Nella retorica dei suoi sostenitori la “war on drugs”, la guerra alla droga, dovrebbe avere come obiettivo quello di difendere la salute ed il benessere dei suoi cittadini dalla minaccia delle sostanze illecite. Questo obiettivo è chiaramente fallito: decenni di proibizionismo non hanno impedito alle droghe illegali di continuare a diffondersi ed anche i relativi successi registrati nella lotta al narcotraffico non sono stati altro che l’apripista all’entrata sul mercato di nuove sostanze più pericolose (come le metamfetamine che possono essere facilmente prodotte in una cucina casalinga utilizzando materiali comprati in farmacia o al supermercato e che hanno iniziato a diffondersi negli USA dopo le grandi operazioni della DEA contro i trafficanti di ecstasy). La crociata, però, continua e si fa sempre più feroce. A partire dalla fine degli anni Novanta è sempre più utilizzata la pena di morte per i reati per droga (che pure sono crimini “senza vittime”, per utilizzare un termine giuridico) ed attualmente sono puniti o punibili con la pena di morte in più di 30 paesi e territori. Nel rapporto “Condanne a morte ed esecuzioni nel 2014”, Amnesty International ha registrato che la pena di morte per reati di droga è stata usata almeno in dieci paesi: Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Iran, Malesia, Singapore, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam e nella Striscia di Gaza. Solo in Iran, il Governo ha dichiarato che delle 966 persone giustiziate nel 2015 (un numero record da vent’anni a questa parte, che rende la repubblica islamica il paese con il più alto tasso di esecuzioni pro-capite al mondo), il 65 per cento - più di 600 - sono state condannate alla pena di morte per “droga”.
Un’altra pagina sanguinosissima della War On Drugs si sta scrivendo in queste settimane nelle Filippine, dopo l’insediamento del nuovo presidente, il populista Rodrigo Duterte entrato in carica il primo luglio. Eletto alla fine maggio dopo una campagna da nemico giurato del crimine e della corruzione, il 71enne avvocato ed ex sindaco di Davao (e più volte accusato di aver permesso durante i suoi 22 anni di mandato da primo cittadino agli squadroni della morte di operare indisturbati) aveva più volte promesso di debellare la criminalità nel Paese nei primi tre, massimo sei, mesi di mandato, dichiarando testualmente durante la campagna elettorale di voler “ammazzare, nei suoi primi mesi di mandato, migliaia di delinquenti e tossicodipendenti” per festeggiare la vittoria. La mattanza è iniziata a poche ore del suo discorso di insediamento il primo luglio in cui Duterte aveva affermato pubblicamente che non avvierà nessun procedimento con i poliziotti che sparano contro i sospetti per reati di droga, aveva esortato tutti i cittadini che possiedono armi a sparare per uccidere seguendo la politica soprannominata “della doppietta”, tesa a colpire sia chi vende la droga ma anche chi la consuma e magari commette piccoli crimini per ottenere il denaro ed aveva finito dicendo “insomma, se conosci un drogato, vai e uccidilo”. E così dall’inizio di luglio le città e i villaggi delle Filippine sono stati messi a ferro e a fuoco dalla
polizia e dagli squadroni della morte, formati da membri del partito di Duterte, da ex appartenenti della polizia segreta di Marcos e pare anche da militanti del Partito Comunista (alleato di governo di Duterte).
Secondo le testimonianze raccolte dalla stampa australiana e dal quotidiano in lingua inglese The Manila Times a fare le spese delle spedizioni punitive non sarebbero state solo persone note come spacciatori e consumatori, ma anche ragazzi “vestiti da rapper o con i capelli rasta” o sorpresi a fare graffiti sui muri. Sin dalla fine di luglio sono state organizzate a Manila e in altre città delle Filippine da alcuni sindacati indipendenti e da gruppi contro gli abusi della polizia manifestazioni e proteste contro l’eccidio in corso che è stato denunciato anche da Amnesty International e da altre organizzazioni umanitarie. Persino il direttore esecutivo dell’ufficio ONU contro la droga e il crimine (UNODC), il russo Yuri Fedotov (considerato un falco ultraproibizionista), ha condannato “l’apparente ritorno delle esecuzioni extragiudiziali che sono state una caratteristica di questo arcipelago asiatico”. Fedotov ha qualificato la campagna contro la droga di Duterte come una “violazione dei diritti e delle libertà’ fondamentali”. Questo ha provocato le ire di di Duterte che ha minacciato di lasciare le Nazioni Unite ed ha rivendicato la morte dei “sospettati” aggiungendo che i tossicomani “non erano più degli esseri umani su questo pianeta”, ma ha comunque permesso che al Senato vi fosse un’audizione sulla vicenda. Nel corso di questa “audizione” il 24 agosto il capo della polizia delle Filippine ha dichiarato che dal primo luglio, giorno dell’insediamento di Rodrigo Duterte, quasi 1800 persone sono state uccise nella sanguinosa lotta alla droga lanciata dal presidente ‘giustiziere’. Durante un’audizione al Senato filippino, Ronald Dela Rosa ha confermato che 712 persone sono state uccise durante “seimila operazioni della polizia”, mentre, sempre in queste sette settimane, sono state 1067 le esecuzioni extragiudiziarie da parte di gruppi di vigilantes. Solo pochi giorni dopo, il 30 agosto, lo stesso capo della polizia Ronald de la Rosa, davanti ad una commissione di indagini del Senato, ha “aggiornato” la cifra “a poco più di 1900 morti” dicendo che 756 morti sono dovuti ad operazioni della polizia, mentre ha attribuito il resto delle vittime a “gruppi di vigilantes” non meglio identificati. Il capo della polizia ha anche detto che piu’ di 670.000 persone sono state fermate dalla polizia e più’ di 11.000 sono state arrestate per i loro rapporti con le droghe. Le cifre ufficiali di questa ondata di omicidi sommari superano addirittura quelle finora fornite dai sindacati indipendenti filippine, da Amnesty e dalle altre organizzazioni umanitarie che stimavano le vittime in 800-900.
L’eccidio continua nel silenzio complice dei governi di tutto il mondo, anche se iniziano ad esserci le prime mobilitazioni internazionali con manifestazioni davanti alle ambasciate filippine in Nuova Zelanda e in Australia a cui hanno partecipato anche gruppi anarchici. Un copione già visto non troppi anni fa nella Thailandia della ” Guerra alla Droga”, lanciata dall’ex Primo ministro Taksin Shinawatra dove secondo Human Rights Watch, soltanto nel 2003 il governo thailandese avrebbe giustiziato 2.800 persone senza processo.
In Italia, in particolare, il silenzio sul massacro che sta succedendo nelle Filippine è davvero assordante. E a questo proposito, non possiamo che registrare con dispiacere che anche su “il manifesto” (un quotidiano spesso controcorrente rispetto ai media di regime e da sempre antiproibizionista) della sanguinosa War on Drugs filippina non se ne parla se non per liquidarla nella miglior tradizione marxista come un incidente di percorso non particolarmente significativo negli articoli che Geraldina Collotti (l’ex brigatista rossa specializzatasi nella difesa senza se e senza ma dei caudillos populisti) dedica con fervore alle trattative di pace che Duterte sta portando avanti in Norvegia con la guerriglia maoista, braccio armato del Partito comunista filippino che nella sua versione “legale” è già al governo. Articoli, peraltro, accompagnati da una “simpatica” foto di Duterte con camicia a quadri e pugnetto chiuso alzato verso il cielo: un vergognoso omaggio a quello che non si dovrebbe definire altro che un assassino.
robertino