La Storia può essere utile al Movimento?

304La Storia può essere utile al Movimento? Sono convinto di sì. La conoscenza del passato non difende dagli errori del tempo presente, ma fa capire i problemi affrontati da compagni/e in contesti diversi. In ogni caso, si ritrovano similitudini e coincidenze sorprendenti. Ad esempio: la Spagna del 1936, con le collettività autogestite e la liberazione (lenta, ma reale) delle donne, e soprattutto con la incombente guerra devastante, ci riporta a questioni che si ritrovano, mutatis mutandis, nel Rojava. Ovviamente con molti dati e aspetti diversi e lontani. Ma qualcosa di vicino c’è.
Così anche il lavoro dei compagni Mauro De Agostini e Franco Schirone ci rinvia a temi non troppo diversi da quelli con cui si sono fatti i conti in questi decenni di movimento, pur nelle tendenze più diverse.
Il libro è scritto da due studiosi di storia (non accademici) ed esperti di tematiche libertarie. Entrambi hanno pubblicato varie ricerche sull’anarcosindacalismo e sulla storia del quotidiano “Umanità Nova”, oltre ad aver collaborato con il fondamentale lavoro collettivo, Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani (Pisa, BFS, 2003-2004).
In queste pagine si considera la lotta antifascista del primo dopoguerra quale fase essenziale per capire le vicende della Resistenza libertaria, sia a livello nazionale sia milanese. E si ricorda che il forte movimento anarchico e anarcosindacalista del biennio rosso (1919-20) venne falcidiato e quasi disperso da alcuni eventi cruciali, tra cui la repressione dello Stato fascista e il difficile esilio concluso con la sconfitta nella Guerra di Spagna. In più, l’anarchismo fu indebolito dalla forza mitica del socialismo reale che, per decenni, assorbì quella parte della militanza più incantata dalle realizzazioni concrete di una rivoluzione finalmente vincente. La stessa natura, ovviamente rivoluzionaria, del movimento libertario aveva fatto considerare la rottura del sistema capitalista come un obbiettivo di primaria importanza. Molti ritennero, malgrado le notizie provenienti nel 1921 da Kronstadt, dove il bolscevismo (in questo caso trotzkista) aveva represso nel sangue la rivolta libertaria dei marinai. Nemmeno la successiva eliminazione dell’esperienza machnovista in Ucraina riuscì a far aprire gli occhi a molti anarchici che, come aveva scritto Malatesta, avevano visto la realtà sovietica con gli occhi offuscati dall’amore e dall’esaltazione.
Questo lavoro parte da ricerche in parte non pubblicate, come la tesi di Rossella Di Leo, (la cofondatrice del Centro Studi Libertari di Milano e dell’Archivio Pinelli oltre che redattrice tenace delle Edizioni Elèuthera), dal materiale del notevole Fondo Ugo Fedeli ad Amsterdam (ordinato anni fa da Antonio Senta), da conversazioni con qualche compagno partigiano sopravvissuto. Inoltre è stata utilizzata una ricca bibliografia e si è voluto realizzare un continuo confronto tra fonti che di frequente sono risultate diverse e imprecise. Il risultato è un ritratto molto convincente delle vicende, e dei problemi, del partigianato di simpatie antiautoritarie.
Varie pagine centrali sono dedicate a un fatto storico assai rilevante, al centro di sostanziose ricerche di Giorgio Sacchetti, che ha scritto la Prefazione di questo volume: dopo il 25 luglio 1943, gli anarchici non vengono liberati da Ventotene, bensì trasferiti, insieme ai confinati di lingua slava, nel campo di Renicci d’Anghiari,. Molti riescono a fuggire poco prima dell’arrivo dei tedeschi e cercano di tornare nelle proprie città. I milanesi, tra cui Pietro Bruzzi reduce dalla Spagna, partecipano subito alle manifestazioni affollate e improvvisate da antifascisti di varia provenienza politica. Devono poco dopo fare i conti con l’inganno del generale Vittorio Ruggero, responsabile italiano della città di Milano. L’8 settembre costui garantisce che le truppe tedesche saranno controllate da parte dell’esercito italiano ed è quindi contrario a dare le armi ai partigiani. Finisce con accettare il comando nazista, anzi vi collabora senza ritegno.
La lotta anarchica a Milano e dintorni si realizza comunque appena dopo l’ottobre del 1944, in seguito all’arrivo di “una folta schiera giovanile”. Così afferma nel suo memoriale Germinal Concordia, un protagonista della Resistenza milanese, talora al centro di accese polemiche. Come sottolineano De Agostini e Schirone, si tratta di una testimonianza redatta nel 1975 e che contiene non poche approssimazioni, ma poiché non si dispone di molte fonti dirette dei protagonisti, essa resta uno dei principali documenti esaminati.
I militanti libertari milanesi devono subito affrontare le conseguenze di una rottura interna che perdura fino (e oltre) il 25 aprile 1945. Il confronto è così presentato dagli autori: da un lato i pragmatici, “disposti a larghe intese con le altre forze proletarie” e dall’altro gli intransigenti, “avversari di ogni compromesso e accordo con forze non anarchiche”. La personale ricostruzione di Concordia, che si schiera senza dubbio tra i pragmatici, rievoca un fatto scontato, ma assai problematico: la totalità dei giovani, anche entusiasti, si era formata sotto il fascismo e non aveva avuto quindi il tempo e le occasioni di formarsi una visione politica e ideale coerentemente antifascista. Da un punto di vista molto diverso, quello della Federazione Milanese del PCI, si ha la conferma che “nella nostra organizzazione si sono infiltrati elementi che si ritengono comunisti ma che di fatto sono degli anarcoidi più che dei sinistri”.
Tra i giovani simpatizzanti vi è anche chi coglie la circostanza favorevole per conoscere i pochi anarchici milanesi sopravvissuti al fascismo: Giuseppe Pinelli, staffetta della formazione “Franco”, entra in contatto, secondo Corrado Stajano, con “un tal Rossini, fruttivendolo (…) simbolo dell’anarchia generosa, del pacifismo e della solidarietà umana”, che lo introduce alla teoria e alla pratica antiautoritarie. L’affermazione è confermata da Licia Rognoni Pinelli, la vedova del compagno ucciso il 15 dicembre nella questura meneghina, che dichiara a Piero Scaramucci: Pino “anarchico lo è sempre stato, in pratica dalla Resistenza” come si legge in Una storia quasi soltanto mia, (Feltrinelli, 2009, p. 30) un bel libro redatto a quattro mani.
A Milano, nel 1943-45, non c’è solo la lotta armata con i suoi metodi necessariamente violenti. Nelle fabbriche, soprattutto in quelle di dimensioni ridotte ma pure alla Carlo Erba, si riscontra un’attività libertaria singolare per un contesto bellico. Gaetano Gervasio ne è consapevole e ricorda che, nel suo gruppo operaio, “non volevamo essere ‘non uomini’” e che essi miravano all’azione come “non violenti, anche se questo era una pazzia”. Perciò si dedicavano alla distribuzione capillare di volantini e delle poche voci periodiche clandestine. La rilevante partecipazione agli scioperi del marzo 1944 dà a questo nucleo di attivisti una generale stima che si rivelerà anche nelle elezioni a delegati della CGIL nel dopoguerra.
Le formazioni “Bruzzi-Malatesta”, così denominate dopo la fucilazione di Pietro Bruzzi, soffrono di gravi e urgenti problemi organizzativi, tra cui l’essenziale rifornimento di armi. Talvolta vi provvedono con “colpi di mano sulle fabbriche di armi e sulle caserme isolate”. La necessità di alleanze le porta, nel corso del 1944, a contattare sia il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) sia un’organizzazione socialista dissidente che ruota attorno a Lelio Basso e che critica l’interclassismo del CLNAI. Qui dominano esponenti di partiti moderati e molto lontani da ogni prospettiva di classe. Verso la fine dell’anno, precisano gli autori, si concretizza l’ingresso delle “Bruzzi-Malatesta” nelle Brigate “Matteotti” con la motivazione, sempre secondo il noto memoriale, della loro “mentalità aliena dai settarismi”. E’ evidente che Concordia è tra i promotori di questa scelta militare e politica.
Un altro tema molto delicato, e oggetto di aspro scontro tra compagni, riguarda l’intavolazione di trattative con alcuni capi fascisti milanesi avviata da Germinal Concordia, che si presenta come dirigente di una “colonna mista”, e da Corrado Bonfantini, comandante ufficiale delle socialiste “Matteotti”. Tutto inizierebbe dall’espediente di Concordia, arrestato nell’estate del 1944, per sfuggire alla repressione attraverso un possibile accordo con i vertici lombardi della Repubblica Sociale Italiana (RSI), uno Stato fantoccio retto e guidato dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Ormai i dirigenti della RSI sarebbero interessati e disponibili in quanto ritengono persa la guerra. Gli scopi della spregiudicata manovra sono molteplici e tra questi si profila un’altamente improbabile intesa per formare un “governo repubblicano di tinta socialista”, progetto che poggia sulle formali dichiarazioni “socializzanti” della Repubblica di Salò. Ma esso ben presto svanisce. In fin dei conti, sostiene Concordia, si sta imitando la linea delle “Matteotti” che avrebbero dato l’ordine di “far entrare nelle file della Pubblica Sicurezza elementi fidati”. Infiltrare propri aderenti tra le forze fasciste potrebbe (secondo lui) procurare preziose informazioni, liberare dei partigiani prigionieri e acquisire armi sottraendole alle caserme fasciste.
La linea di sostanziale collaborazionismo opportunista viene criticata duramente dalla componente intransigente degli anarchici milanesi, ma sembra che si concretizzi in qualche modo. A quanto pare i pragmatici, disposti alle intese coi nazifascisti, riescono a ottenere risultati positivi soprattutto al momento dell’insurrezione dell’aprile 1945 bloccando, in varie occasioni, le truppe repubblichine. Su questo aspetto controverso sarebbe opportuno riuscire a verificare meglio i dati raccogliendo più informazioni storiche, ampliando ulteriormente l’ambito delle fonti.
La dimensione delle Brigate “Bruzzi-Malatesta” è alquanto incerta anche se il 23 aprile 1945, secondo la testimonianza del socialista (e futuro deputato) Cesare Bensi, avrebbero contato, “ben 1.300 effettivi” su un totale di 9.500 uomini delle “Matteotti”. Gli autori ritengono che si tratti in realtà di stime assai ottimistiche.
Ad ogni modo, la presenza libertaria non è sottovalutata dal nemico nazista. Dopo l’8 settembre, il Feldmaresciallo Erwin Rommel diffonde un bando minaccioso dove si dichiara che “chi tenta di sollevare movimenti comunisti e anarchici contro la sicurezza del popolo italiano” sarà colpito dalle “leggi severissime del Tribunale militare”.
Sul terreno della rivendicazione e dell’organizzazione sindacale, sia pure clandestina, De Agostini e Schirone ricordano soprattutto l’intensa e fruttuosa attività di ripresa del Sindacato Ferrovieri, il cui leader è l’anarchico Augusto Castrucci. Questi scrive al nuovo Capo del governo, Pietro Badoglio (appena nominato dal Re dopo la defenestrazione di Benito Mussolini del 25 luglio), per richiedere con energia un atto di giustizia verso i 45.000 ferrovieri licenziati ed esonerati dal fascismo, già nei primi anni Venti. Anche attraverso il foglio “Il Ferroviere” si precisa, nel febbraio 1945, che il sindacato dovrà essere autonomo da ogni partito e si elabora un programma particolareggiato da attuare subito dopo la fine della guerra.
Tra i temi trattati nella parte finale del libro, si dedica adeguata attenzione al dibattito dell’immediato dopoguerra tra la nuova Federazione Comunista Libertaria (FCL), presente non solo a Milano, e la ricostituzione di una sigla e di un’organizzazione più caratterizzata e specifica come la Federazione Anarchica Italiana, nata nel Congresso di Carrara del settembre 1945. Alla FCL aderiscono un numero considerevole di giovani neoanarchici che fanno i conti col quasi monopolio della rappresentanza della classe lavoratrice da parte del potente PCI e cercano, invano, spazi che siano comunisti e libertari. La FCL si scioglierà nel giro di pochi anni, dopo essersi a sua volta divisa in varie tendenze che confluiranno, in parte, nelle file socialdemocratiche di Giuseppe Saragat mentre altre componenti e individualità abbandoneranno ogni attività politica.
Claudio Venza

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