Lo scorso dicembre il regime del partito Baath in Siria è caduto. Bashar al Assad è scappato a Mosca con un volo militare russo. Sono state aperte le porte delle carceri, sono state abbattute le statue e sfregiati i ritratti del dittatore. Dopo 13 anni di guerra, di bombardamenti sulle città, massacri, deportazioni, per la Siria si chiude una fase della storia.
Da anni i media dipingono la Siria come un groviglio inestricabile di scontri geopolitici, settarismi, infinite sigle, nomi, fazioni. Una scacchiera in cui le varie potenze globali e regionali hanno condotto politiche di guerra su più livelli. Ma non c’è stato solo questo. Tra il 2010 e il 2011 in un periodo di crisi e grandi movimenti che hanno attraversato da sponda a sponda il Mediterraneo e altre parti del mondo, molti regimi nati alla fine dell’epoca coloniale tra il Nord Africa e il Medio Oriente vengono scossi da grandi movimenti di protesta che in alcuni casi hanno uno sbocco insurrezionale. Sono movimenti originati dalle profonde diseguaglianze sociali e in particolare dalla condizione di oppressione, disoccupazione e miseria delle generazioni più giovani. In Tunisia, Libia ed Egitto cadono i regimi. In Siria lo scontro tra il governo e il movimento di opposizione presto si trasferisce sul piano militare e si trasforma in una guerra civile. Come già successo in Libia, l’intervento di altri stati, e in particolare di potenze globali e regionali, è decisivo per consolidare la capacità militare delle fazioni e quindi per la cronicizzazione del conflitto.
Come in Tunisia ed Egitto, anche in Siria nel 2011 si aprirono nuovi spazi fino a prima inimmaginabili per il movimento anarchico come per altre tendenze rivoluzionarie. Particolarmente noto in Siria è stato il contributo dell’anarchico Omar Aziz, rientrato nel paese con l’inizio delle proteste fu impegnato in prima persona nelle attività di mutuo aiuto, avanzò la proposta della creazione di consigli come forma di autogestione delle comunità al di fuori del controllo dello stato, mettendo in pratica in alcune località questo progetto. Arrestato dalle forze del regime il 20 ottobre del 2012 morì il 16 febbraio in carcere all’età di 63 anni. Così le possibilità di trasformazione politica e sociale dal basso si sono presto chiuse strette da una parte dalla violenza del regime dall’altra dal crescente ruolo di formazioni islamiste che intendono imporre nuove forme autoritarie di governo.
Al contempo, nel Nord Est del paese, in quell’area che i curdi chiamano Rojava, il Kurdistan occidentale in territorio siriano, le milizie YPG/YPJ (Unità di Protezione del Popolo/delle Donne) del PYD (Partito dell’Unione Democratica, parte del KCK, di cui fa parte anche il PKK) il 19 luglio 2012 avevano assunto il controllo militare prima della città di Kobanê e poi delle aree nella regione da cui le truppe governative si andavano ritirando. Nel vuoto di potere lasciato dal regime si avviava un processo politico di autogoverno, basato sul paradigma del confederalismo democratico. La costruzione di comuni, consigli, assemblee nascevano su impulso del movimento-ombrello TEV-DEM. Questo processo di autogoverno tra 2014 e 2016 raggiunse probabilmente la sua più avanzata sperimentazione, tanto che di fronte al rischio di contagio delle idee rivoluzionarie nella vicina Turchia, Ankara adottò una politica di guerra sia verso l’interno sia verso l’esterno, anche con il supporto allo Stato Islamico e ad altre formazioni. Così assunse sempre maggiore centralità il piano militare con la creazione di SDF e la presa di Raqqa. Ma lunghi anni di guerra non possono che far fare passi indietro al protagonismo popolare. E un sintomo di questo in parte è rappresentato dalla progressiva strutturazione di una amministrazione. Certo sono ancora vive e dinamiche le strutture di base, le comuni, le cooperative. Ma oggi, almeno qua in Italia, quando si parla delle comuni e delle cooperative in Siria, si parla di come difendere queste esperienze, non di come possano servire a sviluppare un processo rivoluzionario.
Quali sono ora le prospettive per la Siria? L’orizzonte sembra molto cupo. Il regime di Assad non è caduto ad opera dei rivoluzionari. Sono state le truppe del governo autoritario religioso islamista di Idlib, HTS [vedi UN n. 38 dell’1/12/24] a far cadere il regime e a costituire un governo provvisorio insieme ad elementi del precedente governo. Se da una parte il governo provvisorio afferma di voler rispettare la pluralità culturale del paese, dall’altra singoli membri del gabinetto espongono posizioni biecamente conservatrici. In questo contesto l’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord Est della Siria (DAANES) che governa il Rojava sta tentando attraverso colloqui con il governo provvisorio di essere inclusa nel processo di costruzione del nuovo stato siriano mantenendo la propria autonomia. Nella stessa prospettiva ha aperto un dialogo con il KRG, lo stato autonomo curdo nel nord dell’Iraq. Ma la DAANES è al contempo sotto diretto attacco della Turchia e delle milizie sostenute da Ankara. Va considerato che il ruolo delle potenze imperialiste nel paese non è stato ridimensionato dal nuovo governo. Solo la Russia è in difficoltà anche se mantiene ancora le proprie basi e ha avviato rapporti formali con le nuove autorità di Damasco. Gli USA che hanno varie basi nel paese hanno schierato un contingente proprio a Kobanê, ponendo ancora una volta sotto pesante ipoteca la sicurezza della popolazione della città e in generale del Rojava.
In questa complessa situazione, appare chiaro che la finestra per un processo rivoluzionario in Siria si è chiusa, probabilmente da un pezzo. Questo non toglie che vi siano esperienze e posizioni di carattere rivoluzionario e che sia importante sostenerle, ma la costituzione di un governo provvisorio fatto di vecchi e nuovi elementi reazionari e la situazione del paese dopo tredici anni di guerra, non sembrano lasciare alcuno spazio, almeno per il momento.
D.A.
immagine: Jin Jiyan Azadi by Btoy, Schwendergasse,Vienna