Qualche tempo fa vi raccontavo del mio spaesamento, della mia confusione, del mio sentirmi fuori posto attraverso gli anni Sessanta che col tempo sono diventati gli anni Settanta e poi gli Ottanta e infine il millennio nuovo. Ho accumulato dentro in testa, dal mio punto di vista di bambino e poi di sbarbo e poi di adulto e adesso di vecchio & pensionato, gli anni di lavoro di mio padre al Petrolchimico, il primo disco che ho comprato (il secondo lp dei Led Zeppelin appena uscito, consumato a forza di ascolti su di una fonovaligia del Reader’s Digest) e la mia prima chitarra, il sospetto prima lo smarrimento poi e infine la consapevolezza del sentirsi differenti da tutto e da tutti quando stavo alle scuole superiori, com’era Mestre senza la tangenziale cioè quella specie di periferia sconfinata e brutta sospesa fra nebbia invernale ed estati calde dove si veniva su storti, strani e spaesati fra la campagna che stava sparendo e il cemento e l’asfalto che avanzavano. Meno male che Venezia era a portata di autobus, allora non ti mandavano via se ti sedevi con un libro per terra alle Zattere a prendere il primo sole, per il Carnevale non c’era ancora niente di organizzato e poteva succedere di divertirsi a San Marco prendendo a calci una lattina noi due, tre e altri dieci sconosciuti. Ecco, volevo farvi una fotografia di come mi sentivo ma viene fuori tutta nera.
Il punk, una mattina. È stato come svegliarsi col sole, dopo un inverno fitto di tanta e tanta nebbia. Dalla strada, da fuori, arrivava rumore: il nostro rumore, che con le musiche che giravano prima non c’entrava proprio niente. Pareva che il Sessantotto fosse stata una rivoluzione con una colonna sonora completamente diversa. Nel giro di poche notti il punk aveva costruito un muro insormontabile: restava di là la roba improvvisamente diventata vecchia – i cantautori, il blues, il prog, il rock, i dinosauri. Noi di qua del muro: soli, spaesati e disinformati. C’è da dire che alla fine degli anni Settanta il punk non aveva ancora raggiunto la parte del mondo dove vivevo: nel nordest avevamo solo scarsissime informazioni e non ci si poteva fidare neanche delle poche che avevamo. Ad esempio, dai compagni più vecchi in radio i punks venivano descritti come stupidi e violenti, un fenomeno da baraccone, robaccia fascista che doveva restare fuori dalle trasmissioni.
I miei anni Ottanta sono stati pieni di incontri di viaggi e di scambi, di fanzine e di musiche, di punk e anarchia mescolati a suoni nuovi appena inventati dei quali avevo sempre fame. Dietro ai nomi dei gruppi e delle fanzine c’erano tutte ragazze e ragazzi press’a poco della mia età, anche loro conosciuti alle manifestazioni, ai concerti, nelle cantine, in radio, nelle stanze occupate dei primi piccoli centri sociali e negli spazi autogestiti e precari fioriti in giro per il paese. Eravamo tutti diversi, eppure ci si assomigliava, ciascuno con qualche nodo segreto dentro al cuore che ci rendeva fragili, tutti innamorati e impegnati a cercare una colonna sonora adatta alla giornata. Non eravamo capaci di suonare e di cantare ma non era grave: avremmo preso i pezzi dai dischi e dalle cassette degli altri, cucendoli in un patchwork che ci rassomigliasse. Abbiamo fatto così – rosicchiato, strappato, rubato, fatto diventare nostro. Ci abbiamo provato: a volte ce l’abbiamo fatta, a volte no.
Laura Carroli, quella che stava dietro i tamburi della batteria coi Raf Punk, ci ha messo vent’anni a raccogliere e dare forma scritta alla sua vita di ricordi, incontri, ragionamenti ed esperienze. Si chiama Schiavi nella città più libera del mondo (ed. Agenzia X, www.agenziax.it) ed è un libro proprio storto e tutto fatto a modo suo – ed era ora che si trovasse il coraggio di fare un libro così. Dove per altri scrivere è stato un modo per togliersi sassi e pezzi di vetro dagli anfibi, per accoltellare alle spalle in maniera più o meno simbolica o per riscrivere a proprio modo delle storie con le s sempre più minuscole, Laura ha preferito parlare dolcemente di ingenuità che diventa consapevolezza, di piccoli mondi-a-parte in collisione, di delusioni che finiscono col rafforzare i sogni. Una mescolanza di candore e disperazione tenuta insieme da un amore sconfinato. Meravigliosa lei.
Gli anni Novanta significano per me un carico pesante di problemi familiari e due figlie arrivate a distanza breve: la maggiore era gravemente disabile e bisognosa di cure e assistenza continua – ne parlo al passato perché è vissuta solo sedici anni. Sedici anni di problemi grossi e spigolosi che mi hanno a lungo tenuto lontano da tutto (non da tutti): lì fuori c’era il mondo che continuava ad andare avanti, mentre io avevo questo collare pesante stretto al collo. Mi sono ritrovato spesso ad aggrapparmi denti e unghie alle musiche dentro ai dischi dei miei amici e compagni, le parole cantate adoperate come lettere da lontano, come abbracci veri, forti. Molto spesso gli articoli che ho inviato alla redazione di A/Rivista Anarchica tra il 1992 e il 2008 sono stati scritti da una stanza d’ospedale, collage fatti di una frase scritta adesso e un’altra chissà quando, dopo, forse.
Giangiacomo De Stefano e Andrea “Ics” Ferraris sono riusciti a raccontarmi com’era il mondo lì fuori, quello che andava avanti quando io ero fermo, quello che si sbatteva mentre io ero via. Hanno raccolto in Disconnection (ed. Tsunami, www.tsunamiedizioni.com) un mosaico di testimonianze, sputi, confessioni, pietre, rutti e scorregge: quattrocento-e-passa pagine di vita vera e di musica vera raccontate sotto tutti i punti di vista, mille interpretazioni della libertà e del suono, sogni in forma di ragionamenti e relazioni interpersonali e sperimentazioni sonore. Leggerlo per me ha significato riempire un buco importante e in qualche maniera riprendermi una parte della mia vita anche se solo di riflesso. Ha significato anche annusare vecchi odori e ritrovarmi con certi vecchi sapori in bocca, soprattutto nell’inciampare qui dentro nelle testimonianze di ragazze e ragazzi che dal nome ho riconosciuto come “clienti” recidivi del mio ex-banchetto per forza di cose divenuto mailorder. Se oggi sono ancora arruffato scontroso orso incasinato spigoloso e rompicoglioni, lo devo anche a quelle ragazze e ragazzi che si sono sbattuti anche per me, perché io non potevo.
Sono stati sacrificati chissà quanti alberi e sprecati fiumi d’inchiostro per raccontare l’Italia musicale degli anni Ottanta – anch’io nel mio piccolo ho contribuito al massacro e allo spreco. Mi è capitato tra le mani però un libro, scritto esplicitamente per chi è venuto dopo e allora non c’era, che racconta senza celebrare e che spiega senza pretendere di insegnare: Stefano Gilardino in Shock antistatico (ed. Goodfellas, libri.goodfellas.it) ha ricostruito una scena e un periodo storico in un libro attraverso il quale ammetto di riconoscermi e di sapermi orientare. Da “dentro” la scena degli anni Ottanta succedeva tutto disordinatamente, un misto inestricabile di tensione e di gioia, di tentativi e fallimenti, di strizza e di disperazione: il libro è tecnicamente un susseguirsi di ricostruzioni che è riuscito bene, nel senso che trovo condivisibile la sua versione dell’aria che si respirava allora. In una parola sono rimasto stupefatto dell’attenzione (per non dire dell’amore, senza esagerare) riservata ai miei compagni di allora: eravamo dei ventenni persi, poveri e ingenui e sognatori alle prese con un mondo da inventare – spesso l’abbiamo fatto fagocitando e riciclando intuizioni e invenzioni d’altri. Dove tanti hanno scritto e basta, Stefano si è incuriosito, ha avvicinato, ha studiato, ha capito, ha incontrato, ha verificato, ha chiarito e poi ha scritto. Cazzo, mica è poco.
Marco Pandin
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