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L'Italia in guerra

L'Italia in guerra

Di pochi giorni fa è la notizia della messa in operatività di alcuni nuovi cacciabombardieri F-35 di stanza ad Amendola, entrati a far parte del dispositivo di Difesa Aerea Nazionale all’interno del 32° Stormo. Possiamo dire che la scommessa del governo italiano (chiunque sia stato a guidarlo in questi ultimi vent’anni), e dell’industria bellica di casa nostra (chiunque sia stato alla sua testa), subordinata a Lockheed Martin per tale progetto, è stata vinta. Sono lontane le polemiche sui costi eccessivi per l’acquisto di tali velivoli di quinta generazione e sui loro difetti tecnici: nella campagna elettorale recentemente conclusa il tema non è stato per nulla preso in considerazione, come ignorato quasi totalmente è stato qualsivoglia argomento relativo alla politica militare, di difesa ed estera. Le forze politiche che vanno per la maggiore, nonostante qualche lieve sfumatura, su questi temi non sono in grave conflitto reciproco. Forze armate e forze dell’ordine sono da ogni politico onorate e vezzeggiate, come esempio notevole di italica perizia ed abnegazione.

In un tempo passato, neppure troppo lontano, le forze armate italiane venivano viste come un’accozzaglia di individui male addestrati ed incapaci di qualsiasi impresa bellica; quasi si arrivava a considerare furbacchione chi sceglieva questa carriera, che non comportava eccessivi rischi, né richiedeva chissà quale impegno. Si sperava vivamente di non essere attaccati da nessuna potenza nemica: chi avrebbe potuto immaginare che le forze armate italiche fossero capaci davvero di combattere? Meno male che l’equilibrio della guerra fredda metteva al riparo il Sacro Suolo e meno male che a tutto il resto pensava l’alleato-padrone amerikano….

Ma poi abbiamo assistito ad un cambiamento radicale di prospettiva e di azione: possiamo datarlo attorno alla metà degli anni ottanta del secolo scorso.

Ora le forze armate italiane non sono più (ammesso che lo siano mai state davvero) una congrega di bellimbusti da operetta, innocui, incapaci, sprovveduti dal punto di vista tecnico: si tratta di professionisti piuttosto preparati, selezionati secondo criteri ben definiti, addestrati a compiere operazioni anche difficili su terreni ostili.

E allora vediamo, in estrema sintesi, dove sono collocati i nostri eroici militi che si trovano attualmente ad operare fuori dai patrii confini. Il ministero della difesa, nel suo ordinatissimo sito web, ci offre una serie di informazioni abbastanza dettagliate (chi vuole approfondire ulteriormente, al di là di queste note sintetiche, si tuffi tra queste pagine ben strutturate anche dal punto di vista grafico).

Sappiamo che ci sono circa 6200 soldati italiani impegnati in diverse operazioni militari all’estero. Tali operazioni possono essere raggruppate come segue: quelle sotto l’egida della NATO, quelle all’interno di operazioni dell’ONU, quelle targate UE, altre residue (varie ed eventuali, come si usa dire).

Nell’ambito di missioni NATO i soldati italiani si trovano nei seguenti ameni luoghi del nostro globo: Afghanistan, Kosovo, Bosnia Erzegovina, Mediterraneo, Somalia (le acque marine prospicienti e la base a Gibuti), Lettonia (con un massimo di 50 mezzi e di 160 uomini), Estonia (con uno schieramento massimo di 4 Eurofighter vicino a Tallin accompagnati da un massimo di 120 uomini), Turchia; interessante il destino solitario del singolo inviato in un’operazione a Skopje o dei tre raminghi nelle lande serbe. Il grosso dei numeri, tra le missioni sopra elencate, ce lo offre l’Afghanistan: poco meno di novecento unità umane militarizzate. Utile soffermarsi brevemente sulla missione turca: “… in Turchia una batteria antimissile SAMP-T dell’Esercito Italiano con un contingente nazionale che prevede, dal 1° gennaio al 30 settembre 2018, un impiego massimo di 130 militari del 4° Reggimento Artiglieria Controaerei Peschiera e con elementi di staff del Comando artiglieria contraerei di Sabaudia” (letteralmente, dal sito del ministero della difesa). Quindi sembra che alcuni soldati italiani debbano stare in Turchia, al confine con la Siria, per contribuire alla sicurezza ed alla difesa controaerea di quella splendida democrazia, guidata da Erdogan, attualmente impegnata a massacrare i curdi di Afrin. Certo i doveri atlantisti sono quelli che sono, pur in presenza di forti contraddizioni al’interno della stessa Alleanza, per esempio tra statunitensi schierati nel nord della Siria e turchi impegnati in una perenne caccia al curdo. Se poi aggiungiamo le forze russe a sostegno di Assad ed i giochini militari e diplomatici di Putin che tenta di sganciare la Turchia dalla NATO, anche e soprattutto avvalendosi delle migliaia di morti derivanti dallo scambio Afrin-Goutha, ecco che abbiamo la cornice barocca nella quale si inserisce il pregevole quadretto acquarellato che rappresenta i nostri artiglieri di stanza nelle montagne o nelle valli del nord mesopotamico.

Sotto la nobilissima insegna dell’ONU gli italiani sono presenti in quattro luoghi: Mali (poche unità), Libano (un migliaio di soldati e svariati mezzi compresi quelli aerei), Cipro (quattro carabinieri), il confine tra India e Pakistan (due unità, giusto per dire che si sta anche lì…).

Con la targa UE si va in posti vari: in alcuni casi ci si sovrappone ad altre operazioni NATO o ONU (vedi Afghanistan, Kosovo, Bosnia Erzegovina, Mali, Somalia sia in acqua che a terra); e ci sono anche le missioni, vecchie e nuove, di controllo della frontiera mediterranea, con l’impiego di mezzi navali ed aerei in quantità discreta, con un paio di denominazioni differenti.

Infine ci sono alcune missioni definite in sede di accordo bilaterale o multilaterale tra l’Italia e vari Stati “amici”: si tratta per lo più di operazioni di supporto, di addestramento e di collaborazione logistica o all’intelligence; e però non si può mai sapere quanto pesante sia il supporto in operazioni di combattimento vere e proprie. Tra queste ultime operazioni in corso, abbiamo una collaborazione con la guardia costiera egiziana, alcuni soldati in Libano e ad Hebron, i C-130J da trasporto di stanza degli E.A.U. supportati da un centinaio di militari; ma lo sforzo maggiore sta nell’operazione Prima Parthica, che vede impegnati circa 1500 militari italiani, dotati di svariati mezzi terrestri ed aerei, in Iraq e nella zona semi-indipendente del Kurdistan iracheno. E infine ci sono le operazioni recentemente intraprese in Libia ed in Niger: nel primo caso circa 400 militari con 130 mezzi navali e terrestri, nel secondo caso 470 militari (a schieramento completo) con 130 mezzi terrestri e 2 aerei.

In sintesi, possiamo dire che le forze armate italiane sono utilizzate in modo significativo e pesante in svariati luoghi al di fuori dei confini (e lasciamo perdere, per favore, la solita tiritera sull’art. 11 della Costituzione che non verrebbe rispettato…); tale utilizzo rientra in uno schema di alleanze consolidato, con la NATO a farla da padrona in relazione dinamica con l’UE. Anche le intese bilaterali e multilaterali giocate al di fuori dell’Alleanza sono pur sempre subordinate ad esigenze “superiori”, nell’ambito di una strategia di dominio di alcune potenze alle quali l’Italia è legata (USA e Francia in primis).

In relazione al gioco dinamico tra alleanze compatibili, è interessante far notare quanto deciso in sede UE molto recentemente, all’inizio di marzo: il Consiglio degli Affari Esteri dell’UE, presieduto da Federica Mogherini (Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza), e con la partecipazione dei ministri della difesa europei (generalessa Pinotti compresa), si è riunito per decidere l’approvazione e la strutturazione di 17 progetti rientranti nella Pesco, cioè nella Cooperazione strutturata permanente in campo militare. Si tratta dell’effettivo inizio dell’implementazione di una politica militare comune dei Paesi UE. Per ora sembra che tutto ciò avvenga in relazione stretta con la NATO. Vedremo in futuro se questo andamento sarà confermato e se si tratterà solo di una divisione di compiti funzionale all’egemonia di alcuni paesi maggiori tra loro alleati (USA, Francia, Germania, Regno Unito in particolare) oppure se si tratterà di una sostituzione di appoggi e finanziamenti, in seguito ad un parziale ritiro isolazionista degli USA dal continente europeo e dagli scenari mediorientali, in cui non si giocano più interessi vitali statunitensi. Ad ogni modo, qualunque sia la svolta (o la conferma di tendenza) alla quale assisteremo, non è detto che l’europeizzazione parziale delle forze armate dell’Italia e degli altri Paesi UE possa portare ad una riduzione delle spese militari in seguito ad una maggiore efficienza nell’uso di risorse comuni. Staremo a vedere.

Nel frattempo Stati ed imprese fanno i loro giochi anche nel brutale campo degli affari, apparentemente più pacifico (il commercio al posto dei combattimenti, eh, l’utopia borghese del gran secolo liberale…). E se si tratta di commercio di armi, le cose si pongono in modo tale che i confini tra il pubblico degli Stati ed il privato delle imprese produttrici di armi (e delle banche che ne sostengono gli affari con anticipazioni e crediti di varia natura) si fa davvero esile e molto permeabile.

Dell’Italia sappiamo che si trova all’ottavo posto (ultimi dati disponibili del SIPRI dall’anno 2012 all’anno 2016) tra gli esportatori di armamenti: il 2,7 per cento del totale mondiale; ai primi sette posti della bella classifica, in ordine, ci sono: USA (con il 33 per cento), Russia (con il 23 per cento), Cina, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna. Un grande incremento delle esportazioni di armi italiane si è avuto dal 2015 al 2016 a causa del contratto di vendita di 28 Eurofighter che Leonardo ha stipulato con il Kuwait. Grandi affari anche per la multinazionale tedesca Rheinmetall che, nella sua fabbrica collocata in Sardegna (quindi export italiano, dal punto di vista formale contabile), produce bombe che i sauditi acquistano per bombardare i settori ribelli dello Yemen. A tale proposito sembra che l’esposto fatto da alcuni esponenti di Rete Disarmo alla procura di Roma sia ivi giacente in attesa di considerazione (e probabilmente sarà rigettato, se già non lo è stato…): evidentemente non è cosa illegale, se ci sono affari in corso, che le armi prodotte in Italia vadano a finire a soggetti che le usano in guerre discutibili (e l’export italiano, si sa, è diretto specialmente in Medio Oriente e in Nord Africa). La legislazione italiana al riguardo è ambigua e il legame di alleanza prevale sulla regoletta moscia che prescriverebbe di non vendere armi a chi è impegnato in una guerra (e già: e allora le armi a chi dovremmo venderle? Ai collezionisti? Un cacciabombardiere come arredo da giardino? Una bomba da aereo come soprammobile per il comò?)

In conclusione: l’Italia è collocata in un sistema di alleanze che la impegnano in missioni militari fuori dai suoi confini; l’Italia non è in una mera posizione servile e subordinata, ma agisce anche a sostegno di propri interessi nazionali, cioè, per essere più chiari, di interessi dei ceti dirigenti politici, burocratici, industriali, commerciali e finanziari di casa nostra. Infatti, le diverse guerre in corso sono uno degli strumenti di spartizione del dominio e di incremento del valore aggiunto e dei profitti di alcuni soggetti noti. Il mondo procede come al solito, ma le nuove tecnologie offrono nuove possibilità; e là fuori c’è un terreno di caccia ricco e disponibile per tutti i predatori che sanno agire in modo accorto, svelto e senza troppi scrupoli morali. E l’Italietta sa dire la sua e sa fare la sua parte di sicuro.

Dom Argiropulo di Zab


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