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Guerra e orizzonti energetici. Una competizione sempre più armata.

Guerra e orizzonti energetici. Una competizione sempre più armata.

Questo articolo doveva andare in stampa nel numero scorso (il 17) ma per una svista nell’archiviazione dei materiali giunti in redazione è purtroppo saltato. Nell’augurarvi buona lettura chiediamo venia tanto a voi lettori quanto all’estensore dell’articolo, il compagno Daniele Ratti.

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Il conflitto russo-ucraino sta ponendo l’accento su diverse questioni tra le quali quella energetica con le sue numerose implicazioni, da quelle economiche e quelle geopolitiche. Tutte le situazioni di crisi hanno in sé un aspetto, apparentemente contraddittorio: da un lato chiedono soluzioni urgenti per affrontare l’imprevisto, dall’altro lato offrono opportunità, aprono a futuri scenari. Vediamo quindi in questa prospettiva come e cosa sta mutando nel quadro globale.

L’emergenza è rappresenta dalla sicurezza energetica. L’Europa in generale ed in particolare l’Italia è russo-dipendente – quest’ultima con quote rispettivamente del 40% del consumo di gas e per circa un quarto delle sue importazioni di petrolio. Una contrazione significativa o sospensione delle forniture di oro blu ed oro nero non è ipotizzabile per il sistema produttivo: l’Italia, ad oggi, consuma 73,3 mld di metri cubi di gas, dunque l’interruzione del flusso russo porterebbe ad un ammanco, per il presente anno, di circa 16-18 mld di metri cubi. Lo scostamento non è immediatamente recuperabile, né tramite l’aumento di forniture da altri paesi, né tramite l’importazione di gas liquido (GNL) per la mancanza di impianti di rigassificazione. L’apporto delle rinnovabili, non risolverebbe la situazione, considerato che la realizzazione delle infrastrutture necessarie per il loro funzionamento richiederebbe comunque anni. Lo shock energetico porterebbe ad una forte rialzo dei prezzi, aumenterebbe a dismisura la spinta inflazionistica che, è bene sottolineare, era già in atto prima dell’inizio delle ostilità.

Occorre sfatare un luogo comune. Il rialzo dei prezzi, o semplicemente il carovita che sta erodendo i salari e le rendite pensionistiche ponendo in difficoltà chi ha minori risorse, non è figlia della guerra. Già in altri articoli abbiamo sottolineato come i prezzi in generale e quelli energetici in particolare sono il frutto della speculazione finanziaria, indipendentemente dall’offerta di beni. Secondo le elaborazioni del Fondo Monetario Internazionale i prezzi delle energie fossili, a livello globale, sono aumentati nel periodo 2021-2019 del 41%. La spinta al rialzo è ancora più accentuata nel periodo febbraio 2022 / febbraio 2019 dove il totale delle risorse energetiche si è implementato del 94%.

Nel concorrere al risultato globale due sono stati i settori predominanti: quello del carbone (+165%) e quello del gas (+253%). Se scomponiamo il dato per aree geografiche l’Europa, per quanto concerne il settore gas, segna un record con un +353%, dati che confermano che il rialzo dei prezzi è stato un fenomeno antecedente il conflitto. Per il consumatore finale tale andamento si riflette in un spropositato aumento dell’energia elettrica: la bolletta elettrica nel periodo aprile 2022 su aprile del 2019 si è incrementata del 449%.

In sé e per sé una simile emergenza porta non solo negatività ma anche aspetti potenzialmente positivi, cioè la ricerca delle opportunità, delle alternative. In tema di opportunità due sono le soluzioni: il risparmio energetico e lo studio di altre soluzioni che non sia l’utilizzo del gas. Per quanto riguarda la riduzione dei consumi, soprattutto quelli relativi al riscaldamento domestico e soprattutto di energia elettrica, si originerebbe però una contrazione della produzione innescando un effetto domino sulla disponibilità di beni, sui livelli di occupazione e quindi delle risorse dei consumatori. Gli effetti negativi sugli indicatori economici, PIL innanzitutto, sarebbero immediati.

Altra soluzione è quella della ricerca di fonti alternative al gas. Due sono le vie, una più immediatamente disponibile, quella dell’utilizzo di altre fonti fossili. La guerra apre un nuovo dibattito, del tutto inatteso sino a qualche mese fa. Prima del conflitto, la scelta energetica del futuro sembrava indirizzata, almeno nel medio lungo periodo, verso le rinnovabili: le risorse del PNNR destinate alla transizione al verde ne erano e sono concreta testimonianza. Ora l’emergenza mette in primo piano il pronto utilizzo di altre fonti, meno “verdi”, quali il carbone. Anche in questo caso, però, già prima dell’evento bellico si era assistito ad un ritorno sul palcoscenico energetico globale del carbone. Nel rapporto “Global Energy Review”, pubblicato lo scorzo 8 marzo dall’Agenzia Internazionale per l’energia, si afferma che nel 2021 si è registrato il record di aumento, anno su anno, delle emissioni di CO2 legate all’energia in termini assoluti, con un incremento del 6% determinato principalmente dal carbone. In tale contesto c’è da chiedersi se il tema del cambiamento climatico che ha tenuto banco negli ultimi anni sia ancora d’attualità o meno.

L’apertura verso il carbone è confermata da quanto riportato nella nota informativa al Parlamento del Presidente del Consiglio nello scorso 25 febbraio, dove, a commento della necessità di diversificazione delle fonti energetiche, viene dichiarato in modo chiaro e senza possibilità di fraintendimenti che il ritorno del carbone è una delle soluzioni per affrontare l’emergenza energetica. Draghi nella sua nota affermava che “Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato. Il Governo è pronto a intervenire per calmierare ulteriormente il prezzo dell’energia, ove questo fosse necessario”. Il decreto legge n. 16 del 28 febbraio scorso in tema di questioni energetiche conferma il ritorno del carbone “In caso di adozione delle misure finalizzate a ridurre il consumo di gas naturale nel settore termoelettrico1, la società Terna S.p.A. (società italiana operatrice delle reti di trasmissione dell’energia elettrica) predispone un programma di massimizzazione dell’impiego degli impianti di generazione di energia elettrica con potenza termica nominale superiore a 300 MW che utilizzino carbone o olio combustibile in condizioni di regolare esercizio, per il periodo stimato di durata dell’emergenza”.

Ricordiamo che le centrali a carbone in Italia sono sette e, secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC) del Ministero dello Sviluppo Economico, dovranno essere dismesse o convertite entro la fine del 2025. Se ne contano due in Sardegna, una in Liguria, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lazio e Puglia. Cinque di queste sono gestite da ENEL, una da A2A e una da EP Produzione, costola italiana del gruppo ceco EPH. Secondo la Società Terna il margine netto delle centrali a carbone italiane è aumentato del 50% nel periodo dicembre 2021/dicembre 2019. Non è poi da sottovalutare uno sgradito “ritorno”, quello del nucleare. L’inserimento nella lista europea delle energie verdi del nucleare (sostenuto da Francia ed Italia ed anch’esso pre-guerra) non è una casualità ma un preciso indirizzo politico ed economico.

Se l’emergenza energetica spinge da un lato all’utilizzo delle fonti oggi di “pronto utilizzo”, dall’altro lato, come detto in premessa, si profilano delle opportunità ed in tale prospettiva si riapre il dibattito sulle energie rinnovabili. L’opzione delle energie rinnovabili deve sciogliere due nodi. Il primo è la non immediata messa in opera delle strutture ed infrastrutture necessarie per compensare la quota d’energia oggi derivata dal gas. L’altro nodo, quello principale, è un cambio radicale nel quadro geopolitico. In un sistema basato sulle fonti fossili il principale obiettivo dei singoli Stati era quello di mettere in sicurezza gli approvvigionamenti. L’iniqua distribuzione geografica di petrolio e gas spinge gli Stati ad organizzare una presenza economica e militare nei territori dove si concentrano le risorse o lungo le vie di transito degli oleodotti e gasdotti tale da assicurarsi la fonte energetica. In sintesi il quadro geopolitico odierno si sovrappone all’incirca a quello geoenergetico.

La transizione energetica verso le rinnovabili cambierebbe radicalmente lo scenario: le fonti rinnovabili sono sotto il profilo geografico geopolitico omogeneamente distribuite. La localizzazione delle fonti energetiche perde di peso mentre acquista valore la capacità di ogni singolo paese di sviluppare le tecnologie di conversione (fotovoltaico, eolico, idroelettrico, geotermico, produzione di idrogeno verde). La complessità di un sistema, come quello delle rinnovabili, implica una capacità tecnologica per la gestione efficiente di fonti energetiche non programmabili. Il sistema paese cioè il bagaglio delle competenze tecnologiche e scientifiche diventa il fattore primario.

Tale capacità tuttavia non elimina del tutto la dipendenza geo-energetica. Se con l’avvento delle rinnovabili perderanno di valore gli attuali scenari geopolitico e geoeconomici, quali i paesi del golfo, la Russia, tanto per citarne i maggiori, con le rinnovabili emerge una dipendenza diversa. Muterà radicalmente la geografia delle reperibilità delle materie prime (soprattutto quelle per la realizzazione delle infrastrutture) od elementi (vedi le terre rare) che costituiscono i componenti base degli apparati “rinnovabili” o degli strumenti tecnologici (vedi i dispositivi digitali) indispensabili per il funzionamento dell’energia “verde”. Quindi si assisterà ad un nuovo scenario geopolitico molto più frammentato e complesso di quello attuale.

In questo quadro l’Europa mostra ancora una volta la sua attuale debolezza nel contesto globale. Nel nuovo pacchetto delle sanzioni contro la Russia, confezionato in questi giorni dalla Commissione Europea, vi è stato un “timido” accenno ad un embargo nei confronti del petrolio russo. L’UE importa dalla Russia circa il 26% del suo fabbisogno petrolifero. La commissione si è ben guardata dal mettere mano ad un embargo sul gas, la fonte primaria energetica importata dalla federazione Russa, inoltre al fine di rendere più “morbido” l’embargo si è poi dilazionata la misura nell’arco di sei mesi. Nonostante le “precauzioni” prese dalla Commissione Europea non si è potuto evitare di registrare il disaccordo di Ungheria, Slovacchia (i due paesi importano rispettivamente il 58% ed il 96% del petrolio dalla Russia), Repubblica Ceca, Bulgaria.

La vicenda è significativa di una debolezza politica strutturale della UE. Ricordiamo sempre in campo energetico le profonde divisioni all’interno della UE sul tema del nucleare: la Germania sta ad esempio eliminando gradualmente le centrali nucleari, la Francia invece sta pianificando una loro ulteriore espansione. La Francia, unitamente all’Italia, ha “spinto” la Commissione Europea per l’introduzione del nucleare nella lista delle “energie verdi”. La guerra quindi ha fatto emergere in maniera netta le divisioni all’interno della UE e non è una pura casualità che le iniziative diplomatiche per una mediazione tra Ucraina e Russia di là dei risultati, siano state messe in campo dalla Turchia, a dimostrazione di un “impotenza” politica o meglio geopolitica europea del tutto evidente.

Draghi, uno dei maggiori esponenti degli interessi economici europei, ha richiamato a viva voce il parlamento europeo, all’inizio della scorsa settimana, per accelerare la costruzione di una comunità che parli con un’unica voce in tema di difesa e politica estera, oltre che rivedere l’intero complesso delle norme che regolano l’impianto politico della UE. Abbiamo già sottolineato nel corso di questi mesi l’importanza, per la classe dirigente, del progetto di difesa comune europea e quindi la necessità di dare corso ad una via “indipendente” europea nella competizione globale.

Vi è per ultimo un altro aspetto, spesso non sottolineato dagli analisti e dai media, quello “psicologico” della percezione della situazione di crisi attuale. In questi tre anni le due emergenze, quella del Covid e quella bellica, hanno lasciato due vulnerabilità. La prima legata alle criticità di rifornimento delle materie prime, non solo energetiche, la seconda, alla ripresa, dopo decenni, della spirale inflazionistica, criticità che hanno lasciato il segno sulle disponibilità economiche, dai singoli alle società alle istituzioni.

Sarà una osservazione banale ma una larga parte della generazione sotto i cinquant’anni non ha vissuto, o non ha memoria o coscienza diretta, di tali emergenze. Le “domeniche a piedi”, dei primi anni settanta che posero all’attenzione di tutti il legame tra energia e geopolitica e la corsa inflazionistica degli anni ottanta-novanta sono stati fenomeni del tutto sconosciuti alle successive generazioni. Non dobbiamo sottovalutare il modo in cui la situazione attuale sarà dai più elaborata e quali saranno le letture e reazioni individuali e collettive all’attuale crisi.

Anche la narrazione europea di una nuova “guerra fredda” tra due mondi contrapposti, quelli “autoritari” (dei quali la Russia è considerata come uno dei principali esponenti) ed il mondo “libero” (nel quale l’Ucraina ne è ricompresa) non regge alla prova dei fatti. Il mondo non è divisibile in blocchi ideologicamente contrapposti per un semplice fatto: il pianeta è economicamente “interconnesso”. Le catene di approvvigionamento, non solo energetiche, i mercati sono del tutto globali. Sarebbe stato impensabile negli anni della “guerra fredda” l’approvvigionamento da parte di paesi occidentali di materie prime, energia soprattutto, da paesi al di fuori del tradizionale quadro di alleanze politico-militari. Il fondatore dell’ENI Enrico Mattei, con la sua “originale” apertura a mercati e paesi al di fuori degli interessi occidentali, americani inglesi e francesi in particolare, ci provò e pagò con la vita. Sarebbe stato impensabile, in quegli anni, un mercato delle armi nel quale paesi occidentali, ad esempio, l’Italia annoverano tra i loro principali clienti paesi al di fuori delle logiche “Atlantiche” quali il Quatar , il Pakistan, l’Egitto. Se il riferimento ideologico non è più una pregiudiziale è il “mercato” che trionfa ed il mercato, in altre parole il profitto, genera una conflittualità permanente che di volta in volta prende la forma di confronto commerciale o confronto armato.

In conclusione il conflitto rappresenta una discontinuità non solo nei rapporti geopolitici ma soprattutto per quanto riguarda gli equilibri energetici e le linee guida della transizione al verde. Gli scenari energetici di medio e lungo periodo, così come erano stati disegnati, alla prova delle emergenze e delle contingenti necessità, sono messi a dura prova. Il quadro economico, che ha appena superato gli effetti globali della pandemia, si ritrova a fare i conti con l’inflazione e la mancanza di risorse da destinare ai consumi: di fatto il sistema non ha più nel serbatoio la benzina per continuare la sua “corsa”. Di là del modo in cui si svilupperà e si definirà la crisi, una cosa è certa: chi ne uscirà vincitore potrà stabilire anche i nuovi equilibri energetici e definire un nuovo quadro delle relazioni geopolitiche e geoeconomiche. Gli scenari che prenderanno forma, saranno però comunque solo provvisori, saranno cioè una riproposizione di un diverso sipario su un palcoscenico di una recita che è sempre la stessa, quella del libero mercato che non trova più la strada dell’“infinita crescita”. Si sta evidenziando quello che è e sarà l’inevitabile destino del mondo attuale, quello della competizione che da economica è diventata e diventerà sempre più armata.

Daniele Ratti

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