Search

Manifesto AnarcAfemminista

Manifesto AnarcAfemminista

Viviamo sotto una “omocrazia” globale. Le donne sono oppresse dappertutto, in tutto il mondo . In un’epoca in cui il mondo è diventato un villaggio globale, dove informazioni, capitali e virus viaggiano istantaneamente, non possiamo fingere di non sapere, quindi lo sappiamo. Cosa sappiamo? Sappiamo che le donne sono politicamente, economicamente, socialmente e sessualmente oppresse. Non importa quale sia la fonte di oppressione: razza, classe, genere, impero, le donne sono sempre al fondo della scala.

Sono molti gli strumenti con cui gli uomini esercitano il loro privilegio, ma un elenco utile, seppur temporaneo, include la morte, lo stato, il capitale e l’immaginario. La morte perché le donne sono oggetto di un “gendercidio” mondiale, lo stato perché la sovranità statale è strumento della sovranità sessuale, il capitale perché la sua economia sfrutta le donne più degli uomini e l’immaginario, perché l’immaginario omocratico globale produce e riproduce costantemente immagini dannose e oppressive per le donne.

1. Genocidio femminile

C’è una guerra in corso a livello globale e questa guerra è condotta contro le donne. Perché ci sono più uomini che donne sul pianeta nonostante il fatto che le donne tendano a vivere più a lungo? Dove sono tutte le ragazze scomparse? Le “ragazze scomparse” non si contano a centinaia, o a migliaia, ma a milioni. Attualmente, ci sono tra 126 e 160 milioni di ragazze scomparse a livello globale a causa di aborto selettivo per sesso, infanticidio e disuguaglianze di cura. La violenza contro il corpo femminile non si ferma però alla nascita: una su tre di noi lo sa perché l’ha vissuta in prima persona, sotto forma di violenza fisica o sessuale o, più spesso, di una combinazione di entrambe. Non solo le donne ma tutti i corpi femminilizzati e queer in genere sono oggetto di violenza che può assumere forme diverse a seconda delle diverse intersezioni, ma si tratta sempre di violenza di genere.

Lo stupro è la forma più comune di violenza sessuale contro le donne. Le statistiche dell’ ONU affermano che nel mondo il 35% delle donne subisce violenze fisiche o sessuali e il 70% ha sperimentato sulla propria pelle violenze da parte di un partner intimo nel corso della propria vita. Le donne e le bambine insieme rappresentano il 72% delle vittime della tratta di esseri umani: tre su quattro le ragazze giovani, quattro su cinque donne e tre su quattro ragazze giovani soggette al traffico a scopo di sfruttamento sessuale. Inoltre, ci sono 650 milioni di donne e bambine che si sono sposate prima dei 18 anni, senza più scolarizzazione, con minori opportunità e autonomia e al contempo soggette ad un rischio maggiore di subire violenza domestica. Le case non sono un luogo sicuro per le donne come ha confermato la pandemia di coronavirus: mentre il lockdown continua, la violenza di genere aumenta.

Dove sono gli uomini in tutti queste statistiche? Dove sono in tutti questi atti di aborto selettivo per sesso, infanticidio, matrimoni precoci, stupri, tratta di esseri umani e omicidi? Quando non picchiano le donne, contribuiscono alla causa femminista, portando il nostro stendardo, urlando con noi o nella migliore delle ipotesi stanno semplicemente zitti? Il più delle volte rimangono in silenzio e contribuiscono così a fare in modo che il “primo sesso”[1] rimanga il primo per un bel po’ di tempo a venire. Contro il genere femminile e ogni forma di violenza sulle donne, noi anarcafemministe chiediamo la liberazione di tutte le donne. Non una di meno! Ni una menos! O tutte o nessuna di noi sarà libera.

2. Lo stato sovrano è uno strumento della sovranità sessuale

Gli uomini rappresentano il sesso sovrano perché, come gli Stati sovrani, non devono riconoscere alcun (sesso) superiore al loro. Il mondo è attualmente diviso in Stati, il che significa che non c’è un solo pezzo di terra dove possiamo scappare. Quindi siamo costretti a vivere sotto il dominio statale, il che, a sua volta, significa anche che siamo costretti a vivere sotto il dominio degli uomini: in una valutazione comprendente 149 stati, nel 2019, le donne capo di stato erano solo l’11%, mentre mediamente rappresentano solo il 21% dei ministri e il 25% dei parlamentari. Insomma, sono in gran parte gli uomini che decidono cosa è legale e cosa è illegale, chi/come e quando pagare le tasse, chi/come e quando dare lavoro, matrimoni, beni ereditati, assistenza sanitaria, asili costruiti e aborto legalizzato o meno. Dato che viviamo sotto il dominio degli uomini, ci sorprendiamo se siamo veniamo a sapere che, a livello globale, le donne sono pagate in media il 63% di quanto ricevono gli uomini[2]?

No, non siamo sorprese. Questo significa che dovremmo lottare per avere un presidente donna? No: questo significa che dovremmo lottare per non avere affatto un presidente (anche se, onestamente, se proprio dev’esserci un presidente, non ci dispiacerebbe un cambio di guardia). Non dovremmo farci illusioni: non può esserci uno Stato femminista perché femminismo significa liberazione di tutte le donne e lo Stato è lo strumento con cui una minoranza di persone governa la stragrande maggioranza. Il femminismo non può però significare la liberazione di poche donne. Questo si chiama elitarismo. “Quando poche donne al potere dominano la maggioranza delle donne impotenti, si realizza una differenziazione di classe ineguale. Se la maggioranza delle donne non vuole essere controllata dagli uomini, perché dovrebbe voler essere controllata da una minoranza di donne?”.[3] Invece di competere con gli uomini per il potere, le donne dovrebbero lottare per rovesciare il dominio degli uomini e l’anarcafemminismo è lo strumento migliore per questo perché è il miglior antidoto contro la possibilità che il femminismo diventi semplicemente elitarismo o, peggio ancora, privilegio dei bianchi.

In un’epoca in cui l’elezione di una sola donna a presidente è spesso presentata come elemento di liberazione per tutte le donne, quando donne come Ivanka Trump possono rivendicare battaglie femministe trasformando l’hashtag #donnechelavorano in un marchio di moda, quando il segno della liberazione è avere donne che fanno il “lavoro femminile” per le élites come le pulizie domestiche o la cura per l’infanzia, il messaggio storico fondamentale delle anarcafemministe è più attuale che mai: “Femminismo non significa potere corporativo femminile o un presidente donna: significa niente potere corporativo e niente presidente”.[4] La libertà è indivisibile e ogni atto di oppressione e sfruttamento delle donne, ogni negazione dei diritti delle donne, ovunque avvenga, ogni singolo atto di violenza contro le donne o chiunque svolga quel ruolo, contribuisce alla sudditanza di tutte le donne come genere. Contro la violenza perpetrata dagli Stati sovrani al fine di mantenere il sesso sovrano nel suo privilegio, noi anarcafemministe chiediamo la liberazione di tutte le donne. Non una di meno! Ni una menos! O tutte o nessuna di noi sarà libera.

3. Peccati capitali

Se ci liberiamo dal giogo intellettuale dei confini statali e prendiamo l’intero globo come riferimento, il primo dato sorprendente che emerge è che le persone hanno sempre creato divisioni di genere ma in molti casi i termini della questione erano diversi. È solo con l’emergere di un sistema capitalista mondiale che il rigido binario di genere è diventato egemone in tutto il mondo. Ciò non significa che la differenza sessuale non esistesse prima del capitalismo globale, né che il capitalismo abbia inventato il patriarcato da zero. Significa semplicemente che il capitalismo ha rioccupato le precedenti forme di patriarcato, ha sradicato il matriarcato là dove esisteva, dando così all’omocrazia nuova forza e un nuovo formidabile slancio.

Il capitalismo ha bisogno delle “donne” perché ha bisogno del presupposto che le donne non stanno “lavorando” quando lavano i calzini di marito e figli e gli preparano i pasti: ha bisogno che esse credano di essere solo brave mogli e brave madri. Se un capitalista dovesse pagare un salario per tutto il lavoro di pulizia, cucina, alimentazione, cura, babysitteraggio e educazione dei figli che le “brave mogli” e le “brave madri” svolgono gratuitamente, allora non ci sarebbe il capitalismo perché ci sarebbe un limite all’espansione illimitata del profitto che definisce “capitalista” l’economia. Le donne non sono solo oggetto di sfruttamento capitalistico, ma anche oggetto di “super-sfruttamento”,[5] cioè dell’appropriazione del lavoro che svolgono attraverso la negazione stessa dello status di lavoro.

Insieme all’estrazione di lavoro non salariato gratuito dalle donne, il capitalismo ha però anche bisogno di estrarre risorse naturali gratuite dall’ambiente e creare meccanismi per regolare il flusso di lavoro. Questo è il motivo per cui, fin dall’inizio, il capitalismo è andato di pari passo con il colonialismo, l’occupazione della terra e le catastrofi naturali. In quanto sistema dedito all’infinita accumulazione di profitto, il capitalismo fa affidamento sui confini statali per regolare il movimento della forza lavoro e l’estrazione di risorse naturali ma si affida anche al razzismo per assicurarsi che alcuni corpi siano più sfruttabili di altri. È qui che l’intersezionalità è più evidente, perché essere una donna di colore significa essere sfruttabile in un modo che non può essere semplicemente spiegato dalla somma qualitativa dell’essere donna più persona di colore ed essere una donna indigena, il cui ambiente è stato distrutto e avvelenate le sue acque; significa essere sfruttati a tal punto che nessun assegno mensile potrà mai ripagare. Qualcosa di molto peculiare accade in quelle intersezioni dei “peccati del capitale” ed è qui che prospera “il colonialismo di genere”.[6]

Contro questo intreccio sistematico tra esaurimento capitalista delle risorse naturali, classificazione razziale dei corpi e oppressione di genere, contro questo disegno di confine che separa le donne l’una dall’altra per renderle più sfruttabili, mentre distruggono l’ambiente in cui viviamo, noi anarcafemministe chiediamo la liberazione di tutte le donne. Non una di meno! Ni una menos! O tutte o nessune di noi sarà libera.

4. Un’altra donna è possibile

A questo punto i nostri nemici potrebbero obiettare: perché insistere sul femminismo e non chiamarlo semplicemente anarchismo? Se lo scopo è smantellare tutti i tipi di gerarchie oppressive, non dovremmo anche sbarazzarci del binario di genere, che contrappone le “donne” agli “uomini”, e quindi ci imprigiona in una matrice eteronormativa? Traendo spunti da un’ontologia del transindividuale, rispondiamo che i corpi in generale e i corpi delle donne in particolare non devono essere considerati come individui, come oggetti dati una volta per tutte, piuttosto come processi.

I corpi delle donne, come tutti i corpi, sono corpi al plurale perché sono processi costituiti da meccanismi di affetti e associazioni che avvengono a livello inter-, intra- e sovra-individuale. I nostri corpi nascono attraverso un incontro interindividuale, sono modellati da forze sovraindividuali, come la loro posizione geografica, sono costituiti da corpi intra-individuali come le molecole che respiriamo, gli ormoni che inglobiamo o le immagini che ingurgitiamo ogni giorno.

In senso proprio non siamo, non siamo mai stati, individui: siamo, letteralmente, processi transindividuali, luoghi accidentali di un processo in divenire a diversi livelli. Siamo relazioni, non sostanze. Processi, non cose. Solo se interpretiamo i confini della pelle come confini di tutto ciò, possiamo classificare i corpi come maschi e femmine ma, se guardiamo oltre quei confini e consideriamo la totalità delle cellule che compongono i corpi umani, così come le relazioni tra loro, troviamo che il 95% di loro sfugge a quella dicotomia.[7]

Se, e solo se, adottiamo questa prospettiva transindividuale, possiamo parlare di “femminilità” al di fuori di qualsiasi quadro eteronormativo e quindi utilizzare proprio questo termine per includere tutti i tipi di donne: donne femminili, donne maschili, donne trans, donne, donne maschi, donne lesbiche, donne bisessuali, donne intersessuali, donne cis, donne asessuali, donne queer e così via. Fino ad arrivare a modi di essere donna non ancora sperimentati perché un’altra donna non è solo possibile: è sempre già presente. Contro la violenza perpetrata in nome del binarismo di genere, dell’omofobia e della transfobia, noi anarcafemministe chiediamo la liberazione di tutte le donne. Non una di meno! Ni una menos! O tutte o nessuna di noi sarà libera.

5. Tecnologie del Sé

L’apparato immaginario che sostiene l’omocrazia globale si è però infiltrato anche nel processo stesso del divenire donna. I corpi delle donne sono ovunque oggetto di un processo disciplinare, il cui scopo reale non è semplicemente quello di governare i corpi ma di instillare in noi l’idea che i nostri corpi hanno bisogno di essere governati. Immagini e rituali di salute, bellezza e cura cambiano molto da un contesto all’altro ma sono ovunque uno dei luoghi più potenti per l’esercizio delle tecnologie omocratiche del sé. Così si creano soggetti docili: non (solo) attraverso l’imposizione di regole dall’esterno ma attraverso la partecipazione volontaria e, a volte, anche gioiosa, alla propria sottomissione.

A partire dall’Ottocento, cioè dall’epoca delle prime fabbriche e del servizio militare obbligatorio, gli uomini europei hanno subito la cosiddetta “grande rinuncia maschile”:[8] hanno rinunciato a tutti i colori, pizzi e fronzoli, per indossare il colore sobrio di un abito a due pezzi che viene indossato oggi da tutti gli uomini importanti, dallo studente universitario che va per il suo primo colloquio di lavoro al capo dello Stato che annuncia una guerra. Ciò ha sicuramente accresciuto la loro funzionalità oltre che la loro solennità, in particolare quando la giacca, che deriva direttamente dalle divise militari, si apre al centro del petto per svelare quella “cosa” che pende, chiamata “cravatta”. Rinunciando a tutti gli altri ornamenti, gli uomini hanno chiarito che non ne avevano bisogno, proprio perché già di per sé sono così importanti, mentre le donne, che hanno sempre bisogno di autopromuoversi, portano tutto il peso dei colori, dei merletti e di altri ornamenti.

Subiscono anche la maggior parte dell’onere assistenziale, in tutti i sensi, dall’assistenza all’infanzia, alla cura del corpo all’assistenza sanitaria. I corpi e le sessualità delle donne sono infatti medicalizzati e patologizzati a un livello inconcepibile paragonate agli uomini. Perché le donne dovrebbero visitare un ginecologo una volta all’anno mentre la maggior parte degli uomini può condurre un’intera vita senza aver mai visto un urologo? Perché gli organi sessuali delle donne hanno bisogno di molti più “controlli” rispetto a quelli degli uomini? Diamo per scontato che qualcosa debba essere andato storto solo perché… sono donne?

La disciplina subita del sesso femminile non si ferma alla porta del ginecologo. Attualmente sono almeno 200 milioni le donne che hanno subito mutilazioni genitali femminili, spesso in età così giovane da non sapere nemmeno che le cose potrebbero non essere altrimenti. Quando si tratta di rituali di circoncisione, le donne devono sopportare procedure come clitoridectomia, rimozione labiale, infibulazione, gravi complicazioni di salute e perdita del piacere, mentre gli uomini possono cavarsela con un taglio molto superficiale che non implica nulla di tutto ciò. Perché tanto dolore da una parte e così poco dall’altra?

Perché poi si parla principalmente di organi sessuali femminili in termini di vagina che, come ricorda l’etimologia latina, significa “fodero”? Il Dio cristiano ha creato il mondo dando nomi e, da allora, dare nomi è rimasto l’atto sovrano per eccellenza. Chi e perché ha denominato tutto quello spazio variegato paragonandolo ad un semplice “contenitore per la spada”? Dove sono finiti il clitoride, la vulva, il pube, l’utero e le labbra? Tutto nella “vagina”. Il tutto si riduce ad una sola parte: la parte destinata a dare piacere al pene.

Questa non è solo una forma di riduzionismo terminologico: proprio perché i genitali femminili sono così incompletamente definiti, le donne subiscono in modo più compiacente rituali di adattamento costanti, i quali possono variare enormemente nello spazio e nel tempo ma sono implacabili nel loro effetto disciplinante. Ad esempio, mentre gli uomini si sottopongono raramente alla depilazione genitale, ci si aspetta sempre più che le donne si tolgano tutti i peli dal pube per essere pulite, desiderabili e sexy. Perché però abbiamo bisogno di vulve da prepubescenti per essere accettabili? Se è vero che i peli compaiono sui genitali quando raggiungiamo la pubertà, cos’è questa consuetudine visiva in cui ci si aspetta che le nostre vulve sembrino non mature ? Si vuole che restiamo bambine per sempre? Che gli uomini dovrebbero voler fare sesso con le bambine? Possiamo dire ciao a tutti e allontanarci educatamente da questo ordine omocratico?

Probabilmente non così rapidamente. Dalla tradizionale fasciatura dei piedi ai moderni tacchi alti, il controllo dei piedi delle donne è un altro strumento per disciplinare i nostri corpi. Che si tratti di impedire la loro crescita naturale, perché si diceva che i piedi piccoli fossero particolarmente attraenti, o seducenti nel camminare su dolorose alte colline, perché camminando su questi piccoli peni appuntiti si dice che siamo particolarmente eleganti, i piedi delle donne non sembrano mai avere una giusta misura. Perché gli uomini sono maschili quando indossano scarpe perfettamente comode, mentre le donne devono soffrire per essere femminili? Come siamo arrivati ad accettare questa associazione sistematica del nostro sesso con il dolore e la sofferenza?

Contro le tecnologie omocratiche del sé, noi anarcafemministe chiediamo la liberazione globale delle donne, letteralmente, dalla testa ai piedi. Ci impegniamo a combattere: fascismo di stato e fascite plantare, stupro e artrosi, fallocrazia e metatarsalgia, molestie sessuali e borsiti, lavaggio del cervello e sindrome di Haglund, lavori domestici non pagati e dita dei piedi a martello, negazione del diritto all’aborto e speroni ossei, divario retributivo di genere e distorsioni della caviglia, femminicidi e stenosi da formalina, mutilazioni di genere e fratture da stress, lombalgie, crampi e spasmi… In sintesi, vogliamo che le donne possano camminare libere e sentirsi sexy mentre lo fanno.

6. Fallo e basta

Inizia ora la tua rivoluzione. Nessun posto è mai troppo piccolo per iniziare, perché il peggior tiranno non è fuori di te ma dentro di te. Puntare a prendere prima il potere statale, o chiederne il riconoscimento, significa riprodurre quella stessa struttura di potere che deve prima di tutto essere messa in discussione. Al contrario, “fallo e basta” significa che almeno un po’ di libertà è alla portata di tutti. Nessuna ribellione è mai troppo piccola o troppo grande e, soprattutto, le ribellioni non si escludono a vicenda: resistere alle norme di genere, prendersene gioco, rifiutarsi di conformarsi, disobbedire, boicottare, combattere il capitalismo, praticare la democrazia radicale, essere un “pirata gender”[ 9] in modo diverso. Anche in modi tutti da inventare.

Se non puoi costruire una società anarcafemminista nel tuo paese, costruiscila nel tuo quartiere. Se non puoi costruirla nel tuo quartiere, costruiscila nella tua famiglia. Queste azioni non sono semplicemente “strategie individualistiche” come alcuni le hanno etichettate. Sono prefigurazioni di un mondo diverso. Sono atti politici di per sé, sono l’altra faccia dei progetti collettivi, come i crescenti esempi di mobilitazione di massa, organizzazione di base, scioperi generali, occupazioni, vita comunitaria queer che stanno proliferando in tutto il mondo e mirano ad abolire il capitalismo e lo Stato autoritario. Perché gli atti locali possono essere necessari ma chiaramente non sufficienti. Globale è l’oppressione, quindi globale deve essere la lotta.

7. Il fine è il mezzo

Non può e non deve esserci alcun programma definitivo a tutti gli effetti per un manifesto anarcafemminista, perché la libertà è il fine ed è una vera e propria contraddizione pensare di raggiungerla attraverso qualcosa che non sia la libertà stessa. Ciò non significa che non possa esserci alcun programma specifico locale e limitato nel tempo. Possono e dovrebbero essercene molti. Allo stesso modo in cui i corpi sono plurali e plurale è la loro oppressione, il plurale deve anche essere la strategia per combattere tale oppressione. Se però la libertà è sia il mezzo sia il fine, allora si potrebbe anche immaginare un mondo libero dalla nozione stessa di genere e dalle strutture oppressive che ha generato.

Poiché i corpi gender sono ancora oggetto mondiale di sfruttamento e dominio, abbiamo bisogno di un manifesto anarcafemminista qui e ora. Tempi urgenti richiedono mezzi urgenti e i manifesti sono un appello all’urgenza. Quest’ultima va però concepita come una scala che potremmo benissimo abbandonare una volta raggiunta la vetta. In effetti, è implicito nel processo di un progetto anarcafemminista come questo la volontà di creare un mondo che superi l’opposizione binaria tra uomini e donne e quindi anche, in un certo senso, che superi il femminismo stesso.

Pertanto, a differenza di altri manifesti, un manifesto anarcafemminista non può che essere e rimanere aperto e in aggiornamento, come l’ontologia transindividuale che lo sostiene. Questo testo attuale è già il risultato di un processo transindividuale di raccolta, pensiero e scrittura. Ci auguriamo che tutti voi che riuscite a ritrovare al vostro interno anche il più piccolo impulso anarcafemminista, anche il più piccolo batterio pronto a urlare con noi, vi unirete allo sforzo e continuerete a combattere con noi. Il processo è inarrestabile e questa volta andremo fino in fondo, finché le ultime macerie dell’ordine omocratico crolleranno su se stesse e tutte e tutte le donne saranno libere! Non una di meno! Ni una menos!

The Ongoing Collective

NOTE

[1] Il riferimento implicito è a Simone De Beauvoir, The Second Sex, New York, Vintage Books, 2011. Diversamente da lei, utilizziamo il termine “second sex” per includere tutti coloro che non sono percepiti come uomini ovvero tutti coloro che sono esclusi dal “first sex”.

[2] I Dati si riferiscono al report sul Global Gender Gap pubblicati il 16 dicembre 2019 dal World Economic Forum. (https://www.weforum.org/reports/global-gender-gap-report-2020; http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2020.pdf).

[3] He Zhen, “Women liberation”, in Anarchism. A documentary history of libertarian ideas, Vol 1, edited by Robert Graham, Black Rose Book, 2005, pp.341.

[4] Peggy Kornegger, “Anarchism: The Feminist Connection,” in Quiet Rumors, (Oakland, CA: AK Press, 2012), 25.

[5] Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale. Women in the International Division of Labour, 1986, London, Zed Books

[6] Maria Lugones, “The Coloniality of Gender,” in The Palgrave Handbook of Gender and Development, London Palgrave Macmillan UK, 2016.

[7] Myra Hird, M. 2004, “Naturally queer”, in Feminist Theory, Vol 5 issue, 1, pp. 85-88

[8] John Carl Flügel, “The great masculine renunciation” from The Psychology of Cloths (1930); ristampato in Purdy, ed. The Rise of Fashion. A Reader (Minneapolis: Minnesota University Press, 2004), pp. 102-108

[9] Paul Preciado, Testo Junkie, New York City, The feminist Press, 2013, p. 55.

Traduzione di Flavio Figliuolo – testo originale : https://publicseminar.org/2020/05/anarchafeminist-manifesto-1-0/

Articoli correlati