Dove si aprirà il prossimo fronte di guerra? A Taiwan? Nei Balcani? In Asia oppure in Africa? Il processo di ridefinizione delle aree d’influenza non conosce arresti. Le grandi e le medie potenze sono all’opera per assicurarsi le fonti energetiche, fondamentali per garantirsi la forza necessaria ad imporre il proprio dominio. Mentre si teme l’esplodere di un devastante conflitto mondiale che riproponga gli immani massacri delle due guerre che hanno provocato nel Novecento decine di milioni di morti, la guerra continua il suo fluire nell’adozione di forme e di parole che vogliono essere tranquillizzanti. La guerra non si proclama più, non si presentano più dichiarazioni d’inizio del conflitto agli ambasciatori; le si cambia piuttosto il nome. L’invasione delle truppe russe dell’Ucraina diventa ‘operazione militare speciale’, gli attacchi statunitensi e israeliani all’Iran (e le risposte missilistiche) non sono ‘atti di guerra’, così come i bombardamenti periodici sul Libano e la Siria. Le guerre per procura sono diventate il mezzo per ridefinire le aree senza doversi esporre direttamente. Coloro che stanno dietro al conflitto civile in Sudan sono gli stessi che su altri fronti si propongono come mediatori di ‘atti di guerra’.
Intanto oggi nel mondo sono ben 123,4 milioni le persone costrette ad abbandonare la propria casa a causa di una guerra o di una crisi ambientale (dati UNHCR, l’Agenzia dell’ONU che si occupa di profughi e rifugiati): una persona ogni 67, con un aumento del 6% rispetto l’inizio del 2024. Ovviamente si tratta di civili, le vittime privilegiate delle guerre moderne. Come quella che è passata in secondo piano, dopo l’attacco all’Iran, e che si continua a chiamare guerra mentre è un vero e proprio massacro pianificato e finalizzato al trasferimento forzato di chi sopravviverà. Ovviamente parlo della striscia di Gaza dove insieme ai bombardamenti e alle cannonate si è inaugurato un sistema di distribuzione del cibo, gestito da agenzie controllate dalle truppe israeliane, strutturato in modo tale non solo da non soddisfare i bisogni dei gazawi, sia per le modalità che per le quantità (i pacchi alimentari – per chi riesce ad averli – contengono solo 1750 calorie a persona); ma soprattutto congegnato per essere usato come arma di pressione per spingere la popolazione al sud. Il risultato è che dal 27 maggio ad oggi più di 200 persone sono state uccise mentre cercavano di procurarsi del cibo. Poca roba, verrebbe da dire, nei confronti delle cifre che hanno segnato questo lembo di terra dall’ottobre del 2023 nell’apatia della gran parte della popolazione mondiale. D’altronde è la stessa mancanza d’empatia che si coglie nei confronti delle popolazioni vittime di altri conflitti e di altri massacri, alimentata e fomentata dagli opinionisti di regime, dai pennivendoli a libro paga, dalle classi dirigenti, da tutti coloro che sono preoccupati unicamente da una possibile saldatura delle classi oppresse a livello internazionale e sono fortemente impegnati nell’agitare il feticcio nazionalista e identitario, funzionale alle divisioni e agli antagonismi.
Armi sempre più sofisticate e potenti si accompagnano a metodologie antiche; gli omicidi mirati fanno il paio con i massacri indiscriminati; legislazioni repressive affiancano l’illegalismo delle squadre in passamontagna (come negli USA con la caccia agli immigrati): la difesa della Democrazia e dell’Occidente passa da qui. Come passa dalle decisioni del recente incontro della NATO, dove si è concordato su un aumento della spesa militare al 5%, a scapito di chi è facile immaginarlo.
Mai come oggi democratici e autocratici mostrano il loro vero volto, e vien da dire, parafrasannatdo una frase di un vecchio film, ‘quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare’. Quando si tratta di spartirsi il mondo, quando si tratta di uscire dalle proprie crisi e dalle proprie contraddizioni economiche, le grandi potenze – USA, Cina, Russia, UE – abbandonano progressivamente i vecchi strumenti di controllo e di imbonimento sociale per mostrare ed esercitare i loro muscoli. Esemplare la vicenda che ha visto coinvolti Israele, Iran e USA.
Netanyahu, per uscire da una situazione sempre più complicata dovuta all’emergere di critiche nel campo alleato, alla situazione economica, all’aumento del dissenso interno, alla sua stessa situazione giudiziaria, sferra un attacco a ‘sorpresa’ contro il nemico per antonomasia, l’Iran dei tirannici ayatollah, prospettando un cambio di regime; Khamenei, già in preallarme, tanto da aver fatto occultare i pezzi più importanti dell’industria nucleare del paese, risponde con i missili mostrando tutti i limiti della difesa israeliana; Trump, dopo aver orchestrato la manfrina dei tavoli di trattativa sul nucleare con i persiani, accorre a sostegno dell’alleato con i super bombardieri e le super bombe; l’Iran minaccia allora la chiusura dello stretto di Hormuz da dove passa il 20/30 % del trasporto su nave di petrolio; la Cina interviene allora su Khamenei e la minaccia decade; a questo punto Trump si dichiara soddisfatto, non sostiene il cambio di regime voluto da Israele e concorda con l’Iran un bombardamento farsa per chiudere la partita e permettere a tutti gli attori del gioco di proclamarsi vincitori. Netanyahu proclama a gran voce che la possibilità per l’Iran di costruirsi un armamento nucleare è ormai differita di anni, godendo del clima di favore popolare creato sull’onda dell’attacco al nemico storico (perlomeno dalla affermazione della rivoluzione khomeinista nel 1979), favore certificato dagli ultimi sondaggi che danno in salita il suo partito (mentre la coalizione al governo non raggiungerebbe la maggioranza necessaria per riconfermarsi); intanto aumentano gli attacchi dei coloni in Cisgiordania e le uccisioni dei civili a Gaza, in un processo di accelerazione di annessione dei territori e di progressiva espulsione dei residenti palestinesi.
Anche Trump – osannato servilmente dall’ex capo della Nato Rutte – si dichiara vincitore. Come un novello Cesare sembra dire ‘veni, vidi, vici’, sono venuto, ho visto e ho vinto imponendo la mia pace, e guai se qualcuno osa mettere in forse la portata della sua vittoria. Trump non si può permettere di dimostrare alcuna debolezza; gli USA stanno vivendo una fase di profonda crisi economica e sociale, il suo debito ha raggiunto dimensioni stellari e collocare titoli diventa sempre più costoso e non concorrenziale con altre economie, il dollaro è sotto la parità con l’euro e sta scivolando sempre più, sollevando un quesito determinante: fino a quando potrà rimanere valuta di scambio internazionale e bene di riserva in una situazione nella quale diventa sempre più difficile stampare moneta per rifinanziare il debito? In un anno il costo degli interessi è passato da 753 a 1235 miliardi di dollari, superando la stessa spesa militare. L’imposizione dell’aumento delle spese militari da parte dei paesi aderenti alla NATO, così come il braccio di ferro altalenante sulla questione dei dazi, rientrano, nei piani di Trump, nel tentativo di rimediare ad una situazione sempre più scivolosa, alla quale l’interventismo militare deve dare il suo contributo. Anche le misure prese all’interno degli USA dimostrano quanto Trump tema la crescita di un’opposizione interna alle sue politiche che inevitabilmente si riversano sui ceti popolari. La Guardia Nazionale, gli agenti dell’ICE, il Dipartimento di Giustizia dipendono ormai dalle sue direttive, non dai meccanismi previsti dalla Costituzione; il Congresso è stato esautorato dal controllo del potere di bilancio, assunto dal presidente, e numerosi sono i segnali di una messa in crisi delle istituzioni che hanno contrassegnato la vita di questo paese. Da un presidente che si dice convinto di essere stato mandato da Dio per sistemare le cose c’è d’aspettarsi di tutto. L’hanno capito anche diversi dei suoi che da lui stanno prendendo le distanze.
Il governo iraniano dal canto suo ha approfittato dell’attacco, previsto e preannunciato, per un’ulteriore stretta repressiva sugli oppositori, contemporanea ad un compattamento dei suoi sostenitori. Ma più che della propria forza militare, l’Iran si è avvalso non tanto delle pelose dichiarazioni di solidarietà del mondo musulmano, per lo più strumentali, ma della sua condizione di paese chiave in una regione del mondo essenziale per un’economia mondiale sempre più interconnessa e interdipendente. Colpire a fondo l’Iran, cercare un cambio di regime, avrebbe voluto favorire la sua disintegrazione come entità statale unitaria, stante la sua composizione etnica con quasi il 40% di popolazione non iraniana (curdi e beluci in primis), generando una situazione di ulteriore instabilità in un’area nella quale turchi, sauditi, sceicchi, cinesi e indiani stanno giocando le loro partite per affermare progressivamente, ma con cautela, il loro ‘soft power’. E allora tutti vincitori!
Quelli che non vincono mai sono quelli che stanno sotto, nella scala sociale, e purtroppo anche nei bombardamenti. Eppure la forza ci sarebbe per rovesciare il tavolo se solo si avesse la volontà e la capacità di riconoscersi eguali in una condizione umana fatta di oppressione e sfruttamento. Il cammino da fare è lungo e complesso, ma forse la velocità con la quale stanno avvenendo le trasformazioni potrà favorire una presa di coscienza collettiva che impedisca gli errori del passato e sbocchi in un reale processo rivoluzionario antiautoritario. Continuiamo a impegnarci per questo.
Massimo Varengo