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Sulle morti sul lavoro. Un’analisi di classe.

Sulle morti sul lavoro. Un’analisi di classe.

È a mio avviso opportuno quando si tratta degli incidenti, delle malattie, dei morti sul lavoro distinguere fra il giudizio etico politico sulla natura di questi fatti che sono, con ogni evidenza, inaccettabili in qualsiasi misura si diano e la loro valutazione come “effetti collaterali” del modo di produzione capitalistico e delle relazioni sociali che lo caratterizzano, effetti collaterali che ci dicono molto sui rapporti di forza fra le classi e sulla stessa composizione tecnica della nostra classe, sulla struttura produttiva e sociale, sulle differenze fra le economie nazionali.

Come riporta l’Eurostat nella sua analisi sul 2018, l’ultima disponibile, nell’Unione Europea, la media comunitaria di decessi in incidenti è di 1,77 per ogni centomila lavoratori mentre in Italia è il 2,25%. La proporzione peggiore si riscontra in Romania (4,33%), Lussemburgo (4,22%), Lettonia (3,27%), Bulgaria (3,14%), Lituania (3,5%) e Croazia (3,4%). Sotto la media UE invece Malta, Slovenia, Polonia, Danimarca e Svezia con il numero di morti che rimane sotto l’uno per cento ogni centomila lavoratori in Finlandia (0,99%), Grecia (0,97%), Germania (0,78%) e Olanda (0,6%).

Ritengo che il dato più significativo sia la differenza fra Germania ed Italia considerando che l’Italia è, dal punto di vista del peso dell’industria, il secondo paese dell’Unione Europea. L’enorme differenza fra il 2,25% dell’Italia e lo 0,78% della Germania può spiegarsi, a mio avviso, solo con la diversa composizione del sistema delle imprese fra i due paesi, con un predominio della grande impresa in Germania e della piccola media impresa e con l’incidenza degli appalti e del lavoro nero in Italia; inoltre, a livello generale, che il costo del lavoro, costo che comprende gli investimenti in sicurezza, in Italia è decisamente più basso e che questa situazione è la condizione che garantisce alle imprese italiane di “stare sul mercato”.

Su La Repubblica del 9 gennaio 2022, nell’articolo “Morti sul lavoro, osservatorio indipendente: nel 2021 contate 1404 vittime. ‘In 14 anni non c’è stato alcun miglioramento’”, leggiamo: “Nel 2021 sono morti 1.404 lavoratori per infortuni sul lavoro, di questi 695 sui luoghi di attività (+18% rispetto all’anno 2020), mentre i rimanenti ’in itinere’, vale a dire nel tragitto verso o dal posto di lavoro. ‘E va sottolineato come l’anno scorso ci sia stato il fermo di molte attività produttive per l’emergenza Covid’, ricorda l’osservatorio nazionale indipendente sui morti del lavoro, coordinato da Carlo Soricelli con attività volontaria (http://cadutisullavoro.blogspot.It). ‘Il monitoraggio, oltretutto, non conteggia i decessi per casi di Covid. Ebbene, rispetto al 2008 anno di apertura dell’osservatorio, l’aumento dei morti sui luoghi di lavoro è del 9%. In questi 14 anni non c’è stato alcun miglioramento, nonostante lo Stato attraverso i suoi istituti abbia speso miliardi di euro per la sicurezza’.”

Se teniamo conto che molti incidenti e morti sul lavoro, avvenuti in situazione di lavoro nero e che riguardano immigrati, non risultano dalle statistiche ci si rende conto della gravità della situazione.

Non è certo un caso che l’edilizia, un settore caratterizzato da un’enorme diffusione del lavoro nero soprattutto, ma non solo, al sud registri il 15% dei morti sul totale e nella maggioranza dei casi si è trattato di cadute dall’alto. L’autotrasporto rappresenta il 10,75% del totale dei morti sui luoghi di lavoro: in questa categoria sono inseriti tutti coloro che guidano un mezzo su strade e autostrade. Vi è una connessione evidente tra il fatto che in Italia il trasporto su gomma sia centrale rispetto a quello su rotaia, che gli addetti a questo settore siano sovente padroncini che sono costretti ad autosfruttarsi per pagare il mezzo di cui sono proprietari, che gli stessi camionisti dipendenti subiscano una pressione fortissima per garantire i tempi di consegna e la mortalità sul lavoro, come è altrettanto evidente che, per un verso, proprio la polverizzazione del sistema delle imprese richieda un uso massiccio del trasporto su strada e che, per l’altro, l’aumento del commercio on line legato alla pandemia abbia aumentato il peso del trasporto delle merci e della conseguente nocività.

Nell’industria c’è il 5,89% dei decessi sui luoghi di lavoro, relativamente pochi, e sono quasi tutti nelle piccole e piccolissime aziende dove non è presente il sindacato o un responsabile della sicurezza. Nelle medie e grandi aziende i casi sono decisamente minori e si tratta quasi sempre di lavoratori che operano all’interno dell’azienda stessa ma che non sono dipendenti diretti, bensì addetti di aziende appaltatrici.

I morti sul lavoro ultrasessantenni sono oltre il 20% del totale, soprattutto in agricoltura, in edilizia e tra gli artigiani, è facile comprendere quale sia la relazione fra l’età e la pericolosità del lavoro svolto; numerosi sono però anche i giovani, di regola precari costretti, pena il licenziamento, ad accettare condizioni pesantissime e pericolose.

Credo che a questo punto sia chiara la relazione fra mortalità sul lavoro e composizione tecnica di classe determinata dalle caratteristiche specifiche del capitalismo italiano; è necessario, allora, ragionare sulla composizione politica di classe e, di conseguenza, delle relazioni fra capitale e lavoro e, dentro questa relazione, del ruolo della politica.

Se andiamo di molti decenni addietro, scopriamo che 1963, l’anno peggiore da questo punto di vista, le morti denunciate sono state 4.644, cioè quasi 13 al giorno e che, negli anni ’60, era “normale”, avere più di 3000 morti all’anno. A una lettura superficiale se ne potrebbe dedurre che la situazione è molto migliorata e che, di conseguenza, tutta va bene Madama la Marchesa. In realtà si devono tenere presenti alcuni fatti importanti.

L’altissima incidenza della mortalità sul lavoro negli anni che vanno dalla fine della guerra agli anni ’70 è un “effetto collaterale” del “miracolo economico” italiano con lo straordinario sviluppo del lavoro industriale, per un verso, e della pressione sui lavoratori e sulle lavoratrici per avere il massimo di produttività a qualsiasi condizione. È proprio però negli anni ’60 che il movimento dei lavoratori sviluppa una mobilitazione altrettanto straordinaria che culminerà con l’autunno caldo e proseguirà negli anni ’70 e che porrà oltre, ovviamente, alla questione del salario e dell’orario quella delle condizioni di lavoro e della sicurezza.

Un aspetto importante di quelle vicende è lo sviluppo di un vero e proprio movimento di medici, giuristi, tecnici che si impegnano su questo fronte in stretta relazione con collettivi operai, delegati di azienda, ecc. cosa che permette un’azione efficace anche da un punto di vista tecnico e, come è noto, in questi casi la relazione fra tecnica e politica è strettissima.

In altri termini, la radicale diminuzione della mortalità sul lavoro non è una concessione del padronato e dei governi ma il prodotto della mobilitazione diretta dei lavoratori e delle lavoratrici che, in quel contesto, si è giovata della radicalizzazione politica delle giovani generazioni e del collocarsi su posizioni critiche di settori dell’intellighènzia.

Ovviamente oggi dobbiamo tener presente, oltre al modificarsi del quadro politico e sociale, per spiegare l’aumento dei morti sui luoghi di lavoro del 9% dal 2008 al 2021, anche la modificazione della composizione tecnica della forza lavoro, con la diminuzione del peso numerico della forza lavoro impegnata nell’industria in senso lato e la crescita del lavoro nei servizi. Basta pensare, a questo proposito ai morti per covid fra i lavoratori della sanità e di quelli per incidenti fra quelli impegnati nel trasporto delle merci dai camionisti ai ciclofattorini senza dimenticare gli studenti impegnati nell’alternanza scuola lavoro.

Proprio le recenti morti di due studenti hanno determinato una mobilitazione importante, anche se l’irrompere della guerra in Ucraina ha inevitabilmente spostato l’attenzione, una mobilitazione che ha visto scendere in campo una giovane generazione che ha vissuto una rapida radicalizzazione politica forse anche perchè si tratta di un universo umano e sociale non piegato dal disciplinamento alla produzione determinato dagli attuali rapporti fra le classi e che ha avuto delle ricadute interessanti anche fra gruppi di lavoratori e lavoratrici della scuola.[1]

In, provvisoria, conclusione. Sulle morti sul lavoro oggi assistiamo, per un verso, a ripetute ed ineffettuali campagne giornalistiche soprattutto su “casi umani” e a dichiarazioni scontate ed altrettanto ineffettuali del ceto politico, oltre che alla richiesta di un maggior controllo sulle imprese da parte dell’apparato dello stato di cui si denuncia l’inadeguatezza e, in molti casi, la connivenza con le aziende.

Lasciamo da parte la “buona fede” di chi denuncia la situazione che poco conta, è evidente che solo una ripresa di iniziativa sul terreno di classe può modificare radicalmente la situazione e che, a questa ripresa, un’attività puntuale di denuncia di quanto quotidianamente avviene può dare un contributo da non sottovalutare.

Cosimo Scarinzi

NOTE

[1] Riporto, a questo proposito, parte di un volantino di solidarietà de “Il gruppo di docenti IIS “G. Natta” in lotta per una scuola libertaria: La mobilitazione in corso da parte degli studenti non si limita alla denuncia del PCTO e all’indignazione per i due incidenti mortali che hanno coinvolto ragazzi in stage lavorativo. Questo tema dovrebbe toccarci tutti per la più generale necessità di una lotta contro l’elevato numero di morti sul lavoro in Italia: vite sacrificate in nome del profitto. Le studentesse e gli studenti però ci stanno anche dicendo, pur con tutti i limiti comunicativi di chi ha trascorso quasi due anni di scuola in DAD e in regime d’eccezione, che è urgente aprire uno spazio di discussione autonomo riguardo alla scuola. Per chi, tra noi docenti, ha la voglia e la capacità di interrogarsi, la ricerca di protagonismo da parte del soggetto studentesco rivela implicitamente molte più cose di quanto le pratiche confuse e acerbe della mobilitazione in corso comunichino apertamente. ‘Noi esistiamo, noi siamo qui e vorremmo dire la nostra riguardo al malessere in cui siamo precipitati’: questo pare essere il loro messaggio. Di fronte a una tale sollecitazione è necessaria una scelta: vogliamo provare a metterci in discussione o vogliamo continuare a difendere l’esistente come se fosse il migliore dei mondi possibili? Insomma, noi insegnanti da che parte stiamo? Vogliamo continuare ad assecondare il processo in corso di smantellamento della scuola pubblica cominciato ben prima della pandemia – o vogliamo alzare la testa? Dobbiamo restituire senso al ‘fare scuola’, che non può significare soltanto addestrare alle competenze utili per il mondo del lavoro. Crediamo nella scuola come motore di emancipazione, crediamo nel valore della cultura come arma nelle mani dei deboli per opporsi ai potenti. Riteniamo sia necessario contrapporre alla sciatta retorica della resilienza la pratica attiva della resistenza. Torniamo a parlarci tra noi, a confrontarci, a discutere e poi mobilitarci in vista di un obiettivo comune: salvare la scuola dalla deriva aziendalista che svuota di senso il nostro mestiere. Riconquistiamo spazi di democrazia e libertà dentro l’istituzione scolastica… Se guardiamo alle prospettive pedagogiche, i nostri compiti hanno mutato natura: da educative le nostre attività si sono spesso trasformate in pratiche burocratico-compilative. È giunto il tempo di salvare la scuola!

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