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Afghanistan. Il grande gioco

Afghanistan. Il grande gioco

Gli avvenimenti recenti in Afghanistan hanno colto di sorpresa un’opinione pubblica fortemente distratta ed inevitabilmente scarsamente interessata ad un conflitto che dura in termini diversi da più di quaranta anni. Gli avvenimenti degli ultimi due anni; la pandemia, il conflitto sempre più pronunciato tra Stati Uniti e Cina, i fatti di Washington che hanno sinistramente salutato il cambio di governo più tumultuoso della storia politica americana dalla nascita della Federazione, sono tutti fattori che hanno abbassato ancora di più la già scarsa attenzione per una guerra lontana, combattuta alle periferie dell’impero.Non era un mistero per nessuno il fatto che gli Stati Uniti ritenessero da tempo inutile e controproducente la loro presenza nel paese asiatico; presenza oltretutto costosa e priva di risultati positivi da spendere sul terreno della propaganda. Da un punto di vista bellico gli Stati Uniti avevano concepito la loro occupazione, condivisa nella presenza come nei costi dai paesi subalterni dell’Occidente, come un momento di una strategia di lungo periodo finalizzata a ottenere due obiettivi: annullare la forza degli ex alleati islamisti, utilissimi nel combattere i sovietici e collaborare a determinare il collasso dell’URSS ma decisamente ingombranti come forza autonoma esprimente la volontà di determinare gli assetti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale secondo i canoni di un ritorno al futuro centrato sull’identità insieme religiosa e nazionale espressa dal neo islamismo contemporaneo; insieme a questo obiettivo gli americani ne coltivavano un altro evidentemente andato definitivamente in frantumi con la ritirata ben poco gloriosa cui stiamo assistendo in queste settimane: costruire una galassia di stati satellite posti nelle zone determinanti del continente e finalizzati a una rediviva strategia del rollback (contenimento) nei confronti sia del nemico principale, la Cina, sia di quello secondario, la Russia.Un’ipotesi di questo genere si fondava sulla costruzione di alleanze a geometria variabile con i paesi dell’area (peraltro fondamentalmente nemici gli uni degli altri) garantite da una presenza militare USA forte e determinata capace di contare su basi sicure e regimi acquiescenti.
Non è andata così: né gli USA né i paesi alleati hanno mai veramente controllato il paese. Questo è avvenuto per molti fattori.
In primo luogo l’Afganistan è un paese in cui potere locale, su base etnica, tribale o religiosa prevale dal tempo dell’invasione sovietica sulla dimensione del potere centrale di tipo statale. L’invasione dell’URSS nel 1979, ben lungi dal rafforzare il potere governativo, lo ha definitivamente delegittimato. L’opposizione delle campagne, guidata dai proprietari terrieri sulla base del richiamo alle autonomie locali, alle fedeltà tribali e al credo religioso, ha sostituito in modo radicale il riferimento a un governo centrale sentito come servo di stranieri estranei alla storia del paese e portatori di ideologie che nulla avevano a che fare con la storia afgana.
L’invasione americana da questo punto di vista non è stata diversa e il governo costituito sotto l’occhio vigile di Washington non ha avuto maggior successo di quello guidato da Mosca.
In un caso e nell’altro l’invasione del paese ha favorito i ceti urbani, minoritari nel paese, permettendo l’accesso a risorse finanziarie, legate all’istruzione e alla possibilità di adottare stili di vita meno legati alla tradizione e maggiormente liberi. Questo non ha fatto altro che acuire il contrasto tra la città e la campagna, con la differenza che la prima non può essere considerata l’elemento vincente in un contesto in cui le città e la loro economia hanno vissuto fondamentalmente dell’indotto creato dalle truppe di occupazione e dalle mille sfaccettature dell’aiuto internazionale. Città quindi dipendenti dall’esterno e incapaci di attrarre positivamente le campagne maggioritarie.
Queste ultime hanno vissuto e vivono dagli inizi della guerra soprattutto sui traffici illegali, in particolare su quello degli oppiacei, coltivati estensivamente ma non trasformati nel paese. Il controllo delle milizie etniche e religiose sull’esportazione di questo tipo di risorse non ha solo determinato la loro relativa ricchezza ma anche la possibilità di redistribuirne una parte creando consenso in una popolazione impoverita oltre ogni modo dalla guerra stessa.
In un quadro di questo genere è evidente la possibilità per i Talebani di mostrarsi come una forza di unificazione nazionale, non dipendente dall’estero e capace di migliorare le condizioni di vita dei contadini nel paese.

Chi oggi mostra sui giornali le foto di una Kabul dove le ragazze studiavano e giravano libere da costrizioni patriarcali nel lontano 1972, coglie solo un aspetto del paese e rischia di spiegare in modo incredibilmente povero la vittoria dei Talebani. In realtà chi fa questa operazione si comporta come Benedetto Croce quando descriveva la vittoria del fascismo in Italia come un’incredibile evento esterno alla società italiana.
Chiunque abbia un minimo di senso storico e di capacità di analisi è pienamente a conoscenza del fatto che i regimi ed i fenomeni politici altro non sono che la declinazione che un determinato assetto di una società prende in quel momento.
L’Afganistan occidentalizzante e relativamente libero è esistito ma è stato sempre un fenomeno limitato alle città e alle classi sociali medio alte. I tentativi di modernizzazione del paese, giustamente fondati sull’istruzione e tentati sia dalla monarchia negli anni Trenta, sia dal Presidente Daud negli anni settanta, oltre che dagli stessi sovietici e dagli americani, avrebbero dovuto avere ben altro contesto per potersi sviluppare e avrebbero comunque avuto bisogno di tempo.
Un quadro di guerra continua, la corruzione evidente dei governi succedutisi a Kabul e le grandi possibilità di opposizione alla modernizzazione avute dai poteri tribali locali hanno fatto il resto. L’Afghanistan oggi si conferma un paese dove le classi dominanti rimangono legate al potere esercitato in primo luogo in forma clanica sul territorio ed emanato in nome di una versione retriva oltre ogni dire della religione coranica.
In questo la loro forza e il loro limite.
E’ infatti agevole prevedere che la presa reale del potere da parte di quella confederazione di tribù che costituisce il fenomeno Taleban, porterà in breve tempo all’avvio di feroci divisioni interne causate dal maggiore o minore potere dei vari gruppi all’interno del nuovo governo. Fino al momento in cui i clan tribali sono stati uniti dalla guerra all’invasore, queste sono passate in secondo piano, nel momento in cui gli invasori fuggono, la difficile arte della spartizione rischia di precipitare nuovamente il paese in una guerra civile.

Ad evitare questa conseguenza si stanno muovendo oggi in molti, sia tra gli sponsor più o meno occulti dei Taleban, sia tra chi teme il potenziale devastante di un altro stato fallito. La possibilità che l’Afghanistan diventi il nucleo pulsante della destabilizzazione nell’area è l’incubo in forme diverse della Cina, della Russia, dell’India e dello stesso Pakistan, oltre che dell’Iran.
Tutti questi paesi hanno sempre giocato o cercato di giocare un ruolo nelle vicende del paese auspicando soluzioni confacenti ai propri interessi.
Per il Pakistan, l’Afghanistan è la propria profondità strategica, il territorio che deve essere controllato da amici per evitare di essere schiacciati tra il nemico eterno indiano e un governo nemico a Kabul; per l’India vale il ragionamento opposto: è necessario negare a Islamabad la profondità strategica allo scopo di schiacciare un Pakistan nemico e ritenuto (più o meno a ragione) come il sobillatore dei musulmani indiani e il responsabile della mancata unità della potenza asiatica; per i russi, già scottati a Kabul, è necessario contenere il potenziale espansivo degli islamisti afgani nei paesi dell’Asia Centrale che fanno parte di quello che a Mosca viene considerato l’Estero vicino: a questo scopo Mosca ha sempre sostenuto Tagiki, Uzbeki, Pamiri e gli altri componenti dell’Alleanza del Nord contrapposta ai Taleban etnicamente pashtun e, oggi, sembra provare una mediazione tra i suoi protetti e i Taleban insediati al governo; la Cina ha analoghe preoccupazioni per quanto riguarda l’opposizione islamista tra gli Uiguri e vorrebbe rendere più solide le vie che la portano all’Oceano indiano tramite il Pakistan: per questo motivo si mostra disposta a investire anche nella ricerca mineraria nel paese (rame e terre rare legate ai processi informatici) in modo da liberare i nuovi padroni di Kabul dalla dipendenza dal mercato degli stupefacenti e dagli aiuti pelosi ed interessati dei paesi arabi come Arabia Saudita ed Emirati; l’Iran infine è il secondo vicino dell’Afganistan per lunghezza del confine e il protettore della minoranza sciita (gli Hazara) del paese, perseguitata nel primo governo Taleban e presumibilmente guardata anche adesso con scarsa tenerezza dai Taleban 2.0. Oltre a questo Teheran ospita diversi milioni di Baluci all’interno delle sue frontiere; questi ultimi sono principalmente insediati in Pakistan ma vivono anche in Afghanistan; in tutti e tre i paesi hanno dimostrato una forte tendenza all’alleanza con i pashtun e i Talebani e rischiano di essere una mina vagante per la Repubblica islamica.

A comporre ulteriormente il complicato gioco delle alleanze internazionali nel paese troviamo poi le due componenti del fronte sunnita mediorientale, ormai contrapposto in tutti i fronti aperti in quello che un tempo fu l’impero islamico: dalla Libia alla Siria, passando per l’Iraq, lo Yemen, il Marocco e la Tunisia. Alla forza reazionaria e antimodernista rappresentata da Arabia Saudita ed Emirati, si contrappongono da più di un decennio la corazzata tascabile Qatar e l’alleato militare più forte dell’area: la Turchia. La Fratellanza musulmana da quasi un secolo si presenta come un fattore di modernizzazione conservatrice ben rappresentato dal potere mediatico e politico del Qatar e dall’alleanza tra islamici e militari laici in Turchia. In Afganistan questa alleanza contava poco fino a pochi anni fa fino a quando la capacità di mediazione (e ovviamente i finanziamenti generosi permessi dalla produzione di gas) e di iniziativa politica ha rilanciato il Qatar come protagonista della situazione, ponendosi come piccola potenza in grado di gestire la fuga del personale politico afgano abbandonato dagli USA e i contatti dei Taleban con la comunità internazionale. Non è un caso che il principale alleato del Qatar, la Turchia, oggi si presenti come la potenza in grado di gestire l’areoporto internazionale di Kabul in modo da tranquillizzare i Taleban e, insieme, dare un volto rispettabile al nuovo governo nelle sue relazioni estere.
A restare apparentemente fuori Arabia Saudita e Emirati, vecchi sponsor dei Taleban nella loro prima avventura di governo. In realtà Ryhad e Dubai negli anni sono diventati gli sponsor di ogni gruppo di potere che contrastasse le mire egemoniche nell’area di Qatar e Turchia, dal generale Haftar in Libia all’esercito egiziano in rivolata contro il Presidente Morsi; oggi non è chiaro quale ruolo intendano giocare, ma la rivitalizzazione di Daesh del Korasan, autore dell’attentato all’aeroporto di Kabul sembra deporre nel senso di un avvicinamento tra le monarchie arabe ed il gruppo salafita che ha già portato terrore e morte in Siria ed Iraq.

In mezzo a queste grandi manovre sul terreno della geopolitica resta una popolazione urbana dell’Afganistan che non sembra avere accettato più di tanto il fatto compiuto. Manifestazioni e momenti di resistenza avvengono ancora nel paese; nulla ovviamente ci possiamo aspettare dalle articolazioni dello stato afgano che si è dissolto come neve al sole davanti all’offensiva talebana, o meglio ha contrattato con questi ultimi l’assorbimento nei nuovi assetti di potere (le città sono cadute senza che l’esercito sparasse un colpo); molto invece possiamo aspettarci da una società che in questi anni è cresciuta nella consapevolezza della sua forza e delle sue possibilità grazie al fatto che la guerra civile è penetrata in città solo sotto forma di attentati e che quindi le persone che vi abitano non sono nella condizione di accettare qualsiasi ordine, pur di sfuggire al caos e alla barbarie di una guerra urbana. Nella resistenza che la società urbana e in particolare le donne delle città afgane potranno e sapranno mettere in campo contro la violenza Taleban risiede quella possibilità di non dare nulla per scontato che, come libertari, non possiamo che appoggiare con tutti i mezzi che sapremo mettere in campo.

Stefano Capello

fonte: www.anarresinfo.org

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