioni che siano rivoluzionarie; relazioni incentrate sul riconoscimento e la solidarietà, un riconoscimento dell’altr* e delle sue volontà di espressione di genere, di orientamento sessuale, una solidarietà di classe, una solidarietà internazionale, transnazionale, contro i confini, una solidarietà che valichi il colore della pelle o la provenienza geografica.

Partendo da questi ultimi avvenimenti, con il cuore colmo di dolore per quello che sta accadendo e senza dimenticare quello che accade in molte regioni del mondo martoriate da conflitti e guerre, espongo alcune riflessioni riguardanti lo stupro.

Una cosa che capita a tutte. Serata, baldoria, leggerezza e forse provocazione. Consapevole o inconsapevole? Capita. Posto di lavoro, capo viscido, battute, sfiorate, palpate, vestite come palombari ma pur sempre dotate di vulve tra le gambe. Saranno gli ormoni che non controlliamo? Capita. Strada buia, sera tardi, incroci imprevisti, testa bassa e mani sulle chiavi, di casa, dell’auto, battute a cui è meglio non rispondere. Capita.

Molte donne, educate ad accettare aggressioni il cui fondamento è nella discriminazione di genere, non fanno una piega a quanto può capitare loro. Molte donne subiscono passivamente quello che riconoscono come una violazione della propria integrità fisica e/o psichica ma alla quale credono di doversi sottomettere in quanto femmine. Dalle apparentemente innocue battute alle piccole aggressioni fisiche, fino alla violenza giustificatrice del “se l’è cercato…”.

Alla violenza interiorizzata di chi vive con senso di colpa un abuso subito. Alla violenza delle istituzioni che qui voglio chiamare in causa, in quanto sono inorridita dalle ultime sentenze giudiziarie emesse dai tribunali di Livorno, Ravenna, Busto Arsizio… e questo solo per fare un elenco veloce e parziale.

Si chiede alle donne di denunciare per poi costringerle ad un percorso giuridico che le obbliga a ripercorrere minuziosamente quello che hanno subito, scavando nelle loro vite, mettendo sul tavolo del giudizio i loro comportamenti presenti e passati, il loro modo di vivere la loro vita o anche semplicemente il loro modo di vestirsi o di scegliersi i luoghi o le compagnie. Dopo tutto questo lungo tragitto, che il più delle volte dura anni, poi non le si riconosce vittime di quello che hanno denunciato. Non mi stancherò mai di ripeterlo con forza:

quando non c’è consenso c’è stupro;

quando il consenso viene dato non è detto che venga dato per sempre;

quando il consenso viene dato non è detto che non possa essere poi ritirato, anche a incontro iniziato;

quando una persona non è pienamente consapevole, non è in grado di dare il suo consenso.

Quello che accade durante un’aggressione sessuale, anche la più lieve, è banale e drammatico al tempo stesso ed è ormai studiato in accademia, descritto in ambito giuridico e raccontato da molt*. La persona che si trova ad essere oggetto di violenza sessuale può reagire in tre modi grossolanamente riassumibili in: fuga, attacco, passività. Tutti gli atti compiuti a suo danno – e che non hanno il suo consenso – sono da considerarsi atti di violenza. Eppure, anche da quando lo stupro non è stato più considerato reato contro la pubblica morale ma contro la persona, i tribunali ci dimostrano come la “cultura dello stupro” permei la nostra vita e le istituzioni che dovrebbero difenderci, alle quali ci è chiesto di rivolgerci in caso di aggressione, pena la nostra “vigliaccheria”.

Per capire cosa capita nel corso di un’aggressione bisogna avere la sensibilità di ascoltare chi l’ha subita, lasciando alla persona la possibilità di rispettare i propri tempi e il proprio dolore e, molto spesso e purtroppo, la propria vergogna. Ci si deve mettere nella condizione di non giudicare chi si sta confidando. Capita però, di frequente, che chi raccoglie queste testimonianze si senta attaccato in prima persona e metta in atto delle strategie di difesa dubitando del racconto, indagando le circostanze, i moventi e le circostanze attenuanti. Vero è che quando una donna, quando una persona, racconta uno stupro, chiunque la ascolti dovrebbe sentirsi coinvolt* in un qualche modo poiché un atto di violenza non è mai estraneo alla comunità all’interno della quale avviene. La violenza, così come la solidarietà o l’amore verso il prossimo, sono sempre gesti collettivi che hanno a che fare con l’intera società nella quale si realizzano, nei confronti dei quali l’intero corpo sociale non può dirsi estraneo.

A Busto Arsizio la denuncia per molestie sessuali fatta da una hostess nei confronti di un sindacalista a cui aveva chiesto assistenza non è stata riconosciuta perché, pur credendo alla donna, non vi è certezza sugli elementi della violenza.

A Livorno la giudice scrive chiaramente nella sentenza che non riconosce la violenza sessuale in quanto “(…) è ben chiaro che il gesto in sé […fellatio] non può comportare una coazione della continuazione del rapporto, che necessita, per le stesse modalità del tipo di rapporto sessuale, di una piena partecipazione attiva della donna”.

A Ravenna assistiamo all’assoluzione di due uomini che hanno violentato una donna in profondo stato di ebrezza, dimostrato addirittura da un video girato da loro stessi, in cui sono evidenti le sue condizioni e raccontate, tra l’altro, anche da alcune testimoni. Siamo in attesa delle motivazioni.

Dobbiamo educare i/le giovan* a riconoscere la propria volontà e accettare quella altrui. Dobbiamo educare le ragazze a rispondere. Rispondere non è facile. A volte si deve esercitare violenza su di sé per dire: no, non voglio, sono arrivata fino a qui ma non voglio andare oltre; mi serve questo posto, questa promozione, questo aiuto, questa licenza ma non voglio pagartela con una palpata, una battuta sessista, un pompino; sono per la strada da sola, è vero, è tardi, è vero, indosso una gonna corta o uno scafandro e non voglio avere paura quando ti incrocio, non voglio dover contare sulla tua gentilezza… disattenzione… o sul mio camuffamento per camminare per quella via. Dobbiamo insegnare e dobbiamo imparare che la nostra volontà, che può cambiare nel corso della serata, conta. Dobbiamo imparare e dobbiamo insegnare a dire no quando quello che sta accadendo non coincide con questa volontà.

Nessuno creda che sia così scontato perché non lo è. Non è scontato ribellarsi a quello che viene imposto come uno status quo in cui riconoscersi, su cui costruire la propria identità, il proprio significato nel mondo: sorella, moglie, madre, vecchia. Sulla violenza della cultura dello stupro si fonda il patriarcato che regola ancora oggi la nostra società.

Quando un giudice può permettersi di discriminare sulla volontà che ci può essere in una fellatio da parte della donna che subisce una violenza sessuale in quanto l’atto di per sé necessita della partecipazione di chi lo compie – anche se questa si trova in posizione di sudditanza e di ricatto – allora vuol dire che c’è ancora tanta strada da fare per liberarci dalla cultura dello stupro.

Quel giudice con la sua sentenza è parte del problema e ci riporta indietro di decenni. Ci ricorda una sentenza che avremmo voluto dimenticare: “Aprile 1994. È “arduo ipotizzare” una violenza sessuale fra coniugi in caso di coito orale in quanto la donna ‘avrebbe potuto in ogni caso facilmente reagire e sottrarsi al compimento dell’atto da lei non voluto’”.[1] Forse quella donna avrebbe dovuto mozzargli il pene come fece Lorena Bobbit nel 1993 contro il marito stupratore o i personaggi femminili del Germinale di Zola contro un negoziante violentatore? Questo per dimostrare la sua contrarietà alla violenza che stava subendo? Morendoci forse in mezzo o, chi lo sa, ammazzandolo?

Sul fatto che poi non si riconosca l’impossibilità dell’elargizione del consenso nella condizione di una donna semisvenuta perché ubriaca, portata a spalle in un appartamento e abusata sessualmente, non so davvero cosa aggiungere se non che siamo di fronte a una profonda e crudele ignoranza e incapacità di giudizio.

Dobbiamo imparare ed educare al rispetto dei confini del corpo e dello spazio dell’altr* come fossero i nostri confini, il nostro spazio. Siamo contro le frontiere, siamo per la libera circolazione delle persone, siamo per il libero amore, siamo contro la proprietà ma siamo per il rispetto delle volontà.

La guerra è sempre uno stupro e lo stupro è sempre parte delle strategie di guerra… e so che guerra e educazione al consenso sembrano cose apparentemente distanti, priorità di diverso livello prese astrattamente. Credo però che nella critica radicale al sistema questi elementi si intreccino. Non dobbiamo mai smettere di lottare per una società più giusta, equa, solidale, anticapitalista, antirazzista. La lotta al patriarcato ha questi aspetti intrinsechi, l’essere ancelle ha insegnato alle donne, alle minoranze discriminate dalla norma, cosa significhi essere ai margini e quanto valga la solidarietà per poter sopravvivere, quanto sia sottile il vestito dell’imperatore, quanto il potere possa essere messo a nudo e rifiutato. Ni una menos.

Argenide

NOTE

[1] https://www.repubblica.it/2005/e/sezioni/cronaca/cassazione/vioscheda/vioscheda.html

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