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Da Gaza allo Yemen

Da Gaza allo Yemen

Il Mar Rosso è probabilmente la via di mare più trafficata al mondo: il 12% del commercio mondiale e il 30% del traffico marittimo di container (per tacere dei trasferimenti petroliferi) passa dallo stretto mare compreso tra il Canale di Suez e lo stretto di Bab el Mandeb (in arabo, la porta della lamentazione). Da quest’ultimo il Mar Rosso permette di accedere al Golfo Persico e all’Oceano Indiano e, quindi, alle rotte che connettono Asia ed Europa. Lo stretto è chiuso a sua volta tra Gibuti nel continente africano e l’estrema punta dello Yemen nel sud della penisola arabica.
Lo Yemen è teatro dal 2014 di un’intensa guerra civile che vede fronteggiarsi il nord sciita sotto la guida del movimento Ansar Allah (meglio noto come “gli Houthi” dal nome del fondatore) e il sud sunnita e a sua volta diviso tra movimenti vicini ad Al Qaeda, gruppi filo sauditi e altri vicini agli Emirati Arabi Uniti.
La guerra in Yemen è endemica da quasi sessant’anni, dal tempo in cui l’antico regno, guidato da una dinastia di confessione sciita e di rito zaidita, venne rovesciato da un movimento repubblicano sostenuto dall’Egitto di Nasser, al tempo alfiere principale del progetto panarabo di modernizzazione dell’area. Il sud all’epoca era ancora una colonia inglese; il Regno Unito si era impossessato alla fine dell’Ottocento di Aden proprio per controllare i traffici diretti verso il canale di Suez. Allo stesso scopo aveva occupato l’isola di Socotra e il nord della Somalia, mentre la Francia aveva colonizzato Gibuti e l’Italia, si parva licet, la baia di Assab in Eritrea.

Tornando a oggi, il 31 ottobre Ansar Allah, alleato dell’Iran dal tempo della ripresa della guerra civile nel 2014 a seguito dell’aggressione allo Yemen da parte dell’Arabia Saudita, ha annunciato la propria entrata in guerra contro Israele a seguito della vera e propria carneficina che l’esercito israeliano aveva iniziato a compiere nella Striscia di Gaza. La dichiarazione effettiva è consistita nel lancio di missili balistici e da crociera contro diversi obiettivi appartenenti a Tel Aviv.
La minaccia reale è stata in sé molto scarsa e la contraerea israeliana ha avuto buon gioco ad annientare i lanci effettuati contro il paese. Il segnale politico internazionale, con l’esplicita dichiarazione di schieramento a fianco della popolazione palestinese e dei movimenti combattenti contro Israele, è stato invece molto forte, collegando uno scontro locale alla geopolitica del “fronte della resistenza”, invocato esplicitamente dall’Iran. Da quel momento Ansar Allah , che controlla l’intero nord dello Yemen, ha iniziato anche a colpire o minacciare di colpire il traffico commerciale israeliano nel Mar Rosso.
Forse l’evento spettacolare di questa “strana guerra” è stato l’assalto alla Galaxy Leader, nave battente bandiera delle Bahamas ma di proprietà di una compagnia fondata da un miliardario israeliano, avvenuta il 19 novembre. A questo primo evento sono seguiti altri attacchi contro tutte le
navi commerciali gestite o possedute da proprietari israeliani o comunque collegati con Israele. A inizio dicembre, infine, la guerra a distanza è stata estesa a tutte le navi provenienti o dirette verso il paese della stella di David.
Il traffico commerciale israeliano nel Mar Rosso è di estrema importanza per il paese: nel 2019 per la prima volta i container provenienti dall’Asia hanno superato per volume quelli dall’Europa (278000 contro 260000). Questi scambi avvengono tramite il Mar Rosso e i porti di Eilat, Ashdod e Haifa. In conseguenza degli attacchi dei cosiddetti Houthi, a metà dicembre il traffico commerciale del porto di Eilat è crollato dell’80%, mentre i costi assicurativi delle compagnie di navigazione israeliane sono arrivati alle stelle.
La diffusa insicurezza derivante dall’azione di Ansar Allah ha prodotto sul piano globale la decisione di lasciare il Mar Rosso a favore della circumnavigazione dell’Africa da parte delle principali compagnie di navigazione mondiali.
Questa decisione è stata presa da MSC, Maersk, CMA e CGM, seguite a ruota poche settimane dopo dalla cinese COSCO che controlla l’11% del commercio mondiale.
In questo modo la sfida yemenita lanciata contro Israele e la sua guerra contro la popolazione di Gaza è diventata una sfida all’ordine mondiale dei commerci a guida e controllo americano.

In questo quadro il 18 dicembre gli Stati Uniti e il fedele alleato britannico hanno lanciato l’operazione Prosperity Guardian, consistente in una forza navale multinazionale tesa a garantire la sicurezza del passaggio commerciale nel Mar Rosso.
Nonostante USA e UK abbiano mostrato i muscoli, gli attacchi dallo Yemen sono continuati e anzi intensificati, a dimostrazione di come gli impacciati movimenti dei “guardiani del globo” vengano ormai sfidati da attori non statali con una certa facilità, almeno nel calderone del Medio Oriente.
Il 3 Gennaio abbiamo avuto notizia dell’ultimatum americano ad Ansar Allah che non ha prodotto alcun effetto, se non quello di avviare le prime operazioni dirette contro le navi da guerra angloamericane. Anche questi attacchi, come quelli contro Israele, sono stati attacchi propagandistici, dal momento che la squadra navale USA-UK ha agevolmente intercettato missili e droni prima che potessero fare danni.
L’attacco ha però scatenato la rappresaglia angloamericana consistente in attacchi aerei e missilistici contro 60 obiettivi nello Yemen. In questi giorni una seconda ondata di attacchi si è abbattuta sul malcapitato paese, sempre ad opera della squadra navale angloamericana.

Fino a qui la cronaca. Si deve però inquadrare quanto riportato sopra nello scenario che lega Israele, gli USA e il Regno Unito alla storia e, soprattutto, alla geografia dello Yemen.
Fin dal 1949 esiste una guerra sotterranea tra Tel Aviv e i paesi arabi per il controllo del Mar Rosso. In quell’anno, nel mese di marzo, Israele lanciò un’operazione denominata UVDA e consistente nella conquista e distruzione del villaggio di Umm al-Rashrash che le permise di raggiungere il golfo di Aqaba (e così il Mar Rosso) fondando il porto di Eilat.
Il golfo di Aqaba è collegato al Mar Rosso da una strettoia parzialmente ostruita dalle isole Tiran e Sanafir, appartenenti all’Egitto. Per questo motivo Israele nelle guerre del 1956, 1967 e 1973 ha sempre mirato a ottenere il controllo di queste ultime, strappandole al vicino arabo.
Collegandosi a quanto esposto sopra riguardo alla guerra civile yemenita del 1962/70, giova ricordare che Israele entrò in campo – ironia della sorte – proprio a fianco della dinastia dei Mutawakkiliti, sostenuti anche dai sauditi e nemici acerrimi del regime egiziano repubblicano impersonato dal generale Nasser. Questa dinastia è di fatto la fazione politica che ha preceduto Ansar Allah, rappresentando la popolazione sciita del paese asiatico. Israele inoltre riuscì con il suo intervento ad impantanare le truppe egiziane spedite a sostegno dei ribelli laici e repubblicani; l’Egitto perse in quella guerra non meno di 26.000 militari, pregiudicando anche l’esito della guerra del 1967.
Allo stesso scopo Israele negli anni Settanta strinse rapporti sempre più stretti con l’Etiopia che all’epoca possedeva ancora l’Eritrea. Questo le permise di occupare temporaneamente alcune isole prospicienti lo Yemen. La pace israelo-egiziana del 1979 permise a Tel Aviv di abbandonare le ipotesi di occupazione delle isole tra Yemen ed Eritrea, grazie alla garanzia esplicita contenuta nei trattati di Camp David riguardante la libertà di navigazione nel mar Rosso. Nello stesso anno però la rivoluzione iraniana, culminata con il colpo di stato islamico di Khomeini, pose fine all’alleanza anti araba tra Tel Aviv e Teheran, ponendo a Israele il problema dell’approvvigionamento petrolifero e della nascita di una rivalità che continua ancora oggi.
In Yemen in quegli stessi anni, per la precisione nel 1978, sale al potere il generale repubblicano Ali Abdullah Saleh che avrebbe governato il paese fino al 2011, ottenendo anche la riunificazione dello Yemen del nord con la ex colonia inglese di Aden (1990).
Il governo di Saleh in quegli stessi anni inizia a subire la contestazione armata di Ansar Allah sotto la guida carismatica di Hussein al-Houthi che riesce a riunire i dispersi partigiani della causa monarchica sconfitta nel 1970. Lo sviluppo di Ansar Allah, però, è quanto di meno tradizionalista ci si potrebbe attendere. L’invasione americana dell’Iraq contribuisce a radicare nel sentimento dei militanti Houthi un forte antiamericanismo e un rifiuto globale dell’Occidente.
La vittoria di Hezbollah nella “piccola guerra” del 2006 con Israele, porta il movimento yemenita ad avvicinarsi alla guida carismatica dello sceicco Nasrallah, nonostante i due gruppi sciiti appartengano a confessioni diverse tra loro. A partire dal 2003 la guerra civile in Yemen riprende a pieno ritmo; se da un lato Saleh riesce a far uccidere Hussein al-Houthi, il gruppo sciita ottiene un successo dopo l’altro, umiliando tanto le forze armate yemenite che quelle saudite chiamate in appoggio.
Allo scoppio delle primavere arabe, Ansar Allah si integra nel movimento volto alla rimozione del Presidente Saleh. Quest’ultimo viene rimpiazzato dal suo vicepresidente, Mansur Hadi, che è caratterizzato dall’essere un sunnita appartenente alle famiglie di Aden. Ansar Allah si oppone a questa operazione e, con spettacolare voltafaccia, si allea con Saleh per abbattere il governo che considera venduto ai sauditi. Nel gennaio del 2015 Sanaa, la capitale, cade in mano agli Houthi e così lo strategico porto di Hodeidah sul Mar Rosso. L’Arabia Saudita decide a questo punto di intervenire per impedire che un gruppo ostile controlli il vicino del sud; nel Marzo 2015 lo sceicco Bin Salman accusa Ansar Allah di essere uno strumento nelle mani di Teheran e inizia un’operazione militare in grande stile con l’appoggio dei paesi europei e degli USA. In realtà gli Stati Uniti erano perfettamente a conoscenza delle reali condizioni del gioco politico nello Yemen; peraltro l’intelligence a stelle e strisce aveva collaborato attorno al 2010 con Ansar Allah allo smantellamento della basi in Yemen di Al Qaeda, nemico comune alle due parti. Washington, però, stava chiudendo tra il 2014 e il 2015 un accordo storico sul nucleare iraniano e aveva necessità di tranquillizzare l’alleato storico saudita in un quadrante considerato di minor importanza.
La macchina bellica saudita dipende completamente da Washington e Londra per quanto riguarda la fornitura di aerei, carri armati e in generale materiale bellico e addestramento del personale. Negli anni tra il 2015 e il 2019 questa condizione permise anche ai mercanti d’armi anglo americani di fare affari d’oro con Riyad. In quegli anni il fabbisogno militare saudita crebbe del 130% rispetto al quinquennio precedente, il 73% di questo venne importato dagli USA e il 13% dalla Gran Bretagna.
In conseguenza di questi affari nello Yemen ci furono almeno 500.000 morti e 16 milioni di yemeniti subirono fame e malattie, fino a diventare la crisi del paese arabo la principale crisi umanitaria del mondo. Israele sostenne lo sforzo saudita appoggiando gli alleati degli Emirati Arabi Uniti che riuscirono a prendere il controllo dell’isola di Socotra, strategicamente posta al largo delle coste somale e all’imbocco del Bab el-Mandeb.
Nonostante la potenza della macchina militare saudita, Ansar Allah, favorita dal territorio montuoso e dall’appoggio della popolazione del nord dello Yemen, è riuscita a mantenere il controllo di quella parte del paese che un tempo era lo Yemen settentrionale. In questo quadro si è sviluppata anche l’alleanza tra Ansar Allah e Teheran, consistente soprattutto nella fornitura di tecnologie a basso costo nella cui produzione l’Iran si è specializzato allo scopo di sostituire quelle occidentali colpite
dall’embargo anglo americano.
La collaborazione tra le due parti, però, non è di tipo integrale, ma riflette la comune inimicizia verso i sauditi. In altre parole l’Iran non è in grado di orientare le azioni degli Houthi in modo significativo, anche se esiste un coordinamento tra le due forze, il che ha permesso a Teheran di convincere Ansar Allah a cessare gli attacchi contro le forze saudite dopo la firma degli accordi di Pechino tra l’Iran e Riyad.
Oggi la sfida all’ordine anglo americano nel Mar Rosso sembra dipendere maggiormente dalla necessità di Ansar Allah di rafforzare la propria statura interna ed internazionale che non da una mossa studiata a tavolino con l’Iran. Significativo, comunque, l’assoluto disinteresse che gli stati arabi “amici dell’Occidente” (dall’Egitto alla stessa Arabia Saudita) hanno dimostrato a fronte di una minaccia economica che potrebbe riguardare anche i loro affari.
È evidente l’interesse di questi attori politici alla presenza di una minaccia continua agli interessi economici di Israele e dei suoi alleati euro americani; questo non perché il mondo arabo e islamico abbia realmente intenzione di mobilitarsi contro lo stato ebraico, quanto perché un Israele indebolito e costretto a rinunciare alla supremazia economica e militare assoluta nel Medio Oriente conviene sia ai sauditi che agli iraniani, sia ai turchi che agli egiziani. La politica di questi stati è palese ormai da decenni e consiste principalmente nell’impedire che uno degli stati dell’area prenda il sopravvento e diventi significativamente dominante nell’area. Un’eventuale vittoria israeliana a Gaza e in Cisgiordania sarebbe il viatico che permetterebbe a Tel Aviv di dominare la regione.
Anche per gli stati più disponibili nei confronti di Israele questo è inaccettabile. Per questo motivo conflitti locali con radici proprie e focolai regionali spesso sopiti si stanno riaccendendo nel quadro dell’offensiva israeliana il cui scopo finale (la pulizia etnica dei palestinesi) non può essere tollerato dalle aspiranti potenze locali, pena la perdita di ogni credibilità nel quadro internazionale.

Stefano Capello

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