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Green pass, biopolitica, esodo conflittuale

Green pass, biopolitica, esodo conflittuale

La sindemia di Covid 19 ha fatto deflagrare questioni, che in buona parte rimanevano sottotraccia nel discorso politico dell’opposizione sociale, pur nelle sue tante sfaccettature.Cercare di leggere le piazze di questa estate e il vivacissimo dibattito on line, senza tentare di cogliere la trama discorsiva sottesa alle impreviste, ma non imprevedibili, divaricazioni che segnano il tempo che viviamo, ci priva di una fondamentale cassetta degli attrezzi.La mera contrapposizione tra “apocalittici ed integrati” non consente di cogliere gli elementi necessari a tentare un approccio analitico, che auspichiamo efficace.

Il capitalismo – e lo Stato – alla prova della sindemia mettono a nudo la violenza intrinseca allo sfruttamento ed al dominio. Una violenza che i governi del nostro paese hanno provato a celare dietro ad una rinnovata retorica patriottica. Siamo stati tutti arruolati nella guerra contro il virus. Arruolati e trattati secondo le leggi belliche con misure inutili al contenimento dell’epidemia, ma efficaci per il disciplinamento sociale. Coprifuoco, divieto di muoversi per motivi diversi da quelli considerati prioritari dal governo, sono alcune delle mosse di una sperimentazione sociale su scala nazionale.

Quando viene dichiarata l’emergenza, che si tratti di un terremoto, di un attacco suicida o di una pandemia il governo si prende pieni poteri e militarizza le nostre vite, contando sullo smarrimento di fronte ad eventi e pericoli che all’improvviso rompono la “normalità”.

Lo Stato si pone come padre che comanda e protegge, come unico baluardo contro l’irrompere del caos, un appiglio cui aggrapparsi per uscire dalla crisi.

Lo Stato ha giocato in questi due anni la sola carta forte a propria disposizione: far credere di essere indispensabile per tutelare la nostra salute.

Non ci ha garantito la salute e si è preso parte delle nostre esigue libertà, facendo leva sulla paura, sulla dipendenza, sull’incapacità di sviluppare un discorso capace di tradursi in pratiche solidali, autogestionarie, di esodo conflittuale dalle dinamiche biopolitiche utilizzate dai governi.

Landauer sosteneva che lo Stato si rende indispensabile finché assolve a funzioni considerate essenziali per la sopravvivenza della società. Poco importa la denuncia delle responsabilità governative nella mancata prevenzione, nei tagli di posti letto, nella chiusura di ospedali, nella riduzione dei lavoratori della sanità. Fatti veri e riconosciuti da tanti, specie da chi non ha mai potuto permettersi di pagare ai privati quello che lo stato non offriva. Ma nonostante l’evidenza, queste critiche, pur ampiamente condivise, sono rimaste lettera morta, prive di mordente, perché un immaginario ancora prevalentemente statalista rende arduo pensare e provare a praticare un orizzonte diverso.

Chi governa ha le idee chiare: spendere il meno possibile per tutelare la salute, garantendo lauti profitti alle imprese. La consapevolezza, largamente diffusa, che, dopo due decenni di tagli alla sanità, la strage fosse annunciata, non è bastata a riempire le piazze, se non occasionalmente e senza reale capacità di mettere in difficoltà l’esecutivo.

La pandemia ha rinforzato lo Stato, perché la critica alla sua gestione non ha saputo tradursi in percorsi di autonomia dall’istituito.

Solo scalzando nella pratica questa leva di dominio potremo cercare di costruire un percorso di libertà e salute.

Le aporie della gestione governativa della pandemia, sia in termini sociali che sanitari, hanno favorito l’espandersi di un fronte No Vax, che sebbene eterogeneo e spurio ha saputo in più occasioni riempire le piazze.

Chi si crede portatore di una critica radicale, spesso si abbevera alla fonte avvelenata del grande complotto, alle teorie del Great Reset. Chi nega la pandemia, perché la vede come tassello di un grande laboratorio sociale, non si deve far carico della sfida che un simile evento pone a tutti noi, perché semplicemente vi si sottrae, limitandosi ad opporsi alle chiusure ed ai divieti imposti dallo Stato.

Intendiamoci. É un fatto che lo Stato abbia approfittato della crisi per aumentare il proprio potere di controllo, mettendo in campo misure di contenimento, che hanno limitato le libertà individuali, ma non quelle delle imprese e degli apparati repressivi. L’intervento violento della polizia contro i lavoratori che nel marzo e aprile del 2020 hanno scioperato per la chiusura delle fabbriche e dei magazzini, in cui si lavorava a rischio della propria vita è l’esempio più efficace di queste politiche. La violentissima repressione delle rivolte scoppiate nelle carceri nel marzo del 2020, culminate nella strage del carcere Sant’Anna di Modena è la più evidente dimostrazione che la nostra salute, specie di chi è povero, razzializzato e marginalizzato, è l’ultimo dei problemi del governo di turno.

La sindemia di Covid 19 ci ha posti di fronte alla crudezza del sistema nel quale siamo forzati a vivere. Le nostre esistenze non contano fuori dall’ingranaggio “produci, consuma, crepa”. Siamo vuoti a perdere.

I negazionisti, i sostenitori della natura nutrice, madre e matriarca sono il miglior sostegno all’insostituibile onnipotenza dello Stato, perché, se si ritiene che lo Stato o, più in generale, i “poteri forti” siano in grado di manipolare e controllare tutto, ne consegue che sconfiggerli sia impossibile.

In fondo, per quanto possa apparire paradossale, quelli che si sono affidati acriticamente allo Stato padre, tutore, giudice e poliziotto e gli altri che hanno rifiutato di farlo, perché convinti che la pandemia fosse una grande truffa, orchestrata da mani occulte infiltrate ovunque, finiscono entrambi con il mantenere potente il controllo dello Stato sulle nostre vite.

Sottrarsi alla sorveglianza e alla tutela dello Stato è tuttavia possibile. Ma è una sfida enorme, perché si gioca nella sottrazione e nel conflitto, nella trasformazione radicale dei rapporti sociali, nella stretta interconnessione tra diversi piani di lotta.

Non solo. Diventa imprescindibile un piano analitico di critica allo scientismo come del negazionismo, che pur attingendo a strumenti già ampiamente disponibili, sappia aprire un dibattito pubblico che riesca ad oltrepassare gli stretti ambiti dell’anarchismo sociale, riuscendo a contaminare ambiti pubblici più ampi.

Il governo ha utilizzato la scienza come arma contro qualsiasi critica, mettendo sotto i riflettori del proprio discorso pubblico uno stuolo di “esperti” che con il passare dei mesi ci hanno ammannito “verità” di breve durata, perché la natura sperimentale delle misure sanitarie adottate le rendevano decisamente effimere.

Che le verità scientifiche, specie durante una sperimentazione, siano fragili è un dato di fatto, niente di nuovo o imprevedibile. Intollerabile invece che ogni variazione sia stata annunciata con il tono della verità indiscussa ed indiscutibile. La comunicazione sui vaccini, sulle modalità di somministrazione, sull’efficacia e sui possibili effetti collaterali ne sono l’esempio più evidente.

Già negli anni Trenta del secolo scorso si è sviluppata una critica radicale nei confronti dello scientismo, inteso come atteggiamento fideistico nei confronti della “verità” scientifica. Il procedere per tentativi ed errori della ricerca rimanda al fatto che non si possa mai parlare di verità acquisite, ma di conoscenze sottoposte a continua verifica sperimentale. Questo vale a maggior ragione per la medicina, disciplina che si applica a corpi diversi, non sempre facili da ridurre al mero dato statistico, come ben dimostrano i bugiardini di qualunque farmaco.

La critica allo scientismo è parte di ogni approccio libertario all’epistemologia, ma non è rifiuto dello sguardo scientifico, semmai valorizzazione di un approccio costantemente revisionista nei confronti delle “verità” temporaneamente acquisite.

Il problema che da anarchici ci troviamo di fronte è quello di smontare i meccanismi biopolitici con cui vengono trattati i nostri corpi e le nostre menti dalla gestione statalizzata della salute.

Non è certo un caso che nella conduzione governativa della pandemia si mescolino elementi di carattere “sanitario” con misure di tipo disciplinare, una parte delle quali decisamente incongrue rispetto all’obiettivo di mettere insieme il contenimento (non la cura o la prevenzione!) della pandemia con la scelta di non bloccare completamente la produzione, la scuola, i trasporti. Va da se che opportuni investimenti per rendere sicure scuole, mezzi di trasporto pubblico, ospedali, case di riposo, fabbriche e magazzini, avrebbero ridotto la circolazione del virus e quindi, in prospettiva, il perdurare dei blocchi e delle limitazioni alla libertà di circolazione. Ma questa scelta, banalmente socialdemocratica, non è mai entrata nell’agenda dei governi che si sono succeduti nell’ultimo anno e mezzo.

Questo compromesso sarebbe stato possibile solo in presenza di un movimento ben più radicale di quello messo in campo dagli esangui eredi delle socialdemocrazie.

Tutti conoscono i rischi di malattia connessi al cibo spazzatura, all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, ma non tutti possono permettersi cibi sani, aria pulita, un lavoro senza esposizione ad agenti patogeni.

Non a caso preferiamo parlare di sindemia e non di pandemia.

Una sindemia non è soltanto una comorbilità. Un approccio sindemico rivela le interazioni biologiche e sociali che sono importanti per la prognosi, le cure e le scelte sanitarie. In altri termini la presenza di malattie croniche non trasmissibili rende più letale un’infezione virale o batterica, quindi anche il Covid 19. Ne consegue che il governo, se avesse realmente voluto salvaguardare la nostra salute, avrebbe dovuto investire in prevenzione e cura delle gravi patologie non trasmissibili di cui è affetta una parte importante della popolazione e, in particolare, quella più povera. Invece hanno fatto e continuano a fare l’esatto contrario: la cancellazione o sospensione di visite ed esami diagnostici, interventi, cure ha determinato l’aumento di morti.

La sanità statale, o, se si preferisce statale/regionale, ben prima del dilagare del Covid 19, era già un ingranaggio di una macchina il cui scopo era il profitto e la rapida rimessa in funzione dei corpi utili alla produzione e circolazione di merci materiali ed immateriali.

L’esperienza dell’ospedale pubblico, che tante persone hanno fatto nel corso della loro vita, è spesso traumatica al di là della patologia per cui si viene ricoverati. La gestione simile ad una caserma, la difficoltà a reperire informazioni sulle diagnosi e le cure, la regolamentazione folle dei tempi di sonno, veglia, cibo, l’umiliazione intrinseca all’esposizione pubblica dei nostri corpi indeboliti sono il segno di una divaricazione di classe, che il benessere relativo di cui molti godono, rende meno intellegibile.

Il Covid 19 è stato la miccia che ha fatto deflagrare del tutto questo meccanismo, mettendone a nudo le logiche intrinseche. La morte, la vecchiaia, la malattia normalmente affidate a strutture chiuse, poco visibili hanno fatto irruzione nella vita quotidiana, spezzandone i ritmi e rendendo paradossalmente più facile leggere la brutalità del sistema delle RSA, degli ospedali, della medicina statale, burocratica, settoriale.

Un approccio diverso alla salute passa ovviamente dal decentramento dei percorsi di diagnosi e cura, ma soprattutto dal coinvolgimento diretto di ognuno in questi percorsi, attraverso assemblee territoriali in cui “l’esperto” è solo uno degli attori di un processo decisionale, in cui tutt* sono coinvolti.

Va da se che questa prospettiva appare al momento inattingibile, ma la pratica della solidarietà dal basso, la sperimentazione su scala ridotta sono scommesse praticabili, anche se difficili. Magari cominciando dalle piccole cose, perché, al di là dei permessi o dei divieti del governo, serve ragionare insieme sulla reciproca tutela della salute, sulla salvaguardia dei più fragili, sulla necessità di costruire una socialità consapevole, che sappia consentirci di stare insieme in sicurezza. Ci piace ricordare che quando il governo sosteneva che le mascherine erano inutili e persino dannose, perché non ne aveva abbastanza neppure per i sanitari, noi abbiamo scelto di usarle

comunque, pagandole a peso d’oro. Il governo continua ad aprire e chiudere, a moltiplicare misure, che spesso servono solo a salvare la produzione o la stagione turistica. Noi siamo convinti che l’autogestione, come percorso di consapevolezza e condivisione di obiettivi e pratiche sia il modo migliore per uscire dalla sindemia e dalle dinamiche di controllo militare imposte dallo Stato.

L’ultima trovata del governo è stata il Green Pass, la carta verde, che consente a chi ha già fatto la prima o entrambe le dosi del vaccino, a chi è guarito dal Covid e a chi ha fatto un tampone nelle 48 ore precedenti di muoversi con maggiore libertà degli altri Il Green Pass consente di sedersi ai tavoli interni di un bar, di visitare un museo, di accedere ad una palestra. Domani potrebbe diventare la carta di ingresso a tanti altri luoghi interdetti ai non vaccinati.

Lo scopo di questa misura è duplice: accelerare la campagna vaccinale, evitare di far tornare in zona gialla o rossa le regioni che, nonostante la modifica dei parametri che regolano il passaggio a zone con maggiori restrizioni, li stanno oltrepassando. La salute non c’entra nulla con il Green Pass, perché purtroppo la vaccinazione pare non renda immuni dal contagio i vaccinati, che possono ammalarsi e contagiare gli altri. Probabilmente, ma la formula dubitativa è d’obbligo, la vaccinazione rende meno virulenta e mortale la malattia. Noi ovviamente ci auguriamo di si, perché, nonostante la sua natura sperimentale, siamo favorevoli a tentare di giocare questa carta, anche se capiamo le paure di chi non ha il coraggio di vaccinarsi. Le informazioni carenti sui vaccini, il fatto che in alcuni casi vi siano state reazioni gravi rende umanamente comprensibile il timore di vaccinarsi.

Non siamo favorevoli al Green Pass. E, da anarchici, proviamo a tutelare noi stessi e chi ci è vicino, sia nei comportamenti individuali che nelle dinamiche politiche e sociali in cui siamo immersi. Abbiamo rifiutato e praticato esplicitamente il rifiuto del divieto di manifestare, ma le iniziative di piazza che abbiamo promosso sono state improntate sulla volontà di evitare ammassamenti, sull’invito a proteggersi e a proteggere con la mascherina.

Indipendentemente dai permessi concessi e dai divieti imposti dallo Stato.

Purtroppo ampi settori di movimento, anche quelli del tutto estranei alla galassia negazionista no vax, non hanno saputo/voluto avere le stesse attenzioni, evitando assembramenti e contatti diretti ed utilizzando strumenti di protezione. La vita pulsa nelle vene di tutti e la spinta a muoversi, far festa, toccarsi è una tentazione irresistibile, tuttavia, se vogliamo davvero liberarci dal controllo e dalla tutela statale, saper decidere pratiche di solidarietà con i deboli, i fragili, gli anziani, gli immunodepressi e, in generale, con ciascuno di noi è scelta necessaria.

Ci chiediamo tuttavia con relativo stupore ed esplicito disappunto, perché le piazze che denunciavano la gestione governativa della pandemia, che dicevano chiaramente che gli oltre 130.000 morti di Covid 19 erano una strage di Stato non abbiano avuto la stessa partecipazione delle piazze contro il Green Pass.

Occorre quindi affrontare un diverso piano analitico.

Il governo ci ha portato via l’unico vero privilegio di cui godevano tutti i cittadini italiani, anche i più poveri: la libertà di muoverci liberamente all’interno delle città e delle regioni e, in certa misura, anche all’estero.

Oggi bastano 10 euro ed un pizzico di pazienza con tempi e date e chiunque può volare a Barcellona o ad Atene.

Gli altri, quelli nati nel sud del mondo, non godono di questo privilegio. Muoversi verso nord è costosissimo e pericoloso. Chi arriva è costretto ad una vita clandestina, senza accesso a residenza, sanità, istruzione, iscrizione alle liste di collocamento, possibilità di affittare una casa…

Diventare clandestini a casa propria ha fatto saltare il tappo che ha portato alle piazze turbolente dell’autunno e alle recenti lotte contro il Green Pass. Il mescolarsi di fascisti e primitivisti, bottegai e ragazzi delle periferie militarizzate in un magma che a taluni appare indecifrabile è la conseguenza della ri-nascita di un confine interno. Un confine che nel nostro paese venne cancellato solo nel 1961, con l’abrogazione della legge contro l’inurbamento voluta dal fascismo nel trentanove e sopravvissuta alla caduta di Mussolini per oltre due decenni.

La libertà che davamo per scontata, quella che segnava il confine materiale e simbolico tra i poveri dei paesi ricchi e tutti gli altri, è stata messa tra parentesi da coprifuoco e zone a circolazione limitata ed, ora, dal green pass.

Le piazze dell’ottobre 2020, specie a Torino, sono diverse da quelle di luglio. In ottobre giovani immigrati e giovani italiani delle periferie si sono mescolati a bottegai, ultras di destra e di sinistra, fascisti di ogni sfumatura, sovranisti senza patria politica, nemici della medicina e no vax, in un minestrone inedito e deflagrante.

Oggi, quelli di periferia sono rimasti nei giardinetti e negli improbabili dehor dei bar sorti ovunque. La piazza no green pass, a parte negazionisti e no vax che le attraversano tutte, è stata la piazza di chi ha visto spostare un confine che considerava invalicabile. Ha visto sgretolarsi il più importante dei privilegi concessi ai cittadini di questo paese. Questo spiega bene le inedite convergenze di questi giorni. I fascisti di Casa Pound sul loro sito rivendicano la partecipazione, pur senza simboli, a tutte le piazze contro il green pass di queste ultime settimane. Nello stesso sito rivendicano la manifestazione tenutasi a Trieste il 4 agosto per la chiusura dei confini e la fine della rotta balcanica.

Concentrare l’attenzione sulla mera questione dei vaccini impedisce di cogliere gli snodi cruciali di questo momento. Lo stato non riesce a governare la crisi, teme le insorgenze sociali derivanti da disoccupazione, licenziamenti, sfratti, povertà crescente. Quindi prova a giocare la carta del vaccino come lasciapassare. Non a caso le reazioni all’introduzione del salvacondotto vaccinale sono state specularmente opposte: da un lato il milione che si è prenotato per il vaccino, dall’altro le piazze no green pass. Gli uni e gli altri hanno lo stesso obiettivo: il recupero del privilegio di muoversi liberamente. Punto. Finita l’estate, finita la stagione del consumo, torneranno a produrre e crepare in silenzio.

La libertà di circolazione è uno dei cardini delle lotte che abbiamo fatto in questi anni di chiusura di frontiere, respingimenti in mare, morti sui valichi alpini. La vogliamo per tutti e tutte.

Essere contrari al green pass per noi significa essere contrari a carte di identità, passaporti, permessi di soggiorno ed ogni pezzo di carta che definisce il confine tra i sommersi ed i salvati.

Ma. Rifiutiamo ogni negazionismo esattamente come ogni facile via d’uscita offerta dal governo, siamo consapevoli che il Covid 19 continua a mietere vittime in Italia e sempre più nel sud povero del mondo, dove mancano gli ospedali, i vaccini e le altre medicine. Occorre agire contro Big Pharma, perché siano cancellati i brevetti sui vaccini, rendendo più facile produrli a prezzi contenuti: non è la rivoluzione ma, finché non saremo in grado di espropriare direttamente i saperi necessari, è importante sviluppare un movimento che sappia imporne la liberalizzazione.

Non dimentichiamo che anche alle nostre latitudini chi vorrebbe vaccinarsi ma non ha documenti né tessera sanitaria, solo in poche regioni riesce a farlo. Le porte di ambulatori e hub vaccinali sono chiuse per i clandestini, i senza casa, i rom e sinti. Il dispositivo escludente della frontiera è attivo anche nel cuore delle nostre città e paesi.

Fare a meno dello Stato padre e padrone è possibile. Renderlo una prospettiva concreta dipende dalla nostra capacità di costruzione di spazi di autogestione della vita e della salute.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

anarresinfo.org

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