Gli articoli del compagno Cosimo Scarinzi (“Uno sciopero che ci interroga” - Umanità Nova n. 33/2016 e “Unità del sindacalismo di base - prospettiva realizzabile o luogo comune?” Umanità Nova n. 34/2016) e quello del compagno Mauro De Agostini (“Sindacalismo di base, quale futuro?” Umanità Nova n. 34/2016), scritti dopo gli scioperi generali del 21 di ottobre e del 4 di novembre us, costituiscono un utile stimolo alla riflessione sulla situazione del sindacalismo di base proprio perché descrivono realtà che, altrimenti, stenterebbero a emergere. Sono talmente convinto di questa necessità che più volte mi sono misurato in analoghi intenti per quanto concerne la situazione nella CGIL che è talvolta affrontata con superficialità e supponenza.
Gli scioperi generali
Recentemente sono stati effettuati due scioperi generali in 15 giorni indetti da diverse sigle del sindacalismo di base, quello del 21 e quello del 4 us i quali, anche in considerazione delle modeste adesioni riscontrate, hanno dimostrato da un lato la stanchezza del movimento sociale di opposizione e, dall’altro, l’auto referenzialismo delle sigle sindacali che questi scioperi hanno indetto.
Gli scioperi generali sembrano ormai aver assunto nel tempo caratteristiche identitarie e/o di testimonianza laddove si confondono i mezzi con i fini, come dimostra una tradizione scioperistica ben presente anche nella CGIL che si qualifica, anche quella, per adesioni non all’altezza delle necessità.
Vero che uno sciopero generale non può essere ridotto a mere valutazioni quantitative e che deve essere valutato anche per i processi che intende innescare: ma se le adesioni sono modeste le dinamiche non s’innescano e lo sciopero fallisce con tutte le conseguenze negative del caso. Alla fine è anche una questione di numeri, specialmente quando questi sono molto bassi.
Anche la CGIL ha obiettivamente e ripetutamente indugiato nel considerare lo sciopero generale come un fine, moderando le richieste sindacali per non compromettere i rapporti quando con il governo e confindustria, quando con Cisl e Uil: ma i risultati di questa operazione al ribasso sono stati alquanto modesti, come le basse adesioni agli ultimi scioperi indetti da questa organizzazione dimostrano.
Un conflitto sociale articolato e contraddittorio
In questo orizzonte i comportamenti radicali di settori di classe (FoodOra, logistica), caratterizzati da elevati livelli di combattività e di autonomia esprimono spinte che, certamente, devono essere sostenute e difese per i loro contenuti al fine di contrastarne il riflusso con la consapevolezza però che, dati i contesti generali di sconfitta, queste esperienze rappresentano la cuspide dello scontro di classe e, contemporaneamente, l’eccezione e non la regola del conflitto.
Infatti vi sono anche altri problematici esempi sui quali è necessario riflettere e, al riguardo, vorrei citare quello delle elezioni della RSU alle officine Piaggio di Pontedera (Pisa) nel maggio us dove, per la prima volta, si è assistito al sorpasso della FIOM - CGIL da parte della FIM – CISL con un rafforzamento della UILM – UIL al punto che queste ultime due sigle detengono ora la maggioranza nella RSU.
L’affermazione della USB (un buon 10%), avvenuta in condizioni difficilissime e, presumibilmente, anche a scapito della FIOM, non è stata comunque tale da contrastare i nuovi equilibri tra sigle sindacali che hanno premiato il moderatismo della concertazione e non la combattività della precedente RSU.
Se alla Piaggio il successo della USB fosse stato tale da consentire una nuova maggioranza in RSU tra delegati USB e FIOM ad esempio, la cosa avrebbe anche potuto avere sviluppi positivi per l’unità dei lavoratori, ma il perseguimento di questo risultato imponeva alla USB una considerazione obiettiva dei rapporti di forza che è invece mancata, e tutto si è risolto in uno scontro tra sigle sindacali a totale vantaggio del neocorporativismo della CISL.
Certo che bisognerebbe riflettere anche sugli errori della FIOM – CGIL, non solo su quelli recenti e non solo alla Piaggio di Pontedera, ma anche sul ruolo dell’USB e delle altre sigle sindacali di base che, rimanendo minoritarie, non riescono a sviluppare concreti livelli di unità di classe.
Il compagno Scarinzi individua il discrimine tra sindacalismo concertativo e di classe nell’accordo del gennaio del 2014 in materia di rappresentanza, rispetto al quale l’opposizione della Cub è stata tanto più valida quanto più isolata, perché USB e Conf. Cobas quell’accordo lo hanno, infatti, firmato. Ma se alla Cub spetta il merito di essersi opposta a un accordo regressivo la questione rimane comunque mal posta: a cosa vale, infatti, creare nuove sigle sindacali se poi si ripercorrono le antiche vie concertative mille volte condannate e che finiscono poi per tornare a galla? La risposta non può essere né quella “tattica” fornita dall’USB: ci siamo opposti con tutte le nostre forze, abbiamo perso e, quindi, firmiamo per limitare i danni; né quella obiettivamente volontaristica fornita dalla Cub, volta a definire un discrimine tra sindacalismo di classe e sindacalismo concertativo al fine di ricavarsi uno spazio d’azione che le difficoltà della fase e lo scarso radicamento rendono però impraticabile.
Oltre l’impegno e le energie profuse il sindacalismo di base pare dibattersi nell’antico dilemma: accettare accordi velenosi per evitare di essere emarginati, o rifiutarli con coerenza e determinazione per essere emarginati ugualmente. Mi permetto poi di aggiungere una riflessione a quelle interessanti, già riportate dal compagno De Agostini nella sua schematica ma efficace disamina.
Noi apprezziamo le grandi opere di architettura ma, il più delle volte, omettiamo di riconoscere e apprezzare le fondazioni che le sostengono, semplicemente perché… non sono immediatamente visibili. D’altronde come ebbe a scrivere Karl von Terzaghi, un teorico della meccanica dei terreni: “non c’è gloria che venga dalle fondazioni”.
La necessità di guardare oltre le nostre reciproche esperienze
In questi ultimi trent’anni l’unica azione di contenimento non occasionale, non testimoniale e non minoritaria delle politiche e delle pratiche corporative del sindacalismo concertativo è stata posta in essere dall’opposizione interna alla CGIL, una opposizione che progressivamente crebbe e contribuì a spostare nei primi anni duemila il maggiore sindacato italiano su posizioni più avanzate dal suo tradizionale moderatismo rilanciando una stagione di lotte che, non ostante numerose contraddizioni e punti di caduta, si affermò come l’unica opposizione sociale di massa ai piani del padronato.
Nessuno si aspettava riconoscimenti, men che meno se li aspettano le migliaia di delegate e delegati, della CGIL che parteciparono a quella stagione impegnando le proprie personali risorse, consapevoli che la lotta di classe non è una questione di formale gratitudine. Quello non fu un movimento di funzionari e questa opposizione interna alla CGIL che oggi risulta ridimensionata in quantità e qualità se non addirittura subalterna in alcune sue componenti, ha prodotto l’affermarsi di una cultura più conflittuale tra gli iscritti e i lavoratori, sostenendo anche la FIOM nel suo successivo percorso di opposizione.
Ma cosa si è ottenuto in pratica? Si è ottenuto che l’avanzare di un solo millimetro oltre il tradizionale moderatismo dei gruppi dirigenti ha prodotto spinte positive che hanno consentito di schierare la CGIL, sia pure temporaneamente, su di un terreno più avanzato aprendo spazi di intervento. Ciò è stato possibile con la costituzione di un tessuto militante di opposizione che ancora oggi perdura, sia pure ridimensionato da una logica di aree programmatiche ormai superata, a riprova che se le indicazioni sono semplici e chiare l’unità dei lavoratori e delle classi subalterne può divenire un obiettivo praticabile.
Basta? No non basta e, infatti, non è bastato perché questo diffuso movimento è stata una opportunità che è rimasta tale, anche per l’incapacità dei rivoluzionari e degli anarchici, dentro e fuori alla CGIL.
Per concludere: non entro nel merito delle proposte del compagno Scarinzi circa l’unità del sindacalismo di base, perché sono storicamente estraneo a questa articolata esperienza che, pure, seguo con costante interesse. Credo infatti che si debbano considerare e comprendere anche quelle dinamiche che escono dai nostri consueti intorni ai quali tutti noi abbiamo dedicato le nostre più disinteressate risorse: ma la generosità e il disinteresse non bastano.
Se l’opposizione interna alla CGIL non ha retto alla prova dei fatti e risulta al momento confitta, vittima delle sue medesime contraddizioni interne che sono rimaste irrisolte, una sorte analoga caratterizza anche il sindacalismo di base nelle sue molteplici espressioni, a riprova che le contraddizioni che si vogliono ascrivere al solo sindacalismo concertativo riguardano, in realtà, ogni esperienza sindacale che si articola nella società capitalistica nell’epoca dell’imperialismo, contraddizioni che non sono suscettibili di essere aggirate con qualche scorciatoia organizzativa, minoritaria e volontaristica che i lavoratori e le classi subalterne dimostrano di non recepire.
Giulio Angeli