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Vecchio scarpone. L’Italia partecipa all’escalation in Europa orientale.

Vecchio scarpone. L’Italia partecipa all’escalation in Europa orientale.

Sono stato indeciso se rendere pubbliche o meno queste mie riflessioni sulla crisi in Ucraina, da una parte per non aggregarmi alla variopinta schiera degli estimatori di Putin, dall’altra per non sbilanciarmi in affrettate previsioni che possono essere sempre smentite dall’evoluzione degli avvenimenti.

La recente presa di posizione del presidente ucraino Zelensky lancia più di un’ombra sulla campagna allarmistica in atto negli USA e in Europa a proposito della minaccia di invasione russa. In una conferenza stampa con i media stranieri, il leader ucraino ha affermato che la minaccia di invasione russa non è più alta oggi che nel 2021 e non si vede un’escalation russa. La priorità per le autorità di Kiev è la stabilità interna e soprattutto la stabilizzazione dell’economia.

Il reportage sull’Ucraina pubblicato su Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, del 30 gennaio si apre con le parole “il fronte orientale”. Al di là delle dichiarazioni ufficiali della gerarchia e del pacifismo a corrente alternata di Avvenire, la Chiesa si mostra una delle fonti che alimentano la tensione internazionale.

Il ruolo della Russia all’interno della politica internazionale è ben diverso da quello dell’URSS fino a più di trent’anni fa e questo non solo per lo scompaginamento territoriale e per lo sgretolamento delle alleanze di cui l’Unione Sovietica era al centro. Ora Mosca è perfettamente integrata nel sistema di potere dell’imperialismo anglo-americano, dopo l’adesione al Fondo Monetario Internazionale e all’Organizzazione Mondiale del Commercio, organismi internazionali controllati da Washington. La successiva adesione della Cina a questi organismi ha segnato la fine del mercato mondiale costituito da scambi basati sull’oro, divenuto mercato domestico USA costituito da scambi basati sul dollaro.

Lo spazio di autonomia della Russia è quindi più ristretto di quello della vecchia Unione Sovietica; se Putin si trova a svolgere il ruolo del “vilain” nel teatrino della politica estera USA è perché ha tutte le caratteristiche del personaggio e non solo perché i media occidentali lo dipingono così. I recenti allori conseguiti in Kazakistan, grazie ai massacri dei ribelli, il sostegno a dittatori in giro per il mondo, dalla Bielorussia, alla Siria, all’Egitto, il clima di dura repressione interna caratterizzano il regime personificato da Putin come marcatamente autoritario. Perché allora gli USA hanno bisogno di alimentare il clima di guerra con la Russia?

È bene ricordare gli avvenimenti che hanno accompagnato l’elezione di Sleepy Joe alla presidenza degli Stati Uniti. La convalida del voto, all’indomani della scomposta manifestazione dei sostenitori dell’ex-presidente Trump, si è svolta in condizione di stato di emergenza proclamato dal sindaco di Washington per 15 giorni, con la sede del Congresso circondata da contingenti della Guardia Nazionale della Virginia, del Maryland e del Distretto di Columbia e con l’ombra del tradimento che aleggiava sugli oppositori del presidente eletto. L’insediamento di Biden, per cui si prevedevano nuove clamorose proteste, è stato preceduto da un pronunciamiento dello Stato Maggiore Congiunto, organo che riunisce i capi di stato maggiore di ciascun ramo delle forze armate USA e il capo dell’Ufficio della Guardia Nazionale, in cui i fatti del 6 gennaio erano condannati come insurrezione e sedizione, invitando inoltre i membri delle Forze Armate a sostenere e difendere la costituzione e il processo costituzionale (che aveva portato all’elezione Joe Biden); il 20 gennaio 2021, giorno dell’insediamento di Biden, erano schierati a Washington oltre 25 mila militari. La protezione dei militari ha quindi garantito il passaggio dei poteri fra l’amministrazione Trump e quella Biden.

Le ragioni di questo favore sono presto dette: il budget per la Difesa, preparato dall’amministrazione Trump per l’anno fiscale 2021, non prevedeva aumenti; il presidente Trump in persona ava posto il veto, il 20 dicembre 2020, sulla legge approvata dal Congresso che autorizzava le spese del Dipartimento della Difesa per il 2021, che aveva portato il budget dai 705 previsti dalla Casa Bianca a 740 miliardi di dollari. Il veto metteva in pericolo il pagamento dell’indennità di rischio delle truppe, i progetti di nuove costruzioni militari, quelli per la sicurezza informatica, ecc.. Il primo budget per la difesa, approvato dal Congresso sotto l’amministrazione Biden, è stato definito come la più ampia autorizzazione di spesa nella storia, dopo quello del 2011, che aveva visto il picco nell’impiego di truppe statunitensi in Iraq e in Afghanistan. L’importo di spesa passa da 740 a 768 miliardi di dollari.

L’aumento di spesa per oltre la metà va agli appaltatori, alle corporations del complesso militare-industriale, che si occupa di tutto, dalla logistica al lavoro d’ufficio, dall’intelligence alla sicurezza privata. Secondo Open Secrets, l’industria bellica ha speso quasi 100 milioni di dollari in attività di lobbyng per condizionare le scelte del Congresso. Non c’è da stupirsi, il complesso militare-industriale plasma Washington da oltre un secolo.

C’è inoltre da tener presente che il 2022 per gli USA è un importante anno elettorale: con le elezioni di mid-term, in cui vengono eletti la Camera dei rappresentanti e un terzo dei membri del Senato. Il Partito democratico rischia di perdere il controllo di entrambi i rami del Congresso, con inevitabili ripercussioni per Joe Biden e la possibilità di portare avanti la sua politica. La Lockheed-Martin, una delle cinque più grandi compagnie statunitensi impegnate nell’industia bellica, ha impianti in ogni stato: una politica di aumento delle spese militari, di aumento dei guadagni delle grandi compagnie si può quindi tradurre in consenso elettorale, non solo a livello centrale, ma anche nei singoli stati che mandano i loro rappresentanti al Congresso.

Anche se gli esperti della sicurezza nazionale della Casa Bianca vedono nella Cina la minaccia più urgente, è comprensibile che Biden cerchi una vittoria, anche solo diplomatica, nei confronti di un osso che crede meno duro, che faccia dimenticare il pandemonio scatenato dalla ritirata in Afghanistan. D’altra parte l’elevarsi della tensione mediatica internazionale giustifica l’espansione delle basi militari Usa attorno al mondo, ed in Europa Orientale in particolare, soddisfacendo i famelici interessi dei militari e dell’industria delle armi.

Il settore dell’energia non va dimenticato. Gas e petrolio hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo di accumulazione capitalistico negli Stati Uniti a partire dalla fine del XIX secolo. Dal 2014 la produzione di gas e petrolio ha conosciuto una nuova espansione, dopo la crisi degli anni ’70 del secolo scorso e la conseguente recessione. Nonostante le promesse elettorali, l’amministrazione Biden non ha alcuna intenzione di porre limiti all’espansione delle perforazioni, siano esse in terraferma o sui fondali marini. Oltre a questo il recente aumento del prezzo del petrolio ha rimesso sul mercato le costose tecnologie di produzione di petrolio e gas da scisto, il cosiddetto fracking. D’altra parte, proprio alla fine del 2021 la Commissione UE ha dato via libera a gas e nucleare come fonti utili per la transizione verde. Questa scelta potrebbe aprire un nuovo mercato per i combustibili fossili USA, ma al momento attuale rischia di legare ancora di più l’Unione Europea alla Russia, maggiore e più economico fornitore di gas, rendendo inutili gli investimenti fatti nei rigassificatori, che permetterebbero di utilizzare il costoso GNL, gas naturale liquefatto, naturalmente made in USA.

Nell’attività diplomatica attorno all’attuale crisi ucraina è quindi entrato anche il gasdotto North Stream 2: il nuovo gasdotto fornirà all’Unione Europea 55 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno. Corre parallelo al già esistente North Stream, e permetterebbe al gas russo di raggiungere l’Europa senza attraversare Polonia, Ucraina e Bielorussia; i rispettivi governi vengono quindi esclusi dai diritti di transito e non possono sospendere il transito del gas per mettere pressione alla Russia e all’Unione Europea. L’amministrazione USA non è contenta che siano bypassati sia gli stati baltici, sia quelli del gruppo di Vysegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria) principale centro di pressione dell’imperialismo anglo-americano all’interno dell’Unione Europea.

La crisi ha pesanti contraccolpi all’interno dell’Unione europea, oltre che nei singoli stati che la compongono, non interrompe però la marcia verso una struttura unificata di difesa, nell’ottica di costituire la terza gamba, oltre agli USA e al Regno Unito, della NATO.

L’Italia si conferma paese di punta dell’impegno militare europeo: come scrive “Il Fatto Quotidiano”, in un articolo del 25 gennaio, truppe italiane sono in Lettonia, con carri armati e cingolati da neve, nell’ambito della missione “Baltic Guardian” della NATO; nei pressi di Costanza (Romania) è presente una squadriglia di quattro caccia Typhoon nell’ambito della missione “Air Black Storm” mentre nel Mar Nero sono presenti la fregata FREMM Margottini e il cacciamine Viareggio. Ad essi si aggiungerà la portaerei “Cavour” con gli F-35, nell’ambito delle ennesime manovre NATO che si svolgeranno nelle prossime settimane, assieme alla portaerei francese De Gaulle e alla statunitense Truman.

Questo spiegamento di forze è stato autorizzato con uno stanziamento di 78 milioni di euro, che sicuramente il governo dovrà incrementare. Non si può escludere che lo scostamento di bilancio di cui si sta discutendo serva proprio ad incrementare la presenza militare italiana nello scacchiere.

Le crescenti spese militari sono giustificate con la nostra sicurezza ma nessuno dice che sicurezza è soprattutto educazione e sanità, reddito garantito per tutti, non la guerra fra le dune infuocate o nelle steppe gelate.

Anche se forse nessuno vuole realmente la guerra oggi, le continue dimostrazioni di forza, la corsa agli armamenti, la concorrenza commerciale continuano a gettare benzina sul fuoco della crisi internazionale. Solo un fronte proletario internazionale può fermare la corsa verso la guerra, combattendo tutti gli imperialismi a partire dal proprio imperialismo. Basta missioni militari all’estero!

Tiziano Antonelli

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