Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo
Il termine specismo è stato coniato e introdotto nel dibattito sulla questione animale nel 1970 da Richard Ryder, psicologo inglese che aveva ripudiato per motivi etici la sperimentazione animale, ed è stato reso popolare da Peter Singer in Liberazione animale (1975) e da Tom Regan in I diritti animali (1983). Per Singer, lo specismo è «un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie». Pregiudizio che opera secondo gli stessi meccanismi che regolano le violazioni intra-specifiche del principio di eguaglianza: «Il razzista viola il principio di eguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Analogamente, lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso».
Più recentemente, a questa definizione di specismo se ne sono affiancate altre volte a enfatizzare il nesso tra specismo e pratiche materiali di sfruttamento animale. Tra queste, una delle più note è quella del sociologo David Nibert, secondo il quale lo specismo è «un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali». Per Nibert, lo specismo non è tanto un pregiudizio, quanto piuttosto un’ideologia giustificazionista sviluppata per rendere conto delle pratiche di oppressione dell’animalità (inclusa quella umana). Di conseguenza, lo specismo e l’antispecismo sono da considerarsi fenomeni storici sottoposti e plasmati da forze materiali, economiche, culturali e sociali che coinvolgono anche la società umana e che necessitano di essere comprese e contrastate politicamente.
Tra le molte critiche che possono essere mosse a queste definizioni, la più importante è quella secondo cui tutti questi modi di concepire lo specismo si rifanno a un’idea fissista ed essenzialista, quasi linneiana, della nozione di specie, vista in un modo o nell’altro come un dato di fatto naturale. A partire (almeno) da Charles Darwin la “specie” non dovrebbe essere vista come un mero descrittore biologico, dal momento che è lo stesso naturalista inglese ad affermare in L’evoluzione delle specie che «il termine specie [è] applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza, a gruppi di individui molto somiglianti fra loro». Come sostiene l’epistemologo Jean-Jacques Kupiec, «Darwin non dice cosa sono le specie bensì cosa fanno: variano in continuazione» e prosegue affermando che, se la «concezione genealogica» di Darwin «fosse stata accolta e assimilata, lo stesso termine “specie” avrebbe dovuto essere abbandonato e sostituito con quello di “linea”». Va poi sottolineato che lo specismo non opera tra le specie ma tra due “specie” molto particolari: l’Umano e l’Animale – due astrazioni reali gemelle a funzione oppressiva. Questo è stato ben evidenziato da Jacques Derrida, che ha avanzato la proposta di sostituire il termine “l’Animale” con il termine «animot»: animot in francese suona come animaux (animali, al plurale) e contiene il termine “mot” (parola) a indicare il ruolo che il carnofallogocentrismo ha giocato nella svalutazione degli altri animali e dell’animalità in generale, inclusa quella umana.
In effetti, a ben pensarci, sia i meccanismi di animalizzazione, che accompagnano, giustificano e rendono possibile lo sfruttamento di specifici gruppi di umani, sia l’impresa tecno-scientifica contemporanea, in grado di produrre organismi ibridi ingegnerizzati, sia il capitalismo, che non si arresta di fronte alla barriera di specie e anzi si fonda proprio sulla messa al lavoro di qualsiasi corpo, purché possa rivelarsi ri/produttivo, mostrano che la specie è più un costrutto politico/performativo che una descrizione innocente, ingenua e neutrale di gruppi di viventi molto simili tra loro. Non a caso, il suo confine principale – Umano/Animale – può essere ridisegnato, con grande disinvoltura e a seconda degli interessi in gioco, dallo stesso sistema che si fonda sulla più intransigente accettazione ideologica di quello stesso confine.
Se così stanno le cose possiamo affermare che non siamo mai stati specisti oppure che le definizioni di specismo che si sono susseguite nel tempo sono insufficienti in quanto non hanno colto che è proprio dietro il presunto fissismo essenzialista della nozione di specie, che si nasconde quella che potremmo chiamare la mobilità trasformista e oppressiva dello specismo.
Per contribuire alla costruzione di una politica antispecista all’altezza del compito che deve fronteggiare, definiamo allora lo specismo come la norma di specie in cui si realizza l’incontro letale tra un’ideologia che legittima lo smembramento istituzionalizzato dei corpi e l’insieme dei dispositivi che rendono possibile ed effettuano tale smembramento. La prestazione principale di questo complesso semiotico/materiale è quella di separare i corpi che contano, da tutelare, proteggere e sacralizzare, dai corpi che non contano, che possono essere sfruttati e uccisi impunemente.
Cominciando dall’ideologia, lo specismo può essere pensato come una macchina. Una macchina simile, in termini di funzionamento, a quella che Giorgio Agamben ha chiamato «macchina antropologica». Entrambe queste macchine lavorano, infatti, per produrre l’Uomo – ciò che si intende per Umano –, separandolo dalla nuda vita attraverso un’operazione complessa che, ruotando attorno a un centro vuoto, si avvale di meccanismi che sono, simultaneamente, escludenti e includenti.
Il concetto di centro vuoto sta a indicare che, al di là delle differenze storiche che ne hanno caratterizzato il funzionamento e i “prodotti”, la macchina specista è messa in moto da definizioni stabilite a priori di che cosa sia l’Umano. In altre parole, la materializzazione dell’umano non è il risultato della scoperta empirica di tratti biologici identificativi, ma la certificazione burocratica dell’origine presuntivamente naturale dei rapporti sociali vigenti. In breve: ciò che sembra essere il prodotto del lavorio della macchina specista è in realtà ciò che essa è chiamata a giustificare. Ciò che conferisce a questa macchina tutta la sua efficacia operativa è proprio il centro vuoto, dove si realizza il cortocircuito tra produzione e giustificazione dell’Uomo.
Per quanto riguarda invece il sincronismo dei meccanismi di esclusione/inclusione, si può dire che, come tutte le macchine, anche quella specista produce (include) dissipando energia e accumulando scarti (escludendo) – e viceversa. Questi fenomeni sono indissociabili: il dentro e il fuori si formano insieme e si “piegano” l’uno sull’altro; l’inclusione (il riconoscimento, l’intelligibilità sociale, l’umanità) si realizza tramite il rigetto (la rimozione, l’invisibilizzazione, la smaterializzazione, l’animalizzazione) di determinati tratti e di determinati gruppi, e l’esclusione tramite l’appropriazione e la cattura di chi e di ciò che viene escluso.
Con queste premesse è possibile definire i tre meccanismi attraverso cui opera la componente ideologica della macchina specista: 1) la definizione del “proprio della specie dell’Uomo” (definizione stabilita a priori che la macchina deve restituire invariata ma con la “certificazione di naturalità”); 2) la misurazione della distanza che corre tra la specie standard di riferimento e tutte le altre; 3) la distribuzione gerarchica delle specie secondo un ordine inversamente proporzionale alla suddetta distanza (maggiore è la distanza dal proprio dell’Umano, inferiore è la posizione che si andrà a occupare lungo la scala degli esseri). In breve, il centro vuoto è la specie non intesa come una linea genealogica biologicamente mobile ma come un’essenza tragicamente plasmabile capace di produrre, nel continuo “rimescolamento” e “riposizionamento” del dentro e del fuori, specialità (che sacralizzano alcune caratteristiche umane e i corpi che vi si conformano) e fenomeni di speciazione (l’animalizzazione dei corpi che possono essere smembrati impunemente).
Massimo Filippi