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La felicità come progetto politico. Riflettendo su di un aspetto dell’Anarchia

La felicità come progetto politico. Riflettendo su di un aspetto dell’Anarchia

È molto noto il preambolo alla Dichiarazione d’Indipendenza delle colonie americane dalla madre patria britannica, particolarmente nella parte in cui dice: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità”.[1] Un po’ meno noto il fatto che il “perseguimento della Felicità” sparirà del tutto dalla Costituzione definitiva degli Stati Uniti d’America e non la si ritroverà più nelle Costituzioni del resto del mondo, anche delle più avanzate, se non per vaghe perifrasi ed anche questo assai di rado.[2]

Ad un primo sguardo sommario non si capirebbe perché: in effetti la frase del preambolo non sembra oggi particolarmente impegnativa, non inserendo tra i diritti fondamentali la felicità in quanto tale ma il suo semplice perseguimento. In realtà, però, le parole mutano molto di significato col tempo ed i rivoluzionari borghesi del nord America, all’atto della redazione definitiva della Costituzione, probabilmente si erano accorti di aver utilizzato un termine che aveva, ancora ai loro tempi, una notevole carica sovversiva.

Infatti il più noto uso del termine, in senso filosofico e politico-morale, risaliva alla epicurea “Lettera a Meneceo” meglio nota, appunto, come “Lettera sulla Felicità”. Oggi non riusciamo facilmente a comprendere come l’atomismo antico avesse una carica sovversiva notevole e che in quest’ottica venisse letto per molti secoli. In un mio articolo su Umanità Nova di qualche tempo fa, cui rimando per un’analisi maggiormente dettagliata,[3] ho affrontato la questione che qui riepilogo brevemente: nel materialismo atomistico antico troviamo le prime frasi “anarchiche” della storia umana, nonché la definizione stessa di una società comunista regolantesi secondo il principio “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni” ed il rifiuto esplicito del potere economico e politico.

Un altro aspetto della faccenda è che oggi il termine “felicità” rimanda ad uno stato interiore della mente ma, all’epoca, il senso era molto più quello di un benessere materiale come precondizione indispensabile del benessere mentale. Benessere mentale e benessere materiale, nella riflessione degli atomisti, erano perciò strettamente connessi e di qui l’interesse per le forme del vivere felici in società che, insieme alle teorie fisiche, saranno il tema portante della scuola, giungendo fino alle teorizzazioni che abbiamo ricordato sopra.

Insomma, il termine “felicità” era, per così dire, all’epoca molto “politicamente connotato”; l’impressione che ho è che i rivoluzionari nordamericani, nella foga del momento, si siano lasciati un po’ prendere la mano ed abbiano utilizzato una terminologia – diritto a perseguire la felicità – che, se oggi ci sembra decisamente soft avendo in mente il senso oggi corrente del termine, all’epoca poteva tranquillamente essere letto come il diritto a perseguire, per usare termini moderni, una società egualitaria e libertaria. Poi, a mente fresca, hanno tagliato la testa al Toro e l’hanno eliminato del tutto.[4]

In realtà, qualche elemento a supporto di questa ricostruzione c’è: in effetti il termine utilizzato non passò inosservato da parte degli avversari britannici che affidarono nello stesso 1776 una risposta a quello che allora era uno dei più noti filosofi morali dell’isola, Jeremy Bentham.[5] Il filosofo inglese cominciò con il sottolineare l’aspetto soggettivo, “mentale”, del termine e, di conseguenza, la difficoltà a tradurla in termini precisi in modo da renderla oggetto di comparazione tra diversi modelli di società e, comunque, in ogni caso, l’azione di un governo in quanto tale era tale da entrare in contraddizione con il perseguimento dei fini che i rivoluzionari nordamericani intendevano perseguire. Il che, però, di per sé, se poteva avere un senso per i diritti alla Vita ed alla Libertà, poteva però non esserlo affatto per il diritto al perseguimento della felicità, se inteso in senso non prettamente mentale ma in quello sviluppatosi nel materialismo atomistico.

Bentham, in ogni caso, proseguì la sua ricerca e, questa volta, evidentemente comunque colpito dalla proposta dei rivoluzionari nordamericani, quattro anni dopo[6] prese sul serio il progetto politico della realizzazione della massima felicità possibile, introducendo l’idea di un “calcolo felicitario” come strumento per permetterne la realizzazione effettiva. Propose allora di sostituire il concetto di felicità, a suo dire troppo vago, con il più preciso concetto di “utilità”, il quale poteva essere algebricamente calcolato tramite una quantificazione di segno positivo dei piaceri ed una quantificazione di segno negativo dei dolori.

L’idea per cui occorre porsi come obiettivo la felicità per il maggior numero di persone e che le azioni da compiere in quanto moralmente valide sono quelle che portano ad aumentare il piacere e diminuire il dolore nella collettività – concezione definita come “utilitarismo” – non era però molto lontano dall’originaria impostazione atomistica. In ogni caso, il “calcolo felicitario” non era semplicissimo e poneva tutta una serie di problemi.

Innanzitutto il calcolo dell’utilità non è una funzione lineare: in termini più semplici, un “guadagno” o una “perdita” – per usare il linguaggio dell’utilitarismo – doppi non portano ad un piacere o ad un dolore doppi. Era un po’ il problema che aveva notato nel 1713 il matematico Jacob Bernouilli[7] formando il concetto di “utilità decrescente”: banalizzando un po’, la vincita di un milione di euro per un miliardario o per un suo dipendente producono effetti “felicitari” molto differenti. Trasformato allora nel concetto di utilità, il concetto entrò a far parte della riflessione della Economia Politica che cercò di renderlo il più possibile coerente e lo ha sempre più allontanato dalla originaria genesi dal concetto di felicità.

La questione è diventata allora sempre più tecnica, anche se non mancano gli spunti di riflessione che implicano una scelta morale; ad esempio se si deve massimizzare l’utilità complessiva di una collettività o quella media dei suoi componenti o quanto si devono valutare le preferenze delle collettività o dei singoli rispetto all’ottenimento di un piacere o di un altro o, al contrario, la volontà di rifiutare maggiormente un dolore rispetto all’altro.

In realtà, però, non è stata solo la critica politica borghese o l’Economia Politica ad occuparsi del concetto di “felicità”, inteso però stavolta nel suo senso originario della ricerca di un benessere a fondamento di un benessere mentale: è stato anche il movimento operaio e socialista, in particolare nella sua componente anarchica. Infatti, a differenza della corrente marxista che rifiuta a priori il concetto di utopia e, di conseguenza, ogni minima progettualità sociale di una società senza classi e senza potere politico, l’anarchismo comunista, rifiutando il concetto di “fase di transizione”, è stato protagonista della elaborazione di una serie notevole di “progetti di (auto)governo” di una società comunista e libertaria: i più noti sono La Conquista del Pane di Kropotkin ed il Progetto di Comunismo Libertario del Congresso della CNT del 1936.

Questi testi – e tanti altri “minori” – sono sicuramente gli eredi più diretti della riflessione del materialismo antico sul raggiungimento della felicità. Essi, però, sono nati all’interno di un processo storico e culturale di raffinamento del concetto ed alcuni problemi teorici prima citati – particolarmente il problema del rapporto tra individuo e collettività nelle scelte di una società liberata – non sono state certo aliene alla riflessione presente in questi testi. Il principio comunista viene qui integrato in strutture politiche autogestionarie, cui viene demandata la decisione sulle preferenze, sul rapporto tra desideri del singolo ed interessi collettivi, ecc.

Insomma, l’antica riflessione sulla Felicità come progetto politico ha una lunga storia, si infiltra anche in spazi inaspettati e, soprattutto, può essere, in un momento dove il potere dell’uomo sull’uomo sembra voler portare alla distruzione dell’umanità se non dell’intera biosfera, l’autentica speranza dell’umanità – per sopravvivere ed essere felice.

Enrico Voccia

NOTE

[1] https://cultura.biografieonline.it/testo-in-italiano-della-dichiarazione-di-indipendenza-americana/

[2] Tra le poche vaghe eccezioni la Costituzione della Repubblica Italiana nell’art. 3 dichiara come compito della Repubblica sia quello di rimuovere gli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” – https://senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-3

[3] VOCCIA, Enrico, “Gli Antichi Atomisti”, in Umanità Nova, anno 100, n° 28 https://umanitanova.org/gli-antichi-atomisti/

[4] Non a caso, come facevamo notare nella nota 2 una delle poche costituzioni che ha ripreso sia pure più vagamente il tema è quella italiana nell’art. 3 che, insieme ad altri, mostra l’influenza ancora forte dell’epopea resistenziale.

[5] BENTHAM, Jeremy. A Short Review of the Declaration, London, 1776, https://wisc.pb.unizin.org/ps601/chapter/jeremy-bentham-a-short-review-of-the-declaration/

[6] BENTHAM, Jeremy. Introduzione ai Principi della Morale e della Legislazione, Padova, Primiceri, 2020.

[7] https://en.wikipedia.org/wiki/Ars_Conjectandi

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