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Il mondo che abbiamo di fronte

Il mondo che abbiamo di fronte

Quando ho iniziato giovanissimo la mia militanza, nella prima metà degli anni settanta del secolo scorso, il movimento della sinistra nel suo complesso aveva imparato da tempo a regolarsi, nelle sue analisi e nelle sue dinamiche di lotta, in riferimento a quello “stato sociale” che, iniziato negli Stati Uniti nel 1933, si era diffuso un po’ ovunque dopo la Seconda Guerra Mondiale.[1] Per una generazione di militanti dall’età media decisamente bassa e, quindi, nati e cresciuti in un simile contesto, era difficile concepire uno scenario dei rapporti politici e sociali diverso. Ciononostante, il mondo stava cambiando decisamente rotta in direzione dell’attuale “neo”liberismo ed i meccanismi di welfare venivano intaccati contemporaneamente ai processi di mediazione politica relativamente inclusiva dei partiti/sindacati di massa nella gestione democratica dello “stato sociale”.

La difficoltà, da parte del movimento della sinistra in tutte le sue forme, riformiste o rivoluzionarie, di comprendere ciò che stava accadendo sfociava in una vera e propria cecità cognitiva, per dirla col linguaggio delle neuroscienze. Di fronte ad un mondo che andava platealmente in tutt’altra direzione, dalle forze di sinistra più moderate a quelle più rivoluzionarie veniva recitato il mantra che potremmo definire della “socialdemocratizzazione” dello Stato: c’era in altri termini l’idea diffusa che lo stato sociale avrebbe ampliato sempre più il suo raggio d’azione, cosa temuta in campo rivoluzionario per le sue implicazioni di definitivo “recupero” delle istanze ribelli delle classi meno abbienti, auspicata al contrario, per ovvie ragioni, dalle componenti riformiste.[2]

L’avanzata trionfale del “neo”liberismo si può spiegare anche con questa cecità cognitiva della sinistra, cecità che impedì a lungo di comprendere cosa stava succedendo e, soprattutto, di trovare le strategie più opportune per opporvisi. Una delle cose di cui la Federazione Anarchica Italiana e, in generale, l’anarchismo sociale può vantarsi è, probabilmente, il fatto di essere stato relativamente immune dalla cecità cognitiva di cui sopra e di aver individuato con maggiore acume il senso delle trasformazioni delle strutture di potere cui si assisteva.[3] In ogni caso, con purtroppo notevole ritardo, soprattutto a partire dal cosiddetto “movimento no global”[4] la cecità cognitiva di cui sopra è andata gradatamente sparendo ed i movimenti di opposizione allo stato presente delle cose stanno cercando le strade per opporvisi.

In effetti, l’analisi di Piketty[5] ed i rapporti annuali OXFAM[6] hanno solo definitivamente confermato con un apparato scientifico quello che oramai è evidente da tempo: di là delle novità tecnologiche, dal punto di vista dei rapporti sociali e della distribuzione di potere e ricchezza, la situazione attuale è straordinariamente simile a quella di fine XIX secolo/inizi XX secolo – una polarizzazione della ricchezza impressionante con una proletarizzazione, quanto meno in termini di accesso alla ricchezza sociale, delle situazioni sociali (un tempo) intermedie. Lo slogan di Occupy Wall Street “siamo il 99%” è sempre più vicino ad essere lo specchio del reale.

Anche la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia non è una novità assoluta. Se una novità può riscontrarsi è nella trasformazione definitiva del denaro da denaro-merce a denaro-azione fiduciaria, che ha permesso, da un lato, l’aumento esponenziale del volume degli scambi sui mercati azionari, dall’altro, l’altrettanto esponenziale aumento dell’indebitamento di singoli, collettività e nazioni, analizzato analiticamente da Graeber.[7]

Polarizzazione della ricchezza e crescente indebitamento non sono solo modi di essere della società gerarchica presente – sono, allo stesso tempo, strumenti strategici di dominio.[8] Se gli stati qualche decina di anni fa hanno deciso pressoché in contemporanea di abbandonare quelle politiche keynesiane che pure avevano con notevole successo eliminato le grandi crisi e permesso uno sviluppo regolare e consistente dell’economia, era perché questi risultati erano stati ottenuti grazie ad un processo, più o meno ampio, di redistribuzione della ricchezza. Processo che aveva avuto come effetto collaterale sgradito per il potere politico ed economico di una crescente insubordinazione delle classi lavoratrici, sempre meno timorose di restare senza lavoro, data la situazione di (quasi) piena occupazione e/o il gruzzoletto racimolato dalla rete di protezione familiare. Il cosiddetto neoliberismo ha avuto esattamente il significato di ribaltare la situazione, reimpoverendo la popolazione tramite sia l’aumento della disoccupazione, sia con la diminuzione dei salari reali, sia tramite una politica fiscale che ha gradatamente eroso i risparmi delle famiglie a tutto favore dell’assistenzialismo dei poveri verso i ricchi.

Per parlare del senso del crescente indebitamento pubblico e privato, ricorderemo prima un dato: nel 1974 l’ONU conteggiava circa un milione di schiavi in tutto il pianeta, quasi tutti compresi nell’ultimo stato africano che l’aveva abrogata per ultimo; oggi, secondo le stime più prudenti e considerando solo la schiavitù in senso stretto, sono circa cinquanta milioni.[9] Dal momento che la schiavitù contemporanea, diversamente dal passato dove questa istituzione era legale ed un essere umano poteva essere proprietà in senso stretto di un altro essere umano, assume la forma della “schiavitù per debito”, c’è da pensare che questa situazione sia solo la punta dell’iceberg dell’uso dello strumento debitorio come meccanismo di controllo sociale di individui, collettività e nazioni, stretti sempre più nella morsa di un debito spesso incolmabile.[10]

Questo è lo stato presente delle cose con il quale abbiamo tutti oggi a che fare. Non è certo un bel vedere questo e fa quasi rimpiangere gli scenari peggiori della sciagurata ipotesi della socialdemocratizzazione: il movimento operaio e socialista, però, è nato esattamente in un contesto, come dicevamo, dal punto di vista delle strategie di potere, molto simile ed è riuscito a compiere, per usare una metafora biblica, una notevole traversata nel deserto. Nel farlo ci ha lasciato anche un bel po’ di mappe – analisi e riflessioni che dovremmo andare a riprendere: sicuramente per riattualizzarle ma, sospetto, nemmeno più di tanto, perché il deserto, nonostante le apparenze, è tornato ad essere molto simile a quello che era. Certo, con in più, purtroppo, la prospettiva della scomparsa di ogni forma di vita sul pianeta da parte del proseguimento delle logiche del potere dell’uomo sull’uomo. Trovare un altro modo di vivere insieme tra essere umani e con il resto del vivente è diventato un bisogno impellente non solo degli anarchici ma della specie umana.

Enrico Voccia

NOTE

[1] Da certi punti di vista, persino le politiche sociali dei paesi a regime marxista sono influenzate fortemente dai meccanismi di welfare del cosiddetto “blocco occidentale” – il caso più noto è quello cubano.

[2] Nel caso italiano, la tesi che qui abbiamo genericamente chiamato della “socialdemocratizzazione” della società si sviluppò soprattutto partendo dalla corrente cosiddetta “operaista” del marxismo, nata alla fine degli anni cinquanta e sviluppatasi nel decennio successivo intorno alle riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”: Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti di questa corrente che andò poi scindendosi nelle varie anime della sinistra marxista, dal PCI alla cosiddetta Autonomia Operaia, condizionandone complessivamente le analisi e la visione del mondo.

[3] La tesi della “socialdemocratizzazione” è, infatti, ampiamente discussa in senso critico nelle riviste legate a quest’area, trovando spazio di approvazione invece nelle aree legate alle tesi “bonanniane”, che si dimostrarono maggiormente sensibili all’influsso dell’analisi dominante all’epoca. Una piccola autoincensazione: la constatazione della morte delle politiche di welfare e l’annuncio del ritorno massiccio a livello mondiale delle politiche liberistiche “old style” è dominante nel documento fondativo dell’Organizzazione AnarcoComunista Napoletana – FAI (1981, ma le tesi erano presenti da tempo nell’area che poi diede vita al gruppo).

[4] Ragionando nell’ottica precedente, anch’esso non a caso fortemente influenzato dall’anarchismo statunitense.

[5] PIKETTY, Thomas, Il Capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014.

[6] Vedi https://www.oxfamitalia.org/davos-2019/?gclid=EAIaIQobChMI4L34qdK-4QIVked3Ch3x1QLvEAAYASAAEgIO-vD_BwE ; per una sintesi, https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2019-01-21/disuguaglianze-26-posseggono-ricchezze-38-miliardi-persone-094242.shtml?uuid=AEldC7IH&refresh_ce=1 .

[7] GRAEBER, David, Debito. I Primi 5000 Anni, Milano, Il Saggiatore, 2012.

[8] Una visione particolare del fenomeno la fornisce ancora David Graeber nel recentissimo Bullshit Jobs (Milano, Garzanti, 2018)l.

[9] http://www.socialnews.it/blog/2017/10/05/nuovi-schiavi-europa/ .

[10] Vedi sempre GRAEBER, David, Debito. I Primi 5000 Anni, Milano, Il Saggiatore, 2012.

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