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Riflessioni su San Ferdinando

Riflessioni su San Ferdinando

Argomentare sulla delicata questione della baraccopoli di San Ferdinando non è semplice, né tantomeno può ridursi ad un’affettata narrazione del disagio.

Tralasciamo per un’istante l’azione di sgombero orchestrata, decisa e voluta dal ministro dell’interno, per aggiungere una coccarda al suo tabellone delle “sfide”.

La situazione, in quel di San Ferdinando, è da definirsi a tutti gli effetti cronica, con ricorsi emergenziali ciclici, nel senso che il numero di persone che vivono tra la baraccopoli e la tendopoli segue l’andamento stagionale del lavoro agricolo bracciantile. Si va da un minimo di due-trecento stanziali nella “bassa stagione agricola” ad un massimo di duemilacinquecento persone durante il periodo della raccolta di agrumi, dall’autunno inoltrato alla primavera.

Unico dato stabile è il diniego generalizzato per queste persone, braccianti stagionali o meno, di poter prendere in affitto un alloggio. Questo dato fornisce la cifra della situazione reale in cui versa l’area della piana di Gioia Tauro. Dal 2010, anno della tristemente famosa “rivolta di Rosarno” praticamente quasi nulla è cambiato nel contesto locale, a livello nazionale si sono invece inasprite le norme che regolano l’immigrazione, senza per questo porre in discussione l’evidente necessità dell’impiego di manodopera bracciantile più o meno regolare.

Questi due elementi, il diniego della possibilità di prendere in locazione un alloggio e la necessità per l’economia agricola locale di manodopera a basso costo, sono i due fattori che, messi a confronto con un contesto socio-economico particolarmente fragile, possono fornire le basi per un’analisi organica di un fenomeno spesso offuscato dalla polemica sterile e dal chiacchiericcio delle istituzioni.

Il contesto è quello di un territorio che non è solamente impregnato dalla presenza del crimine organizzato, ma è nel contempo segnato da un sistema di imprenditoria rurale, che a stento riesce a fare i conti con le pressioni della concorrenza al ribasso introdotte dal processo di integrazione globale.

Per alcuni lustri, fino al 2007 l’agricoltura è stata sostenuta dalle integrazioni comunitarie sul raccolto, il che ha di fatto consentito ai grossi acquirenti (per la maggior parte interessati al succo d’arancia concentrato) di mantenere bassa l’offerta di prezzo, il tempo ha fatto il resto e nel momento in cui l’UE ha introdotto la riforma dell’Ocm ortofrutta, il danno si avviava ad essere irreparabile. Il “doping” delle integrazioni pesa non solo a livello economico, ma crea una doppia dipendenza per i produttori, tanto dall’unico acquirente, tanto dall’istituzione regionale che gestisce le integrazioni UE. Un doppio cappio nel quale molti agricoltori hanno allegramente infilato il capo nella convinzione di essere al sicuro, un po’ come il prezzo imposto sul latte sardo.

I fattori che lavorano contro la resa economica dell’agricoltura della Piana, sono riconducibili all’estremo frazionamento delle aziende, le quali agiscono isolate senza alcun “potere contrattuale” verso i grossi acquirenti, i quali si comportano da perfetti monopolisti di domanda.

Quindi scelte infelici, sia da parte degli stessi agricoltori sia da parte delle amministrazioni regionali, le quali non hanno saputo/voluto intervenire su produzioni agricole bersagliate dalla concorrenza impari della GDO e importatori con pochi scrupoli, hanno decretato il via libera allo sfruttamento dell’unica forza lavoro disponibile ad essere sottopagata; i migranti.

Si intravede quindi la necessità che i migranti lavorino negli agrumeti (ma non solo) per bilanciare e tenere in piedi un’economia appesa ad un filo. Il rovescio della medaglia è che sono ritenuti spesso un “male necessario”, utili si “ma sono pur sempre neri” dice la vox populi.

Fuor dall’ipocrisia il succo amaro del discorso è proprio questo. Questa la grossa contraddizione sulla quale inciampano sistematicamente i chiacchiericci delle istituzioni, dalla Prefettura ai comuni maggiormente interessati (Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando), passando per l’associazionismo, i gruppi di pensiero attivo, sigle sindacali, gruppi vari ed assortiti di solidarietà a tempo determinato ecc. ecc.

Nella contraddizione della Piana ci hanno sguazzato in molti, troppi; ognuno proponendo una narrazione parziale e strappalacrime, e ognuno a tentare di essere il solo detentore della verità sulla tragedia sociale in atto.

In realtà quella contraddizione ha continuato a produrre profitto sia economico che politico, e per qualcuno anche di carriera nelle istituzioni. Ma intanto i lavoratori migranti venivano sballottati da ricoveri di fortuna ad una tendopoli, trasformatasi presto in baraccopoli e infine in un’altra tendopoli, con progetti finanziati da vari apparati e istituzioni, dalla protezione civile passando per la regione e ministeri vari ed eventuali. La nuova tendopoli funziona con affidamento temporaneo e fintanto che ci sono fondi per mantenerla, quando finiranno sarà, con tutta probbilità la nuova baraccopoli.

Morale della favola non una decisione che andasse a sanare le contraddizioni del territorio, solo appelli stagionali per le immancabili emergenze da sovraffollamento, contrappuntate da incendi, nei quali spesso qualche lavoratore perdeva la vita e dall’ omicidio di un ragazzo Maliano, colpevole di aver preso delle lamiere da una fornace di mattoni, sotto sequestro per interramenti di rifiuti speciali provenienti da una centrale termoelettrica del barese.

Descrivere la situazione della baraccopoli di San Ferdinando, vuol quindi dire descrivere le relazioni sociali, le problematiche economiche e culturali di un territorio assai eterogeneo. Un territorio che non riesce a trovare altre strade per sopravvivere che non siano di un sistematico sfruttamento degli ultimi, migranti e non.

Negli anni molte realtà autorganizzate assieme soggettività locali e illuminate, hanno tentato di mettere il dito nella piaga, opponendosi ad esempio alla costruzione della seconda tendopoli e rivendicando il diritto dei braccianti agricoli a poter affittare un alloggio.

Attraverso l’analisi dei vuoti abitativi condotta in collaborazione con la SdT (Società dei territorialisti) si sono rintracciate decine di edifici vuoti, molti dei quali alloggi pubblici.

Tentando di ribaltare il paradigma, se la baraccopoli di S. Ferdinando rappresenta tutta la fragilità di un territorio allora è attraverso quella fragilità che va decostruito il sistema socio-economico di un territorio complesso come la Piana. E’ quindi risolvendo questa contraddizione che si comincia a demolire la narrazione falsata da pietismi e supposta impotenza.

Il problema dell’alloggio non riguarda i soli lavoratori migranti, è un problema che in questa nuova fase di crisi permanente sta lasciando in strada decine di nuclei familiari. Per risolvere questo problema bisognerebbe mettere tutti sullo stesso piano, ma qui intervengono quei meschini pregiudizi che hanno portato alla rivolta di Rosarno, non tanto pregiudizi nati dalle contrade, quanto indotti da quel sottobosco sul quale fiorisce la cultura della criminalità organizzata. Non si spiegherebbe come mai in un periodo di indigenza generalizzata, molte persone non concedono in locazione alloggi che preferiscono tenere chiusi, eppure molti braccianti hanno un regolare contratto stagionale, e molti sono addirittura stanziali, volti ormai noti in paese, con la possibilità economica di fittare un paio di stanze, eppure sembra che la legge del mercato immobiliare abbia delle anomale eccezioni in quel della Piana.

Va da sé che se venissero aperte le case, si chiuderebbe la tendopoli, finirebbero le emergenze in pratica sarebbe come fare arrosto la gallina dalle uova d’oro.

A.L.

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