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Contro il patriarcato, contro lo Stato, contro la guerra

Contro il patriarcato, contro lo Stato, contro la guerra


Anche in Turchia migliaia di donne sono scese in piazza ad Istanbul per la giornata di lotta dell’otto marzo. Un partecipato corteo animato anche da contenuti radicali, rivoluzionari e pacifisti ha attraversato la centrale Istiklal Caddesi fino a Piazza Taksim, circondato da un enorme schieramento di polizia.
Solo pochi giorni prima, il 4 marzo, era stata violentemente attaccata dalla polizia con cariche, lacrimogeni e fermi, la manifestazione organizzata dalla “Piattaforma delle Donne per l’8 marzo” a Bakırköy. La zona di Bakırköy è decentrata e dotata di aree per manifestazioni ed eventi facilmente controllabili dalla polizia, qui le autorità locali e nazionali stanno cercando da anni di relegare ogni manifestazione. La manifestazione del 4 marzo era stata autorizzata dalle autorità e la polizia aveva completamente chiuso con recinzioni l’area della manifestazione effettuando perquisizioni e controlli a tutte le partecipanti all’ingresso della piazza del raduno. Alla manifestazione hanno preso parte anche l’HDP e alcune organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, il gruppo delle Donne Anarchiche (Anarşist Kadınlar) era presente con un proprio striscione e le proprie bandiere viola e nere. Circa 1500 donne hanno preso parte alla manifestazione che aveva lo scopo di preparare la grande manifestazione dell’otto marzo, chiamando a manifestare le donne licenziate per decreto statale e le donne a cui viene negato il diritto di sciopero. L’intervento repressivo e violento della polizia secondo molte fonti giornalistiche sarebbe dovuto al fatto che la manifestazione delle donne avesse assunto anche una connotazione pacifista, in opposizione alla guerra condotta dal governo turco in territorio siriano attaccando Afrin contro le YPG/YPJ, che il governo considera un gruppo terrorista. Anche una manifestazione di donne ad Ankara è stata attaccata dalla polizia sempre il 4 marzo, con 15 arresti.
Dal luglio del 2016 in Turchia vige uno stato d’emergenza che ha di fatto eliminato ogni margine di agibilità per l’opposizione sociale e rivoluzionaria. Erdoğan ha sfruttato il tentativo di colpo di stato per licenziare oltre 130000 dipendenti pubblici, procedere a migliaia di arresti, imporre leggi speciali per “difendere la democrazia”. Ogni manifestazione contro il governo, anche se pacifica, può essere tacciata di supporto al terrorismo e quindi sciolta con la violenza dalla polizia che è autorizzata anche a sparare e uccidere, il diritto di sciopero è soppresso, le autorità hanno il potere arbitrario di chiudere locali, proibire comportamenti pubblici, i limiti per la carcerazione preventiva e il fermo di polizia sono spesso indefiniti. La guerra ad Afrin non ha fatto che peggiorare la situazione. Parlare o scrivere pubblicamente della guerra in corso in termini pacifisti, o sollevare la questione delle uccisioni di civili costa il carcere. La guerra ha dunque imposto una ulteriore stretta alla libertà di espressione e di manifestazione in nome della sicurezza nazionale. Con la guerra si è anche rafforzato il governo, sia in termini di consensi, dal momento che si è rafforzato il consenso in ampi strati nazionalisti della popolazione, sia sul piano delle alleanze tra partiti considerando che il partito di governo AKP ha definitivamente stretto un accordo con il MHP il partito fascista legato ai Lupi Grigi, costituendo un nuovo blocco nazionalista-conservatore di impronta religiosa. Un’alleanza per le elezioni generali del 2019 che segna anche il modo in cui il potere si presenta pubblicamente, il Presidente della Repubblica di Turchia Erdoğan infatti, intervenendo in un comizio a Mersin, ha salutato la folla con il gesto dei Lupi Grigi e subito dopo con il gesto Rabia utilizzato dai sostenitori dei Fratelli Musulmani. Erdoğan ha anche prefigurato una mobilitazione di massa, facendo di nuovo appello al martirio, di fronte a sostenitori che esaltavano la guerra ad Afrin.
È in questo contesto che è stata violentemente repressa la manifestazione delle donne del 4 marzo a Istanbul. Non solo l’opposizione alla guerra ma ogni possibile dubbio pacifista viene combattuto dal governo turco, tanto che le autorità sono giunte a vietare pure spettacoli per bambini perché avrebbero contenuti contro la guerra e contro la violenza non in linea con l’attuale fase che sta attraversando la Turchia.
Negli ultimi anni il crescente autoritarismo imposto dallo stato di emergenza, la violenza della repressione e la guerra non hanno che portato alle estreme conseguenze la violenza del potere contro le donne e l’oppressione di genere imposta dal patriarcato.
Solo nel mese di febbraio sono state uccise 47 donne in Turchia, ciò significa che quasi due donne al giorno sono state uccise il mese scorso e che i femminicidi, 409 solo nel 2017, sono in costante aumento. Questa violenza viene legittimata e incentivata dallo stato. Negli ultimi anni il governo infatti è andato nella direzione della depenalizzazione dei crimini sessuali, per assolvere stupratori e molestatori, per condannare le donne alla violenza. Negli ultimi due anni le autorità turche hanno vietato le manifestazioni LGBT per “garantire la sicurezza pubblica”, ufficialmente per “proteggere” i manifestanti dagli attacchi dei nazionalisti.
Ma quanto avviene in Turchia non ha solo lo scopo di reprimere le manifestazioni femministe e gli eventi LGBT, non ha solo lo scopo di ignorare l’identità dei corpi. In questi anni il governo ha voluto imporre un ordine conservatore nella società, con una politica di aggressione nei confronti delle donne, che devono essere sottomesse all’ordine patriarcale e quindi all’ordine dello stato.
In questa prospettiva si comprende come la lotta contro il patriarcato, contro la guerra e contro lo stato siano inscindibili per il movimento anarchico, in Turchia come ovunque nel mondo.
Dario Antonelli


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