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Note sulla rivolta cantonese

Note sulla rivolta cantonese

Il progetto di introdurre nella città di Hong Kong, sotto la sovranità cinese, così come la città di Macao, ma con un diverso sistema di governo e un’ampia autonomia amministrativa e legislativa, una legge che permettesse una maggiore facilità nell’estradare soggetti indagati dalla magistratura cinese verso la Repubblica Popolare stessa ha scatenato, oramai da quattro mesi, ampie proteste.

Un’ampia analisi, fornita da compagni cantonesi, l’abbiamo pubblicata sul quaderno di Umanità Nova uscito in digitale questa estate intitolato “Anarchici nella rivolta di Hong Kong”. In quel testo si fornisce un’analisi della composizione del movimento, delle discontinuità di questo da movimenti come quello degli Ombrelli del 2014 e i suoi cascami, innanzi tutto la maggiore radicalità nella pratiche di piazza, e di conseguenza la messa in crisi qui ed ora della pretesa del monopolio della violenza da parte dello stato, la pratica dell’illegalità di massa, la presenza di componenti, tra cui quella dei nostri compagni, che puntano sulle questioni di classe in una città che ha fatto del neoliberismo la sua identità e sull’alleanza con i lavoratori stranieri, migrati dalla Cina continentale ma anche da paesi del sud est asiatico come le Filippine.

Hong Kong è una città-stato retta da un’oligarchia cresciuta sotto la frusta del dominio coloniale britannico e poi legatasi al Partito-Stato cinese. Il suo benessere economico è nato sullo sfruttamento di milioni di lavoratori e lavoratrici, sia “nativi” che migrati clandestini, quindi ricattabili, dalla Cina continentale in barba alle leggi che regolano le migrazioni interne. Vi è anche una non indifferente presenza di immigrati da paesi del sud-est asiatico. L’esiguo spazio ha imposto un’urbanizzazione verticale e la speculazione ha imposto case-cubicolo – dette non a caso case-bara – in cui si ammassano milioni di individui. Gli affitti per questi spazi sono altissimi e la città stessa è una delle più costose al mondo. Di questi elementi, molto materiali, non si può non tenere conto quando si parla delle mobilitazioni che hanno investito questa città.

Le mobilitazioni di questi ultimi quattro mesi, che hanno visto più di un milione di persone scendere contemporaneamente in strada, hanno dimostrato l’alta capacità autorganizzativa della popolazione. L’utilizzo di mezzi classici di comunicazione durante le manifestazioni, impianti audio e megafoni, per coordinare le azioni è stato affiancato anche dall’uso di applicazioni per cellulari che permettono con un certo grado di sicurezza di scambiare dati, comunicazione gestuale per indicare i mezzi di cui avevano bisogno in quel momento certe aree della piazza – vi sono gesti che indicano che c’è bisogno di acqua e soluzione salina per i lacrimogeni, o caschi, maschere antigas e ombrelli per le protezioni o materiale per le barricate – lo scambio di progetti per la costruzione di barricate che fossero sia veloci da costruire che resistenti – generalmente transenne stradali fascettate tra di loro a guisa di triangolo equilatero – metodi per ritmare il flusso delle folla per evitare i pericolosi fenomeni di panico e possibili schiacciamenti. Si è assistito anche alla formazione di catene per passare il materiale verso le prime linee in modo efficace e veloce.

Da quanto si è potuto apprendere il coordinamento avviene tramite gruppi di affinità di quartiere e, contemporaneamente, su forum di discussione online. D’altra parte la piattaforma rivendicativa del movimento è abbastanza larga da permettere a chiunque sia insoddisfatto del regime di partecipare al movimento stesso e, per quanto di impostazione classicamente liberale e, appunto, rivendicative – diritti e suffragio universale, ritiro definitivo della legge sull’estradizione, regime change in senso democratico – permette anche l’inserimento di temi più radicali quali la critica del lavoro, la questione abitativa, il carovita, tutti temi sicuramente sentiti anche istintivamente da chi, pur privo di una coscienza di classe elaborata, vive tutti i giorni una vita schiacciata tra stipendi relativamente bassi, abitazioni minuscole, ampio divario di classe e inflazione.

Appare quindi come l’autorganizzazione sia una proprietà emergente di un sistema, sia nell’elaborare piattaforme rivendicative ampiamente inclusive sia nell’organizzare in modo veloce la logistica della guerriglia urbana. Si dimostra anche come la necessità della violenza – anche se difensiva – sia accettata, seppure nei limiti esposti dai compagni nell’intervista a CrimethInc, anche da quelle persone che fino a poco tempo prima la aborrivano totalmente – o meglio che la nascondevano delegandola completamente allo stato e non riconoscendo quella violenza mimetica implicita nelle società gerarchizzate.

Emerge quindi una vera e propria intelligenza collettiva in grado di mettere in crisi qui e ora i sistemi di governance postmoderni: la fine dei partiti di massa in grado – storicamente – di stimolare e controllare le mobilitazioni non ha significato la fine delle mobilitazioni stesse.

Appurata l’importanza dell’organizzazione logistica dello spazio urbano come spazio di circolazione e accumulazione del capitale abbiamo potuto assistere a veloci azioni che andavano a bloccare, fuori dall’orario di punta di rientro dei lavoratori, i principali punti della circolazione stradale e poi, reiteratamente, lo scalo aereo di Hong Kong, uno dei principali aeroporti internazionali asiatici.

Davanti alla superiore tecnologia dell’apparato repressivo nella gestione di grossi assembramenti che occupano in maniera statica un’area i manifestanti hanno parzialmente abbandonato un paradigma che potremmo definire “napoleonico” nello scontro di piazza: grossi schieramenti che si scontrano in linea, chiaramente insostenibile di fronte a un nemico armato e addestrato per questo – pensiamo solamente all’uso dei cannoni ad acqua e dei lacrimogeni – per adottare una linea di azione più tipica della guerriglia: gruppi piccoli che compiono azioni veloci, aspettano l’arrivo delle forze di polizia, ingaggiano veloci scontri e si disimpegnano utilizzando gli stessi mezzi pubblici – chiaramente con la complicità anche non programmata dei conducenti e dei tecnici gestori di linee di autobus e metropolitana – mostrando di sapere sfruttare a proprio vantaggio il terreno urbano mentre le colonne della polizia rimangono bloccate negli ingorghi creati dalle azioni stesse.

Davanti alla monoliticità degli apparati repressivi l’intelligenza sociale ha saputo agire come l’acqua: dove può travolge, dove non può travolgere tracima, dove non può né travolgere né tracimare aggira. Una delle migliori applicazioni dei principi basi del Wing Chun, forma esterna del Kung Fu e arte marziale per eccellenza dell’area Cantonese. Allo scontro in strada si sono uniti scioperi spontanei, addirittura uno sciopero generale, boicottaggi, azioni di disturbo di vario genere che hanno mostrato la capacità immaginativa dei manifestanti.

L’estensivo utilizzo della guerra chimica da parte delle forze di polizia, con migliaia di candelotti lacrimogeni sparati in aree densamente abitate e contro presidi pacifici, aliena ad esse anche gli abitanti che in quel momento non stanno partecipando alle proteste e che vedono il loro – già esiguo – spazio domestico invaso dalle dense nubi di gas CS. Allo stesso modo la decisione da parte del governo di ricorrere a bande di criminali delle triadi per attaccare le manifestazioni e i passanti ha fatto aumentare la determinazione di molti, tanto più che diversi tentativi di attacchi da parte delle triadi si sono risolti con la fughe dalle stesse sotto le bastonate e le pietre. Si è, comunque, ancora una volta dimostrata la continuità tra stati e crimine organizzato.

Gli apparati di videosorveglianza e riconoscimento facciale, sempre più diffusi e fiore all’occhiello della tecnocrazia partitica della Repubblica Popolare, vengono messi in crisi da economici puntatori laser che accecano i sensori e la scelta dei colori dei puntatori stessi, blu e verdi, ovvero quelli con una lunghezza d’onda che acceca più facilmente, fa pensare a un vero e proprio scambio di conoscenze tecniche tra manifestanti.

La capacità di mettere fuori uso temporaneamente, accecandoli, o permanentemente, abbattendone i pali di sostegno, i meccanismi di telesorveglianza, uno degli assi portanti del controllo dello spazio urbano e la contemporanea convergenza verso mezzi di comunicazioni digitali criptati per lo scambio di informazioni dimostrano che la società della sorveglianza, un Moloch che spesso si immagina come implacabile e monolitico, può essere messo in crisi dall’autorganizzazione, dallo scambio di saperi pratici e teorici, dall’emergere di un’intelligenza collettiva e sociale che spezza l’alienazione dell’individuo-monade, dell’homo economicus – e sempre più speso sacer, sacrificabile – dell’ordinamento neoliberale della società.

Negli interstizi e nelle contraddizioni del vigente sistema nasce e si moltiplica la sua negazione.

I tristi cantori dello status quo, i propagatori della mortifera ideologia dello stato-partito cinese, minacciano una nuova Tienanmen, nel trentesimo anniversario del massacro stesso di migliaia di operai e studenti pechinesi, ma temono le reazioni. Dell’opinione pubblica internazionale, sicuramente, ma anche della stessa popolazione cantonese e non previsti – e prevedibili – moti di solidarietà da parte della società nel continente stesso. Da qua, in un modo semplificato e, diciamolo, un po’ razzista, ci immaginiamo spesso le società asiatiche come società irregimentate e monolitiche, dimenticando i grandi fermenti che le hanno attraversate, a volte in modo carsico. In Cina il conflitto di classe negli anni ha visto una sempre maggiore capacità di risposta operaia alle feroci situazioni di sfruttamento; nascono timidamente gruppi di studenti che si interessano alla questione di classe, per quanto il ricordo di Tienanmen sia ufficialmente censurato a livelli orwelliani sicuramente sopravvive nella trasmissione della memoria orale di un evento che coinvolse centinaia di migliaia di persone, tra cui interi reparti di fabbriche della cintura industriale di Pechino. Sicuramente vi è stata anche la trasmissione del trauma della Rivoluzione Culturale, ovvero di quel tentativo, disgraziatamente riuscito, di irregimentare e controllare dall’alto in un modo quasi preordinato le istanze di cambiamento radicale che emersero globalmente negli anni sessanta, che assunse in certe fasi i caratteri di vera e propria guerra civile che la stessa frazione del Partito-Stato che l’aveva evocata ebbe difficoltà a controllare. Memoria difficile, probabilmente questa, che ritorna anche in molte opere narrative tradotte in occidente, su tutti i polizieschi di Qiu Xiaolong e nei romanzi di fantascienza di Cixin Liu, memoria che viene anche evocata in negativo rispetto al presunto benessere creato dalla svolta verso il “socialismo di mercato” di Deng Xiaoping.

L’ideologia della Cina contemporanea, un paese che è uno dei centri dell’economia-mondo globale, ha il suo fulcro nella conservazione della tranquillità e della pace, una tranquillità e una pace che sono la quiescenza dei conflitti sociali che devono essere normati, gestiti e risolti dal Partito-Stato. E sempre più spesso repressi, basti vedere la creazione di un sistema concentrazionario a base etnica in Xinjiang. La rivolta di Hong Kong, come già fece la rivolta di Tienammen trenta anni fa, squarcia il velo della tranquillità e mostra il fuoco che cova sotto la cenere.

Se gli obiettivi immediati del movimento sono comunque interni alle compatibilità sistemiche è indubbio che mostrano, e preparano, un mondo che vuole e può uscire da queste compatibilità.

lorcon

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