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Il potere della comunicazione

Il potere della comunicazione

Qualche numero fa Umanità Nova ha pubblicato una interessante riflessione di un compagno francese sulla composizione di classe delle società occidentali contemporanee[1] il quale, tra le altre cose, affrontando il problema della comunicazione delle nostre idee affermava la necessità di “una sorta di ‘marketing rivoluzionario’”. In una conversazione via mail tra me ed il compagno Santo Catanuto dell’Associazione Culturale “Pietro Gori” ci siamo trovati in buona parte concordi su una serie di riflessioni in merito e mi ha concesso l’onore di saccheggiare tranquillamente per quest’articolo gli spunti che aveva elaborato. Ovviamente, come suol dirsi, non è responsabile della mia elaborazione.

Da sempre i rapporti di potere tra le classi si sono giocati anche sul tema della comunicazione – sia in termini di messaggi organizzativi diretti, di capacità di collegamento insomma, sia in termini di diffusione delle proprie idee; le due cose sono ovviamente anche intrecciate tra di loro. Ora, ha potere di collegamento chi ha la possibilità di relazionarsi a distanza ed autonomamente senza dover chiedere permesso ad alcuno; gli stessi meccanismi poi servono anche a diffondere la propria visione del mondo, la propria morale ed acquisire consenso intorno ad essa. Proprio per questo, se lo Stato è costitutivamente il monopolio della forza, spesso e volentieri cerca anche di detenere il monopolio della comunicazione sociale.

Le classi sociali subalterne a lungo hanno dovuto accontentarsi, non esclusivamente ma quasi, solo della comunicazione orale, con tutti i suoi evidenti limiti. Tra l’altro è pressoché certo che abbiamo perduto un po’ tutte queste forme di comunicazione antagonista – discorsi pubblici e privati, proverbi, racconti, canzoni, graffiti murali, teatro improvvisato… – che, proprio perché tali, rarissimamente giungevano al registro della scrittura ed ancora più raramente sono state conservate. Per un Carmina Burana che è giunto fino a noi con i suoi contenuti sovversivi delle gerarchie politiche, culturali ed economiche del tempo,[2] dobbiamo presumere di aver perduto la quasi totalità di tutto il resto.

In ogni caso, l’oralità della comunicazione antagonista al potere non è certo venuta meno, per parafrasare Walter Benjamin,[3] nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: si pensi al ruolo forte che hanno nei recenti movimenti comizi, canzoni, grafica e slogan in primo luogo, ma anche teatro, cinema, poesia e letteratura popolare eredi tutti, in qualche modo, dei mezzi di comunicazione quasi esclusivamente orali delle generazioni precedenti l’invenzione della stampa e, soprattutto, la rivoluzione industriale.

A partire da questi ultimi due eventi storici, soprattutto dopo il secondo, i movimenti popolari “antagonisti” hanno cominciato ad utilizzare massicciamente anche le forme della scrittura riprodotta su larga scala: opuscoli, giornali, manifesti, libri spesso e volentieri vittime della censura ma che, ciononostante, riuscivano ad avere una enorme diffusione, ponendo gravi difficoltà ad un potere che non aveva mezzi di comunicazione di portata strutturalmente superiore. Quando si diffusero, la radio, il cinema e la televisione furono perciò subito apprezzati, in quanto strumenti di comunicazione e propaganda costosi e centralizzati, perciò più facili da tenere sotto stretta osservazione e censurabili, salvo rari casi per nulla utilizzabili dalle masse che ne erano pressoché esclusivamente fruitori.

Da questo punto di vista, i movimenti di contestazione degli anni sessanta/settanta sono assai interessanti. Di fronte all’impossibilità di fatto di utilizzare i nuovi strumenti di comunicazione di massa, questi hanno reinventato i vecchi e sfruttato le pieghe del sistema della comunicazione: essi devono moltissimo al ciclostile che permetteva di produrre rapidamente ed a piacere qualsiasi opuscolo o volantino, ma anche agli slogan ed al teatro di strada. Oltre a ciò, questi riuscirono a sfruttare il meccanismo del mercato culturale, facendosi target della discografia, della letteratura, del cinema – dell’industria culturale in generale, insomma. Una strategia non solo inconscia, ma talvolta anche pensata e meditata, come ha documentato di recente per il caso italiano il bel lavoro di ricerca audiovisuale sul sessantottino gruppo “Gli Uccelli” di Roma.[4]

Restando sempre nel caso italiano, si può leggere l’epopea delle “radio libere” di movimento della seconda metà degli anni settanta come un “assalto al cielo” nel senso letterale: non più influenzare dall’esterno, ma prendere in mano direttamente le nuove tecnologie dell’informazione fino ad allora gestite dal potere, cercando anche di rinnovarle e togliere ad esse il carattere di unidirezionalità dell’informazione tramite, ad esempio, l’uso della diretta telefonica aperta. La feroce repressione, prima anche manu militari come a Bologna nel 1977, poi tramite il definitivo strozzamento economico via SIAE della grande maggioranza di queste esperienze, si spiega proprio perché il potere si sentiva invaso in un ambito fino ad allora incontrastato della comunicazione.

La distruzione delle radio libere si è accompagnata alla parallela invasione “stordente” delle TV private del nuovo regime liberista craxiano-berlusconiano, che ha in qualche modo chiuso il processo. Dopo il cosiddetto “riflusso”, un bagliore di ripresa (movimento universitario de “la pantera”) si ha con l’utilizzo delle possibilità offerte dell’allora neo arrivato fax (che permetteva di inviare in tempo reale volantini, inviti assembleari, ecc.): poco ma meglio di niente nel vuoto del periodo. Poi il rintanamento nei “centri sociali”, con qualche uscita all’esterno per via “murale”.

La rete web, con i suoi gruppi di discussione, le e-mail, le mailing list ed i siti, inizialmente non cambia molto le carte in tavola: se oggi si parla di “bolle comunicative” in cui si è sostanzialmente rinchiusi nel web 2.0, tali bolle erano ancora più difficilmente permeabili in questa prima fase della rete: occorreva una bella pazienza e un bel po’ di ore davanti ad uno schermo a qualcuno che non fosse già del movimento – dunque non interessato ad iscriversi ad un gruppo di comunicazione e/o una mailing lista di militanti – a giungere di link in link ai contenuti di un sito antagonista.

Con il web 2.0 ed i “social” network si sono riaperti i giochi: dopo la dotazione hardware di massa diffusasi nel decennio precedente, i singoli e le collettività si trovano oggi in mano una possibilità di collegamento reciproco e di veicolazione delle proprie idee estremamente potente, con cui agganciare migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia ed anche milioni di persone. Certo, gli avventurieri della politica se ne sono impossessati subito anch’essi, illudendo i loro follewer di un contatto diretto coi “forti”: i Trump, i Bolsonaro, i Salvini, hanno capito l’importanza del mezzo curvandolo verso una logica gerarchica (il “capo” comunica direttamente o quasi – attraverso lo staff – con i suoi seguaci/aficionados). Ciononostante, va detto però che non riescono a monopolizzare il mezzo, che resta aperto ad usi molto più liberatori.

In molti quartieri urbani, ad esempio, sorgono gruppi di vicinato o di prossimità per il cazzeggio più vario: la cosa, a prescindere da tutto, è positiva poiché ri-unisce separatezze altrimenti disperse senza rimedio. Quando il mezzo diventa possibilità di comunicazione orizzontale all’interno della popolazione stessa (della nuova serie: “il mezzo è il contatto”) la possibilità di unire, cementare, collegare, fungere da tessuto connettivo degli individui disuniti, ha in sé le potenzialità per creare assemblee permanenti, diffuse e fluide, non circondabili da truppe armate, difficili da essere controllate.

Certo, le imprese di gestione ed erogazione dell’accesso alla rete possono sempre oscurare ed impedire i contatti tra i cittadini e mantenere la rete aperta solo alle istituzioni governative e repressive – anche se per adesso si accontentano di incrementare i “big data”, di censurare, vigilare, ecc. è oramai da un bel po’ di anni che viviamo in questa fase di passaggio tra “vigilanza” ed “imposizione”; è da tempo che si tenta di “limitare” le potenzialità della rete, tutto sommato senza grossi risultati, almeno nei paesi dove le lotte popolari hanno conquistato e più o meno mantenuto un minimo di libertà civili.

In ogni caso, questa è la situazione al momento presente. Una situazione sulla quale occorre ragionare – e soprattutto operare – con maggiore presenza e coscienza di quanto si sia fatto finora: i processi della comunicazione, pensiamo ora sia divenuto chiaro, sono uno dei momenti del conflitto tra le classi, tra i senza potere ed i dominanti. Un conflitto che va gestito con intelligenza e senza dare niente per scontato.

Enrico Voccia

NOTE

[1] BERTHIER, René, “Con Chi Costruire la Rivoluzione. La Complessità della Stratificazione Sociale”, in Umanità Nova, 3 febbraio 2019, Anno 99, n. 3, p. 2.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Carmina_Burana

[3] BENJIAMIN, Walter, L’Opera d’Arte nell’Epoca della sua Riproducibilità Tecnica, Torino, Einaudi, 2014.

[4] 1968. Gli Uccelli. Un Assalto al Cielo mai Raccontato. Un film di Silvio Montanaro e Gianni Ramacciotti. Documentario, durata 70 min. Italia 2018. Vedi https://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=98385

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