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Questa propaganda non è propaganda. Non solo in tempo di guerra.

Questa propaganda non è propaganda. Non solo in tempo di guerra.

“La condotta della guerra si fonda sempre sull’inganno” (Sun Tzu)

In tempi normali il sistema mediatico di un paese come l’Italia soffre di tutti i mali che affliggono i mezzi di comunicazione di massa in un mondo che è diventato simile ma non uguale al “villaggio globale” descritto da Marshall McLuhan [1] in anni nei quali Internet poteva essere un soggetto buono per un romanzo di fantascienza.

I problemi del sistema sono da tempo gli stessi, tra i più importanti ricordiamo: la concentrazione del controllo dei mezzi di comunicazione in poche mani; gli stretti legami di chi detiene questo controllo con il potere politico ed economico dominante spesso tramite rapporti di subordinazione; la difficoltà di creare e gestire mezzi di comunicazione realmente indipendenti. Non a caso l’Italia occupa, nell’annuale classifica sulla libertà di stampa, un posto alquanto basso [2] e non è la prima volta.

Informare ed educare

Se i mezzi di comunicazione avessero esclusivamente la funzione di diffondere notizie, di raccontare quello che accade sotto casa o dall’altra parte del mondo i danni che potrebbero produrre sarebbero minimi. Il guaio è che alla funzione “informativa” se ne aggiunge una seconda che si potrebbe definire “educativa”, non è infatti un segreto che i mass media hanno un ruolo importante quando si tratta di influenzare la famigerata “opinione pubblica”.

Questa missione viene portata avanti sia in modo esplicito e trasparente che in modo più opaco attraverso tecniche di comunicazione che sono molto simili se non proprio le stesse di quelle adoperate per pubblicizzare la vendita di merci e servizi. Molto spesso le due funzioni sono presenti nello stesso messaggio in modo quasi indistinguibile.

In altre parole i mezzi di comunicazione non ci raccontano solo fatti che ci potrebbero interessare ma ci dicono dove andare in vacanza, come vestirci, cosa mangiare, che libri leggere, che film o che serie televisiva guardare, che musica ascoltare, come rapportarci alle altre persone, come giudicare un particolare avvenimento e via dicendo. Ci dicono cosa dobbiamo pensare, in che modo vivere e ci spiegano spesso anche perché dobbiamo pensare e vivere proprio in quel modo.

Nessuna persona può onestamente affermare di essere completamente immune dall’influenza delle indicazioni che arrivano attraverso la comunicazione, a meno di non vivere senza alcun contatto con la civiltà. Ovviamente ci sono persone che subiscono in modo maggiore o minore questa influenza ma chiunque (compreso chi sta scrivendo) agisce in base alle informazioni con le quali è venuto a contatto.

Nel migliore dei mondi possibili le diversità esistenti all’interno del panorama dei mezzi di comunicazione dovrebbero attenuare, almeno in teoria, i danni provocati se le informazioni provenissero esclusivamente da una unica fonte.

Nel mondo reale possiamo leggere la pagina di un quotidiano, poi quella di un altro, poi guardare un telegiornale, dare un’occhiata a un blog, a una trasmissione televisiva o su una piattaforma di streaming, senza necessariamente renderci conto che tutti questi mezzi sono di proprietà dello stesso gruppo economico.

Nel migliore dei mondi possibili ci viene raccontato che esistono enormi differenze tra il sistema mediatico esistente nei paesi retti da democrazie parlamentari rispetto a quello dei paesi governati da regimi dittatoriali.

Nel mondo reale nei paesi retti da governi autoritari i problemi elencati in precedenza sono semplicemente più gravi: il controllo dei media è concentrato in meno mani; la subordinazione al potere politico ed economico è maggiore; il tentativo di fare una informazione indipendente può costare anche la vita.

Resta comunque la fondamentale differenza, non certo da poco, che in un sistema democratico è possibile (ma non facile) imparare a conoscere e riconoscere la validità delle fonti di informazioni esistenti, a cercarne di alternative, a distinguere tra la funzione “informativa” e quella “educativa”, a provare a costruire strumenti di comunicazione e informazione indipendenti.

Momenti particolari

Ci sono però momenti nei quali la tanto pubblicizzata diversità di posizioni esistenti all’interno di un sistema democratico diventa molto più difficile da distinguere. In occasione di determinati avvenimenti la varietà dei punti di vista scompare lasciando il campo alla completa omologazione a posizioni che, di solito, sono quelle indicate dai governi in carica.

Una guerra è la più evidente dimostrazione di come l’intero sistema della comunicazione sia in grado di appiattirsi immediatamente e completamente sulla linea dettata da chi detiene il potere. Le eccezioni, quando esistenti, si riducono a voci che hanno una diffusione, un impatto, una influenza minima sull’opinione pubblica.

Ne avevamo già avuto ampia dimostrazione con i due anni di emergenza pandemica, quando i mezzi di informazione diffondevano quasi esclusivamente notizie ufficiali legate a quello che stava accadendo e chiunque si sarà accorto di come l’informazione è passata, da un giorno all’altro, dalla “guerra al virus” alla “guerra-guerra”. E l’enorme quantità di spazio riservata alla pandemia è stata sostituita con quella dedicata alla guerra.

Una volta che sia scoppiato un conflitto armato e che il Governo abbia scelto da che parte stare il sistema dei mass-media si adegua e inizia a riempirsi di quella che è principalmente propaganda. Come accade nelle campagne pubblicitarie la comunicazione adotta una serie di meccanismi ripetitivi e facilmente individuabili per chi riesca a non farsi travolgere dal flusso di informazioni che, in casi del genere, diventa impossibile da evitare.

Le notizie che vengono diffuse hanno più lo scopo di pubblicizzare le posizioni ufficiali piuttosto che la veridicità dei fatti raccontati, che in caso di guerra è sempre fonte di legittimi dubbi. Avvenimenti improbabili, non confermati da fonti terze, vengono messi accanto a storie molto più credibili assumendo grazie a questo trucco maggiore veridicità. Ma il postulato principale è molto semplice e facilmente verificabile: le notizie che provengono dal campo amico vengono considerate – sempre e comunque – vere o comunque più attendibili rispetto a quelle che arrivano da quello nemico.

Nonostante tutti ricordino sempre di citare la nota frase: “la prima vittima di una guerra è l’informazione” nessuno poi ne trae le logiche conseguenze.

Se in tempi di pace le notizie hanno anche la funzione di “educare” le persone a vivere sotto il sistema capitalistico e statale, in tempi di guerra la funzione principale diventa quella di compattare l’opinione pubblica intorno alle posizioni espresse da chi governa. E quindi di “educare” le persone a vivere in tempi di guerra.

A questa funzione danno un notevole apporto, come accade in ogni campagna pubblicitaria che si rispetti, quelli che in pubblicità vengono chiamati “testimonial” e che oggi potrebbero essere definiti “influencer”. Personaggi già famosi o che lo diventano in una particolare situazione [3], persone che esprimono ogni giorno e anche più volte al giorno la loro posizione di totale sottomissione alle decisioni governative specializzandosi soprattutto in attacchi diretti a chi – singoli o gruppi – dissentono per qualche motivo dalle scelte operate da chi comanda. Non a caso molte delle accuse e degli insulti lanciati in questi tre mesi contro i non allineati al delirio militarista sono quasi gli stessi lanciati negli ultimi due anni contro chi si opponeva al Green-pass o ai vaccini. E spesso anche gli insultatori e gli insultati sono esattamente gli stessi.

Le uniche voci fuori dal coro che vengono tollerate, a patto che recitino un ruolo di secondo piano all’interno della macchina dell’informazione ufficiale, sono un ristretto numero di “intellettuali” e alcuni personaggi talmente impresentabili [4] da far pensare che recitino un copione.

Una foto non è il fatto che riprende

Questo non significa che le informazioni diffuse in tempo di guerra siano tutte false né tantomeno che siano tutte vere ma solo che assolvono tutte principalmente una funzione “pubblicitaria”, piuttosto che “informativa”. Una informazione indirizzata a sostenere la necessità degli eserciti e degli armamenti, l’inevitabilità delle guerre, l’odio per il nemico e per la sua crudeltà, la necessità di stare dalla parte degli alleati ma – soprattutto – le decisioni di chi governa.

Qualcuno si può illudere di avere oggi più informazioni a disposizione su quello che accade per cui l’abbondanza di immagini, di filmati, di report giornalistici dal campo, di lunghe ore di analisi geopolitiche ci permetterebbe di avere più strumenti di conoscenza. In realtà la parte informativa delle notizie è oscurata, in misura minore o maggiore, se non completamente dalla componente propagandistica. Anche se in tempo di guerra tutti i mass-media allargano a dismisura lo spazio dedicato al conflitto in corso questo non significa che abbiamo più informazione, ma che abbiamo più propaganda.

Una campagna pubblicitaria che oggi, per esempio, è funzionale a sostenere la proposta di aumentare (ulteriormente!) la spesa militare mentre è ancora in corso una emergenza che ha causato già più di 160 mila morti almeno in parte sicuramente causati dall’insufficienza della spesa destinata alla sanità e alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Una campagna pubblicitaria che deve convincere la popolazione che le priorità non sono gli ospedali ma le caserme, non sono le scuole ma le armi, non sono i poveri ma gli equipaggiamenti militari.

Una propaganda che raramente ricorda che, in qualsiasi guerra, ad ammazzare sono in primo luogo gli eserciti, a morire sono sempre i più deboli, i più poveri e che la produzione di armi e la distruzione che provocano i conflitti riempiranno alla fine sempre le tasche dei più forti, dei più ricchi.

È passato poco dall’invasione dell’Ucraina ed è quindi ancora possibile recuperare le prime notizie diffuse, le smentite a quelle notizie, le loro nuove versioni, i dubbi sulle nuove versioni. Non ci vuole molto a notare che questo avviene per le informazioni provenienti da fonti amiche e nemiche, la differenza più macroscopica è che la quantità di informazioni che ci arriva dipende dal sistema nel quale siamo immersi. La quantità di notizie provenienti da fonti amiche è sempre maggiore di quella proveniente da fonti nemiche.

Anche quando, in caso di avvenimenti controversi, vengono diffuse le versioni di entrambe le parti in causa quella del nemico sono sempre presentate come meno credibili, ricorrendo alla ormai comoda etichetta delle “fake news”, in un gioco di specchi senza fine allo scopo di collocare uno dei contendenti sempre dalla parte della ragione e l’altro sempre da quella del torto.

Non potendo negare che in tempo di guerra la propaganda è una componente essenziale dell’informazione, tutti gli schieramenti si difendono ricorrendo ai più patetici e usurati artifici retorici. Per esempio viene dato per scontato che tutte le parti in causa fanno propaganda ma contemporaneamente si sostiene sempre che in campo nemico questa sia predominante [5], come se una affermazione del genere non sia essa stessa propaganda.

Proprio come nella pubblicità: la propaganda dei nemici è sempre più propaganda.

Pepsy

Nota Bene

Volutamente non si sono fatti esempi, e questo perché si poteva correre il rischio di deviare l’attenzione soprattutto o esclusivamente su quelli perdendo in questo modo di vista il tema centrale.

Riferimenti

[1] Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1967.

[2] Nel 2022 il 58mo posto su 180 paesi. Vedi https://rsf.org/fr/classement

[3] Un po’ come è accaduto con la pletora di esperti saliti alla ribalta durante la pandemia.

[4] In primo luogo la schiera dei complottisti di seconda mano che abbondano in Rete.

[5] Diamo per scontato che all’interno del sistema dell’informazione ci siano sia persone che, in buona fede, credono di compiere onestamente il proprio dovere, sia persone pagate per lavorare al servizio della disinformazione.

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