Search

La fine del baco da seta

La fine del baco da seta

La chiamano “Via della Seta” ma in realtà di seta su quei percorsi ce n’è sempre passata poca. I latini ricchi (la seta era uno status symbol all’epoca), quando non erano in guerra con i parti, la compravano a Samarcanda, mica in Cina. L’imperatore Giustiniano fece rubare da alcuni monaci (e ti pareva che i preti non rubavano qualcosa) le uova di baco da seta e da allora la produzione in occidente è stata un esclusiva prima di Bisanzio, poi dei comuni italiani.

Anche il nome “Via della Seta” è relativamente recente. Uno si aspetta che risalga ai latini o, per lo meno, a Marco Polo e invece se lo è inventato alla fine dell’800 un geografo della nobiltà tedesca, Ferdinand Von Richtofen, che voleva convincere il Kaiser a costruire una ferrovia dalla colonia tedesca di Qingado alla Germania passando per i bacini di carbone di Tsinan.

Per questo motivo il nome non aveva mai avuto molto successo in Cina. Più che un percorso per le merci, visto che era frutto di un’invasione pretestuosa (i prussiani avevano conquistato la provincia per vendicare l’uccisione di alcuni preti, poi pare che uno lo fa apposta ad essere anticlericale), gli ricordava la fine che fanno i bachi da seta, uccisi con acqua bollente prima che la crisalide divenga una farfalla e rompa il prezioso bozzolo, fatto di un unico filo di seta che poi viene tessuto.

Il fatto che, nel 2013, l’abbia tirata fuori Xi Jingping per dare un nome evocativo alla nuova strategia imperialista cinese dà anche la misura dei suoi intendimenti nei confronti dei paese interessati.

La “Via della Seta” di oggi (chiamata, in inglese, “Belt and Road Initiative”) è un progetto fatto di varie vie marittime e terrestri per collegare le fabbriche cinesi ed i mercati su cui vendere i prodotti. Si vuole aumentare l’integrazione commerciale della Cina con gli altri paesi asiatici e con l’Unione Europea. Le mappe che girano con i percorsi sono indicative, perché soggette a negoziazioni politiche ancora in corso con i vari stati.

Il progetto ha anche riflessi di politica interna per la Cina, visto che tre dei corridoi terrestri previsti, uno verso il Pakistan, uno verso il nord Europa attraverso la Russia, l’altro verso il sud Europa attraverso i paesi turcofoni (gli “Stan”), l’Iran e la Turchia, hanno il loro snodo nello Xingjiang, provincia sottosviluppata, abitata da uiguri, popolazione turcofona e musulmana (ma attualmente colonizzata dagli han della costa che stanno diventando la maggioranza dei residenti) e storicamente ribelle. C’è un altro corridoio terrestre verso sud (Laos, Birmania, Thailandia, Malesia e Bangla Desh) che serve ad aumentare a livello regionale, insieme ai finanziamenti, l’influenza di Pechino nei confronti di stati spesso utilizzati dagli USA in funzione anticinese.

Le vie marittime erano originariamente previste attraverso l’Oceano Indiano ed il canale di Suez, con il progetto di costruzione di un canale che tagliasse l’istmo di Kra, in Malesia e consentisse il superamento dello stretto di Malacca (attraverso cui transita l’80% del petrolio destinato alla Cina), che potrebbe essere facilmente bloccato in caso di guerra (fredda, calda o commerciale che sia).

Dal 2018, per fare soldi anche con il riscaldamento globale, sono state ipotizzate due vie artiche a Nord Ovest (sopra la Russia) per arrivare in Europa ed a Nord Est (sopra il Canada) per evitare il canale di Panama.

Per sostenere questo progetto la Cina ha creato la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) con 57 membri fondatori (c’è anche l’Italia) ed un capitale di 100 miliardi di dollari, che attualmente conta 80 membri con altri 20 in attesa. In prospettiva servirà a finanziare progetti per un controvalore di 1.000 miliardi di dollari. Di fatto è diventata la risposta cinese al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale che sono controllate dagli USA (che all’AIIB non aderiscono).

Ovviamente l’AIIB si comporta nello stesso modo del Fondo Monetario Internazionale, cioè come gli usurai della peggior specie. Presta i soldi ai paesi poveri per la realizzazione di infrastrutture, spesso mastodontiche ed inutili. Gli presta molti soldi, più di quelli che potranno ridargli e, quando non riescono più a pagare gli interessi, chiede contropartite in termini di cessione di sovranità sulle infrastrutture realizzate, su parti di territorio e sulle materie prime prodotte.

Una “trappola del debito” da manuale è stata realizzata ancora prima che fosse ufficializzato il progetto di Via della Seta. Nello Sri Lanka, proprio di fronte all’India, sua diretta concorrente sul mercato globale, la Cina ha realizzato un porto gigantesco a Hambantota, nel sud dell’isola. Peccato che, una volta finito il porto, ci abbiano attraccato solo 34 navi in un anno. Non è andata meglio con lo stadio da cricket costruito poco lontano, con una capienza superiore al numero degli abitanti nella provincia, o con l’unica autostrada al mondo più deserta della BreBeMi e con le tantissime altre infrastrutture inutili che non hanno prodotto alcun utile, ma solo debiti. Lo Sri Lanka non è riuscito più a ripagare alla Cina neanche gli interessi sul debito, arrivato a 5 miliardi di dollari. La Cina allora ha ottenuto la disponibilità per 99 anni, a Hambantota, oltre che del porto, anche di un’area di 60,7 Km² dove ha creato una città cinese. L’ambizioso progetto iniziale era di creare una specie di Hong Kong cinese, una città stato nel subcontinente indiano, ma si è temporaneamente bloccato per la totale opposizione di India e USA.

La stessa tattica è stata utilizzata anche a Gibuti (statarello del Corno d’Africa) dove ha realizzato la prima base militare cinese fuori dalla Cina. Segnalo che, sempre a Gibuti, ci sono anche basi militari di USA, Francia, Giappone e Italia (i marò “per combattere la pirateria” venivano da lì). A Gibuti sono in costruzione anche le basi militari di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

In Pakistan invece la Cina sta controllando di fatto il paese, dopo aver speso 50 miliardi di dollari per realizzare un porto a Gwandar, proprio davanti al Mar Arabico, collegato allo Xjiang cinese con una via di 3.200 chilometri su cui ci sono autostrade, ferrovie, fibre ottiche, basi militari, zone di libero scambio. La zona di Gwandar sarà gestita per 43 anni dalla China Merchants Port Holding (CMPort). Entro un paio d’anni dovrebbe diventare il più grande porto asiatico, con 13 milioni di tonnellate di merci movimentate, per arrivare, nel 2030, a 400 milioni di tonnellate. Il petrolio cinese arriverà lì senza passare per lo stretto di Malacca, verrà raffinato in loco e verrà inviato in Cina. Il Pakistan ha schierato lì 14.000 militari per controllare l’area e reprimere i ribelli del Belucistan che lottano per una maggiore tutela delle popolazioni locali, espropriate ed impoverite dai cinesi e dai punjabi, che gestiscono il potere nel governo pachistano.

Ci sono anche altri paesi che stanno per cadere nella trappola del debito (Mongolia, Laos, Maldive, Kirghizistan, Tagikistan e Montenegro) cui, progressivamente, la Cina sta prendendo risorse ed infrastrutture.

Nei rapporti con i vari stati la Cina non ha problemi a parlare con qualsiasi interlocutore governativo in quel momento al potere (mentre gli USA vogliono, per scelta o imposti con la forza, governi “amici”). Utilizzano le tangenti, date a tutti i livelli, per agevolare la realizzazione dei propri progetti. Nelle pizzerie di San Lorenzo dicono che sia per questo motivo che, in Italia, tanti politici di tutti gli schieramenti siano diventati filocinesi accalorati e mi sa che hanno ragione.

Oltre al guadagno finanziario sugli interessi dei prestiti, va tenuto presente che i lavori delle infrastrutture finanziate dall’AIIB non sono soggetti a gare d’appalto, per cui vengono assegnati a trattativa privata a compagnie cinesi, che assumono manodopera locale solo per i lavori di fatica.

L’AIIB (che è un organismo multilaterale: per quanto abbia la Cina abbia la maggioranza, è finanziato da diversi stati) non è l’unica forma attraverso cui la Cina investe propri capitali nella Via della Seta. Ci sono anche un’altra serie di finanziatori collaterali, completamente cinesi, che intervengono su singoli progetti (Silk Road Fund, China Exim Bank, China Development Bank ed altri) ed è principalmente attraverso loro (che rilevano, quando necessario, i crediti non pagati dai vari stati) che la Cina opera per acquisire le cessioni di sovranità dei debitori insolventi.

La Cina ha seguito un diverso copione in Europa: sta acquisendo soprattutto i porti. Ha creato una gigantesca compagnia del settore, la China Ocean Shipping Company (COSCO) e due anni fa gli ha fatto comprare la Orient Overseas di Hong Kong, creando la terza compagnia navale al mondo (la prima fuori dall’Europa). La COSCO si occupa, oltre che movimentazione container, anche di navi, cantieristica e gestione portuale. Solo di movimentazione merci (e ne movimenta più della COSCO) si occupa invece l’altra grande compagnia cinese, la China Merchants Port Holdings (CMPort) che gestisce i porti prima citati a Gwandar (Pakistan) ed Hambantota (Sri Lanka), a Gibuti, in Brasile ed in vari altri paesi. Queste compagnie, sfruttando linee di credito dello stato cinese a basso tasso d’interesse e fondi speciali dell’AIIB e del Silk Road Fund, hanno comprato quote, anche di maggioranza, in almeno 12 porti dell’Unione Europea (18 nel bacino del Mediterraneo). Hanno approfittato della crisi del debito sovrano per comprare il porto del Pireo alla Grecia. La COSCO controlla il movimento container dei porti di Bilbao (nei Paesi Baschi), ha il 51% del porto di Valencia (in Spagna), l’85% di quello di Zeebrugge (in Belgio) e il 20% di Anversa (Germania). Controlla il 35% del più grande porto d’Europa, quello di Rotterdam, in Olanda. In Italia la COSCO possiede il 40% del porto di Vado Ligure (il 10% ce l’ha un’altra piccola compagnia cinese la QPI). La CMPort ha preso quote in porti francesi (Marsiglia,  Nantes, Le Havre e Dunkirk) e a Malta. Attraverso queste compagnie la Cina controlla il 15% della capacità portuale europea.

In Italia la Cina è interessata al porto di Trieste, che gli faciliterebbe la movimentazione delle merci nell’Europa centrale dopo che l’Unione Europea ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Ungheria per non aver sottoposto a gara d’appalto la tratta nazionale della ferrovia (di realizzazione cinese) che doveva collegare la Grecia (cioè il porto del Pireo) all’Europa centrale.

L’obiettivo della scelta imperialista cinese è anche il controllo del commercio nel medio periodo. I sostenitori delle Vie della Seta affermano che, siccome le merci viaggiano nelle due direzioni, ci sarebbe un riequilibrio dei saldi commerciali con la Cina. È un’affermazione smentita dai fatti: nel 2018 il commercio della Cina con i paesi coinvolti nel progetto di Vie della Seta è aumentato e sono sì aumentate le esportazioni di questi paesi verso la Cina dell’11% però sono aumentate molto di più (24%) le esportazioni cinesi verso questi paesi. Oltretutto è peggiorata anche la qualità delle merci scambiate, a vantaggio della Cina. La Cina sta esportando beni tecnologici e ad alto valore aggiunto e sta importando materie prime e risorse energetiche. Dall’inizio della Via della Seta, la bilancia commerciale della Cina con i paesi non avanzati dell’Asia, che era storicamente negativa (importava materie prime ed esportava poco a causa della povertà delle popolazioni), è diventata positiva (importa più materie prime ed esporta beni e servizi per le infrastrutture collegate alla Via della Seta).

C’è molto movimento nella globalizzazione imperialista. Richiamando un datato proverbio cinese, grande è il disordine sotto il cielo, ma non pare proprio che la situazione sia eccellente.

Fricche

Articoli correlati