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Quando la lotta entra nel merito. Intervista agli studenti del “Tasso” occupato.

Quando la lotta entra nel merito. Intervista agli studenti del “Tasso” occupato.

(Domanda: D Risposta: R)

D1: Data la vostra esperienza diretta, come viene vissuta l’alternanza scuola-lavoro? Cosa potete raccontarci?

R1: Ci sono una serie di corsi stabiliti da preside e professori che scelgono poi a quali classi ed a quali studenti attribuirli: già questo non ha senso, perché lo studente recepisce i corsi imposti dall’alto come un obbligo. Alcuni corsi sono interessanti ma sono accessibili solo ad alcuni studenti con un certo rendimento scolastico; al contrario l’alternanza dovrebbe garantire a tutti le stesse possibilità. Altre attività, invece, non sono neanche interessanti. Ad alcuni di noi è capitato di trovarsi a lavare oggetti o a fare fotocopie, senza che nessuno ci volesse spiegare nulla del proprio lavoro.

Dobbiamo specificare che la nostra scuola da questo punto di vista è abbastanza privilegiata, in quanto scuola del centro di Roma. Il nostro caso è diverso da quello degli studenti dell’istituto tecnico perché il principio che sta dietro le nostre attività è lo stesso, ma nel loro caso lo studente rischia la vita andando in fabbrica. La gente muore sul lavoro ogni giorno, è assurdo mandarci un bambino. A tal proposito dobbiamo anche uscire dalla logica della “martirizzazione” dei tre ragazzi morti durante l’alternanza: è un tema da affrontare ma riguarda i diritti dei lavoratori e collegarlo soltanto all’alternanza sminuisce il problema. È giusto chiedere giustizia ma allo stesso tempo è sbagliato sfruttare politicamente i tre studenti che hanno perso la vita.

Tornando all’alternanza in sé, l’obiettivo non può essere gettare i ragazzi nel mondo del lavoro. Nel 2019 la classe dirigente ha fatto mea culpa ed ha cambiato la dicitura dell’alternanza in PTCO (Percorsi Trasversali per le Competenze e l’Orientamento), andrebbe allora applicata questa trasversalità per dare ai ragazzi consapevolezza del mondo del lavoro e del suo valore. Invece di mandarci nell’aula magna delle università sarebbe più giusto mandarci a contatto con situazioni reali, per esempio ad insegnare l’italiano ai migranti o alla Caritas. Nel caso degli istituti tecnici, viste le materie che si studiano, è anche giusto che facciano delle attività pratiche ma devono essere controllate e finalizzate all’immissione nel mondo del lavoro.

D2: In che condizioni sono le infrastrutture scolastiche ed il vostro edificio? È sicuro a livello di manutenzione ed è dotato di materiale e spazi per la didattica?

R2: Come nel caso della prima domanda, non possiamo lamentarci rispetto ad altre situazioni romane, ma questo è un problema! L’edificio in cui studiamo è uno dei migliori ma ha comunque molti problemi. L’anno scorso è caduta una trave, anni fa dei pezzi del tetto e nel frattempo due palestre sono state trasformate in classi per consentire alla scuola di accogliere più studenti. Quest’anno sono state aggiunte tre nuove sezioni di indirizzo musicale. Il motivo è che il preside vuole accogliere più studenti per ottenere più fondi e salire nelle classifiche delle migliori scuole. Quello che una volta era il preside ora è il “direttore scolastico” …il capo di un’azienda che gestisce secondo direttive dall’alto, una figura che deve svolgere mansioni slegate dalla didattica e ciò snatura la scuola, che di fatto non è un luogo di apprendimento ma un’azienda. Questo è il modo per creare un certo studente che ragiona in una certa maniera, un prodotto, un numero.

Tornando alle strutture, abbiamo detto che due palestre sono diventate due aule. Si fa lezione con un canestro sopra, fa freddo: rimane una palestra adattata e non un’aula. È paradossale che, a fronte dei problemi di spazio, ci sia una presidenza di decine di metri quadrati. Oltretutto la mancanza di spazi limita anche il confronto tra gli studenti, dato che ormai è rimasto solo un cortile sempre controllato. Le strutture hanno un valore, perché sono il modo più immediato per far sentire il ragazzo accolto dalla società a cui si sta affacciando e dalle istituzioni. Il ragazzo entra a scuola, un ramo dello Stato, e vuole capire se è tenuto in considerazione. Se non si investe nelle scuole e nelle case, come si può pretendere che i ragazzi mettano il bene comune prima di quello individuale o che rispettino gli spazi pubblici?

D3: Che ne pensate della definizione di merito inserita nel nome del ministero?

R3: è la sintesi politica di questo Paese: la meritocrazia, l’approccio aziendalistico, il potere del privato sul pubblico. Il merito snatura l’idea di scuola pubblica che, in quanto tale, dovrebbe essere aperta a tutti, non di chi ha il “merito” di starci. Applicare un simile concetto alla scuola implica l’idea di una scuola per i migliori, ovvero coloro che partono da condizioni migliori, e noi non vogliamo una scuola elitaria, la scuola deve essere aperta a tutti senza distinzioni. Anche nel nostro liceo, definito d’élite, c’è discriminazione: si dice che puoi venire solo se hai certe capacità. Queste cose si devono acquisire qui, non si deve “nascere imparati”. A scuola deve importare lo studio in sé, la crescita dell’individuo, così come nella società.

Sappiamo per certo che non vengono dati fondi per pagare i docenti addetti allo sportello per il recupero; lo sportello è una misura che non può andare di pari passo al concetto di merito. Caro ministro, vogliamo la scuola del merito o la scuola con lo sportello d’ascolto? O una o l’altra.

D4: La Didattica a Distanza (DaD) ha procurato danni psicologici a molti studenti. Come è andato il ritorno alla didattica in presenza? Ravvisate delle lacune?

R4: Sì, il ritorno è stato traumatico. Stando a casa è stato inevitabile diminuire lo studio, ma al ritorno in presenza i professori ci hanno visto come delle persone svogliate. Erano frustrati perché si sono accorti che l’insegnamento delle loro materie non è adeguato ai tempi ed alle nuove tecnologie. Un altro aspetto importante è quello dei danni psicologici, perché a scuola si dovrebbe creare una comunità solidale ma se ognuno sta a casa sua viene meno il confronto e l’aiuto reciproco. Quando siamo tornati nessuno ha tenuto conto dei problemi nati con la DaD ed il lato psicologico non è stato neanche considerato. È stato creato un muro, un distacco tra l’interesse per lo studio e i ragazzi che sono stati invece colpevolizzati, lasciati soli a partire dalla pandemia, quando l’opinione pubblica ha trovato nei giovani il capro espiatorio, quelli che volevano vivere e divertirsi, gli untori che facevano morire gli anziani.

Abbiamo la sensazione di un’occasione sprecata, perché da cesure drammatiche può nascere il cambiamento, ma la risposta è stata conservatrice ed autoritaria. Lo scollamento tra docenti e ragazzi ha evidenziato problemi preesistenti (le ore di didattica, il pensiero critico, i programmi) e la nostra scuola è tornata indietro rispetto a com’era quando siamo entrati prima del covid: gli spazi sono stati ridotti ed il vivere la scuola è stato limitato.

D5: Cosa ne pensate della scuola quadriennale?

R5: La prima impressione è quella di un’imitazione a metà di quello che accade all’estero, dato che si guarda solo alla punta dell’iceberg senza considerare che si tratta di sistema scolastici del tutto diversi. Non vogliamo una scuola nozionistica, “a crocette”, ma un sistema in cui sviluppare il pensiero critico. Riflettendo sulla scuola quadriennale, sembra ancora una volta collegata all’idea di gettare lo studente nel mondo del lavoro senza che abbia una formazione completa delle proprie conoscenze, che in realtà non ha nemmeno a 18-19 anni. Si tratta di un qualcosa che è in continuità con le riforme scolastiche del passato, a partire dalla Gelmini fino alla “buona scuola” di Renzi.

D6: Come vi ponete, come studenti, rispetto alle differenze di classe, genere, etnia e fede religiosa presenti nelle scuole?

R6: Nella nostra scuola, per quanto siamo accoglienti ed aperti, non c’è tutta questa differenza etnico- religiosa. Il fatto stesso che al centro di Roma sia questa la realtà è un problema. Quello che possiamo dire è che siamo più aperti dei “grandi” ed è un bene, perché in futuro ci saremo noi e saremo pronti. Per il resto abbiamo cercato di affrontare la questione dei bagni binari che possono creare disagio e dell’educazione sessuale per la distribuzione di profilattici. Servirebbero delle iniziative di questo tipo e sarebbero importanti per tutti, anche per i professori che sono i primi a non essere preparati.

Ci ha molto impressionato quello che è successo in Iran, dove delle giovani sono state uccise perché si levavano il velo, cosa che per noi sarebbe scontata. Il fatto che tutto ciò non sia stato riportato abbastanza nelle scuole è grave: le notizie sono circolate anche nell’ambiente studentesco ma servirebbe più attenzione e partecipazione.

A cura del Gruppo Mikhail Bakunin Fai Roma & Lazio

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