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Alluvioni e modelli di gestione statale del territorio

Alluvioni e modelli di gestione statale del territorio

La nomina del generale Figliuolo a commissario straordinario per la gestione del post-alluvione nei territori dell’Emilia Romagna ha creato dissapori fra gli amministratori delle istituzioni locali, ma segna un ulteriore avanzamento di quel cambio di paradigma della irrazionale gestione statale dei territori che è già in corso da diversi anni del quale la Regione Emilia-Romagna ne è una delle più “avanzate” promotrici.

L’inadeguatezza dei modelli ultra-moderni (quelli che hanno permesso la trasformazione dei fiumi in canali) fa coppia con l’irrazionalità dei nuovi modelli neoliberisti di gestione emergenziale del territorio. L’alluvione dello scorso maggio in Emilia Romagna lo ha messo in evidenza.

Si è trattato di un evento eccezionalmente intenso a pochi giorni di distanza da uno precedente, con le piogge che avevano già saturato i suoli e imbibito i corpi arginali dei torrenti e dei fiumi. Questi eventi stanno diventando sempre più frequenti e stanno di fatto modificando le stesse classificazioni dei loro tempi di ritorno: i fenomeni che prima dei cambiamenti climatici in corso si verificavano una volta ogni cento o duecento anni, ora si verificano ogni vent’anni o anche meno. Le cause dei cambiamenti climatici sono attribuiti al cosiddetto antropocene, ma sono più correttamente ascrivibili allo sfruttamento che il “sistema statale-capitalistico” fa della natura e con essa dello stesso uomo, da cui non è separabile1.

Una concausa degli effetti devastanti di questi fenomeni atmosferici è certamente anche la forte e continua impermeabilizzazione dei terreni, avvenuta per l’urbanizzazione e la costruzione di infrastrutture, soprattutto in quelle parti di territorio che una volta erano le valli alluvionali. Si è iniziato con la costruzione delle strade di “fondovalle” che hanno agevolato lo spopolamento delle alture e l’urbanizzazione lungo le nuove strade più veloci, fino ad occupare anche le terre levate agli alvei e quelle delle valli bonificate. Questo processo è presente in gran parte dell’Italia, ma è particolarmente evidente in Emilia Romagna, dove le “opere di bonifica” hanno reso artificiali tutti i tratti dei corsi d’acqua che a nord della Via Emilia vanno verso il Po o verso l’Adriatico. È grazie ai “modelli ultra-moderni2, applicati alla pianificazione, alla politica agraria e forestale, alla politica economica ecc., e in questo caso all’ingegneria idraulica che, dalla metà del Settecento (ma con più sistematicità a partire dall’Unità d’Italia), fino agli anni sessanta del Novecento, la maggior parte dei fiumi, soprattutto nelle parti di pianura, sono stati ridotti a canali. La “nuova scienza idraulica” considera i fiumi nella loro essenza funzionalista come quella sezione capace di contenere una portata; così, con “calcolo scientifico delle sezioni di deflusso delle piene” vengono disegnati i nuovi argini con opere che canalizzando il deflusso delle acque, e “liberano” le pianure alluvionali per l’espansione urbanistica, infrastrutturale e per l’agricoltura industrializzata o cosiddetta “razionale”, cioè si privatizzano quelle che erano le “pertinenze fluviali”.

Nel bacino del Reno, dove si è verificata la maggior parte delle alluvioni del 16-18 maggio scorso, sia il Reno che i suoi affluenti, nei loro tratti di pianura, si devono considerare prettamente artificiali e in massima parte pensili. Infatti, si sviluppano 840 Km di arginature che contengono il defluire delle piene verso l’Adriatico; solo il tratto arginato (di “II categoria”) del Reno misura 120 Km. Tali manufatti costruiti, per la maggior parte dagli “scarriolanti”, in terra battuta, nelle parti più depresse del territorio circostante, possono raggiungere i 13 metri di altezza; ciò significa che un’eventuale massima piena, transita ai livelli dei terzi piani delle abitazioni circostanti. Questi manufatti formano un sistema idraulico complesso che necessita di manutenzione e di regolazione tramite opere per laminare le piene, in particolare con l’Opera Reno e con l’Opera Po, si laminano le piene del Reno nel fiume Po tramite il Cavo Napoleonico; mentre un’altra decina di “chiaviche” regolano le chiusure di alcuni affluenti al passaggio della piena del Reno o la laminazione in casse di espansione, sia del Reno che di alcuni suoi affluenti. Interconnessi a questi tratti arginati e alle loro opere idrauliche vi è tutta la rete di canali di bonifica e di casse d’espansione, gestiti dai Consorzi di Bonifica che, oltre a raccogliere le acque del bacino imbrifero a valle dei tratti arginati, che non possono più defluire naturalmente nei corsi d’acqua, ricevono la laminazione delle piene delle aste principali a seguito di manovre in alcune chiaviche. Queste acque laminate poi vengono reimmesse nei corpi arginati con un sistema di pompe e idrovore. La stessa logica “riduzionista” del “modello ultra-moderno” è stata adottata anche per gli altri fiumi romagnoli esondati in questa alluvione, tranne per la mancanza delle chiaviche di regolamentazione sulle aste principali, che semplifica il sistema idraulico, ma non il rischio.

Generalmente la percezione del rischio idraulico, così come di quello idrogeologico, viene abbinata esclusivamente alla pericolosità dell’evento naturale (evento atmosferico “eccezionale”, franamento di pendii, crolli e smottamenti improvvisi, terremoti ecc.). Ma questa percezione è frutto della logica “riduzionista” a monte di questi modelli. Il rischio è, invece, il prodotto di più fattori: oltre alla pericolosità dell’evento (P) ci sono la vulnerabilità (V) e l’esposizione (E) del territorio colpito dall’evento (R = P x V x E). Ora è chiaro che questi due ultimi fattori del rischio, con le opere di protezione, di contenimento, di “regimazione”, con il sistema idraulico “ultra-moderno” per semplificare l’esempio e tornare all’alluvione, sono notevolmente aumentati, forse più del fattore della pericolosità dell’evento (cambiamenti climatici).

Il sistema idraulico pensato e costruito fino agli anni sessanta è andato in crisi già dalla fine di quegli stessi anni, con l’aumento notevole delle urbanizzazioni che, come abbiamo detto, sono avvenute anche e proprio in quei territori “protetti” dalle opere idrauliche, sia in pianura che nei fondovalli. Nei fondovalli le urbanizzazioni sono avvenute a discapito dei tratti d’alveo; un esempio esplicativo è la misurazione di una sezione sul fiume Reno nei pressi di Sasso Marconi fatta su una planimetria derivata da una foto aerea del 1954 e su una più recente: la stessa sezione d’alveo nel 1954 è larga 465 metri e nel 2008 solo 48 metri. Tutto ciò non solo ha aumentato l’esposizione al rischio di questo territorio più urbanizzato, ma anche la vulnerabilità delle stesse opere idrauliche è aumentata a causa dell’aumento della velocità dell’acqua, derivante dalla canalizzazione degli alvei e dall’impermeabilizzazione del suolo urbanizzato, così che i picchi dell’onda di piena non sono più contenuti dentro gli argini costruiti e/o “regimentati”. Altro, e in alcuni situazione determinante, fattore di aumento della vulnerabilità dei territori, è rappresentato da tutte quelle “interferenze” delle urbanizzazioni con gli alvei (ponti, scatolari per il tombamento dei corsi d’acqua nei centri abitati, cementificazione e muri sponsali, ecc.) non adeguati, che modificano la corrente e le stesse sezioni di deflusso e spesso costituiscono ostacolo (vincolo idraulico) per il materiale solido fluttuante.

Per capire meglio la situazione reale è necessario storicizzare la crisi dei modelli di gestione statale del territorio, che ha creato ulteriori elementi di vulnerabilità del territorio con aumento del rischio idraulico.

In modo organico, ma sempre nella logica del sistema idraulico ultra-moderno, si iniziano ad affrontare queste problematiche con l’istituzione delle Autorità di Bacino (legge 18 maggio 1989, n. 183), ente che per la prima volta non si organizzava su base amministrativa, ma con criteri geomorfologici e ambientali, cioè sul territorio del bacino imbrifero del corso d’acqua. Vengono stilati i Piani di Bacino, nei quali si studiano queste problematiche (oltre a quelle idrogeologiche), ricalcolando le capacità di portata dei singoli corsi d’acqua; si delimitano delle aree di pertinenza fluviale, in base ai rischi e ai programmi, stabilendo anche le norme sull’uso dei suoli, essendo anche un piano territoriale di settore; ma soprattutto si pianificano e programmano gli interventi di sistemazione ed adeguamento dei corsi d’acqua per garantire la sicurezza idraulica, stante le modifiche dei parametri del sistema.

Nei piani relativi al bacino del Reno venivano individuate, per i tratti di pianura (quelli artificiali), problematiche che potremmo sintetizzare in tre punti: insufficiente dimensionamento e inadeguatezza originaria del sistema idraulico a fare fronte a piene significative; subsidenza differenziata tra diverse zone della pianura; restringimento delle sezioni per depositi alluvionali o presenza di vincoli e mancanza della manutenzione (taglio della vegetazione). Le soluzioni proposte per il riassetto idraulico potremmo sintetizzarle in quattro punti: ottimizzazione delle capacità idrauliche degli alvei attuali tramite la manutenzione; recupero e miglioramento della tenuta delle arginature e ripristino delle sezioni idrauliche degli alvei tramite rialzi degli argini e sezionamento degli alvei; aumento delle capacità di invaso dei sistemi idraulici tramite casse di espansione; restituzione agli alvei delle aree demaniali tramite svasi nei tratti a monte della II categoria, cioè a monte dei manufatti arginati.

Il Programma degli interventi del 2002 prevedeva, con priorità 1, la realizzazione di 5 casse di espansione per l’asta del Reno, più una per ognuno dei seguenti torrenti: Navile, Sillaro, Santerno e Senio. Prevedeva il sezionamento degli alvei e il rialzo arginale di quasi tutti i tratti arginati del bacino e per i torrenti Dice e Sillaro lo svaso e l’allargamento dei tratti a monte degli argini (la III Categoria).

Di questo programma, che sostanzialmente lasciava integro il sistema idraulico costruito, ma lo adeguava con le casse di espansione e i sezionamenti, in vent’anni ne è stato realizzato soltanto una minima parte, lasciando invariata la maggior parte delle criticità individuate dal piano.

Nel frattempo le problematiche di carattere ambientale e naturalistico, ma anche quelle relative alla complessità della realtà che includeva nella gestione del territorio anche le problematiche sociali, iniziavano a essere discusse anche a livello istituzionale. Si inizia a parlare di riqualificazione fluviale, di ingegneria naturalistica e di gestione unitaria dei bacini idrografici, nel senso di gestione di sistemi complessi in cui le correlazione fra un intervento e un possibile corrispettivo fenomeno si mettono in evidenza, cercando di rompere il “riduzionismo” dello sguardo dello Stato e dei suoi modelli ultra-moderni e con essi il loro sistema idraulico. Certamente però non sono state queste argomentazioni a bloccare i piani di adeguamento e di sistemazione idraulica programmate dalle Autorità di Bacino. Queste, infatti, vengono “smantellate”, anzi il 17 febbraio 2017 con l’entrata in vigore del D.M. 25 ottobre 2016, sono state soppresse le Autorità di bacino nazionali, interregionali e regionali, e tutte le relative funzioni sono state trasferite alle Autorità di bacino distrettuali. Finisce il tentativo di guardare le problematiche in ottica di bacini imbriferi e si riprende quella amministrativa, nella versione neoliberista di Distretti, di riduzione degli apparati burocratici e di programmazione gestita a livello più politico che funzionale.

Prima dello “smantellamento” delle Autorità di bacino bisogna registrarne altri, ma il cambio di paradigma della politica di gestione statale del territorio è avvenuto gradualmente, innanzitutto, con la programmazione degli interventi, o con il non finanziamento di quelli di sistemazione e adeguamento, con il finanziare quasi esclusivamente gli interventi di ripristino dei danni causati da eventi (che nel frattempo si intensificano), e che vengono gestiti con procedure emergenziali o di “somma urgenza”. I programmi di intervento, pianificati, vengono regolarmente disattesi, fino ad essere del tutto dimenticati.

Con il decreto legislativo 23 febbraio 2010, n. 49, di attuazione della “direttiva alluvione 2007/60/CE”, si prevede la formazione di nuovi “piani di gestione del rischio di alluvioni”. Questi dovrebbero essere integrati con i vecchi piani delle Autorità di bacino, ma gli aspetti di prevenzione (programmazione degli interventi), così come quelli di gestione delle opere idrauliche o di laminazione, sono stati messi in subordine; questi si focalizzano sulla previsione degli eventi e sui sistemi di allertamento, sancendo la loro funzione di meri piani di protezione civile. Si è costituito un sistema di allertamento nazionale di protezione civile che monitora le previsioni meteo, alle quali prevede gli eventi corrispettivi, facendo predisporre un “presidio territoriale” per la gestione della popolazione e del territorio in caso di evento.

Gli esperti istituzionali preposti alla gestione delle emergenze da rischio idraulico, ora non sono più gli ingegneri idraulici, quelli che avevano reso i corsi d’acqua dei canali, né gli “ingegneri naturalisti” che volevano riportare gli alvei a dinamiche naturali di espansione, ma i meteorologi, gli “analisti di situazione”, gli organizzatori di eventi, gli avvocati, i comandanti dei vigili urbani ecc.3

La Regione Emilia-Romagna, con una sua riforma del 2015, ha inglobato le stesse strutture e uffici preposti alla gestione dei sistemi idraulici e idrogeologici (gli ex geni civili) direttamente nella Agenzia di Protezione Civile, “smantellandone” prima alcune funzioni e competenze istituzionali passate ad altri enti. Ad ogni alluvione o altro disastro idrogeologico viene sbandierata la necessità della sistemazione del territorio, ma regolarmente gli interventi si profilano secondo questo nuovo paradigma del ripristino e del risarcimento dei danni. Gli stessi uffici tecnici vengono sguarniti delle professionalità necessarie e con lo smantellamento delle competenze anche della indispensabile conoscenza e presenza sul territorio, esperienze indispensabili per i lavori di gestione e di progettazione degli interventi dei lavori cosiddetti di genio civile.

Sono i frutti della logica neoliberista di “smantellamento” delle strutture statali necessarie alla logica dei modelli ultra-moderni, che va verso la cosiddetta “esternalizzazione” dei servizi e delle competenze. La tendenza è quella di far diventare questi uffici delle mere “stazioni appaltanti” che gestiscono non solo l’assegnazione dei lavori, ma anche le progettazioni e gli stessi servizi derivanti dalle competenze istituzionali.

Questo nuovo paradigma neoliberista però non è compatibile con la presenza delle opere derivanti dai modelli ultra-moderni, queste hanno bisogno di una costante manutenzione e degli adeguamenti derivanti sia dalle urbanizzazioni, sia dai cambiamenti climatici. Per abbassare il rischio di alluvione è indispensabile fermare (o ridurre!) l’espansionismo urbanistico, l’impermeabilizzazione e il “consumo” dei suoli (concausa dei cambiamenti climatici), ma bisogna innanzitutto ridurre la vulnerabilità delle strutture e del territorio; con il sistema di allerta si riesce, se tutto va bene, a ridurre soltanto l’esposizione della popolazione tramite il loro spostamento. Durante quest’ultima alluvione sono state sfollate 15mila persone ma nonostante “l’efficienza” delle strutture regionali ci sono state 15 vittime.

Le alluvioni si sono verificate proprio per cedimenti di quelle opere idrauliche carenti di manutenzione, per il sormonto della piena nei tratti di opere non adeguati con i lavori che i piani di autorità di bacino vent’anni fa richiedevano con priorità 1. Così è stato per i tratti dell’Idice e del Quaderna i cui lavori di svaso e di rialzo arginali non sono mai stati fatti; per il Sillaro dove i lavori di sezionamento sono fermi ai primi lotti e dove, difatti, l’argine ha ceduto proprio in un tratto dove non erano fatti; per il Santerno le cui casse di espansione sono progettate più di vent’anni fa ma mai iniziate; per il Senio le cui casse di espansione sono in corso di realizzazione da decenni e non ancora concluse, ecc.. La vulnerabilità delle opere e conseguentemente del territorio, come abbiamo visto, è un fattore determinante del rischio idraulico. Non si può dare la colpa soltanto ai cambiamenti climatici e aspettare una catastrofe su l’altra; la vulnerabilità assieme all’aumentata esposizione (l’urbanizzazione dei terreni) aumentano il rischio idraulico più che i cambiamenti climatici. Le portate che hanno determinato queste alluvioni sono quelle inferiori alle massime portate che i piani adottano per adeguare le opere idrauliche, queste ultime si riferiscono a tempi di ritorno di 200 anni, mentre quelle verificatesi durante l’alluvione sono state stimate con tempo di ritorno poco più alto del centennale.4

Certo, a monte dei cambiamenti climatici, così come del rischio di alluvione, ci sono proprio l’espansionismo dell’urbanizzazione, al quale la gestione statale del territorio, che abbiamo individuato con i modelli ultra-moderni, ha dato un contributo fondamentale. Ma questi modelli non sono affatto disdegnati dalla politica nel nuovo paradigma neoliberista, soprattutto quando possono produrre nuovi arricchimenti facili, come per la realizzazione delle cosiddette “grandi opere”. La logica “riduzionista” ora diventa più direttamente finalizzata al “profitto”, ma rimane “performante” per la gestione del territorio secondo la stessa logica.

Per ridurre i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici, che in un qualche modo sono la metafora delle “incongruenze” della stessa vita organizzata e gestita dai sistemi statali-capitalistici, bisogna cambiare vita, o quantomeno agire e neutralizzare i sistemi di gestione del territorio che queste “incongruenze” producono. Possiamo iniziare ad immaginare, se non programmare una gestione “dal basso”, autogestita, del territorio, di questo territorio così segnato (disegnato) dai modelli ultra-moderni, che possa smettere di generare fattori di rischio. Gestione che dovrebbe ridursi al minimo, e non avere opere da “manutenere”, ma spazi e contesti da vivere5.

Con la “riqualificazione fluviale”6 viene sintetizzato lo spirito di un tentativo teorico e in alcuni contesti pratico per contrastare i danni e gli stravolgimenti dei modelli ultra-moderni, di quella scienza idraulica che riduce i fiumi a una sezione che contenga una portata data, una ipotetica piena. Si contrappone a questa ingegneria dei modelli e delle strutture “rigide” e “formattanti”, le tipologie di intervento che potremmo chiamare, mutuando il concetto da contesti tecnologici diversi, più conviviali, cioè capaci di interagire, che invitano, più che determinare. Il naturale, o naturalistico, che viene anteposto a queste tipologie ha questo significato anche per una difesa spondale o per una scogliera trasversale, o per altre tipologie costruttive, ma soprattutto si riferisce alla riqualificazione dell’intero alveo, con una rivalutazione dei processi di trasformazione delle pertinenze idrauliche. I contrasti maggiori che queste teorie hanno avuto, e per le quali a livello istituzionale non sono state sostenute, derivano dal dover restituire agli alvei la loro originaria, o necessaria, larghezza. Questo ovviamente va a discapito delle proprietà private che proprio grazie alle opere idrauliche avevano “conquistato” questi terreni. Terreni che provenivano dal demanio pubblico e che i modelli ultra-moderni di gestione hanno “liberato”. Ovviamente non si tratta di dover ripristinare le valli alluvionali che c’erano dal 1459, quando a seguito di una rotta il Reno si crea un nuovo corso a est di Cento e non affluendo più nel Po scolmava nelle valli di Poggio Renatico e Malalbergo, così come l’Idice e il Sillaro sfociavano nelle valli di Argenta e Marmorta; valli che perdurarono fino ai lavori di bonifica di cui abbiamo parlato. Si tratta di ricreare, invece, un alveo in cui le piene possano transitare liberamente, anche con la presenza della naturale vegetazione ripariale e con gli eventuali argini (solo nei tratti particolarmente depressi) a distanza tale dall’alveo che dovrebbero essere interessati soltanto nei casi davvero eccezionali. Mentre le piene ordinarie dovrebbero meandrizzare l’alveo senza dover proteggere le sponde che potrebbero liberamente erodersi. Questo modello ridurrebbe le “manutenzioni” (cosa ora indispensabile: come abbiamo visto nei piani dell’Autorità di bacino la manutenzione, compreso il taglio della vegetazione eseguito regolarmente, è indispensabile per garantire il deflusso delle piene e la stabilità delle sommità arginali; d’altronde essendo delle opere artificiali, non dei fiumi naturali, il concetto di manutenzione è proprio, con buona pace per tutti gli ambientalisti che si indignano per questi lavori) e ridurrebbe tutti gli altri oneri di “gestione”. Sarebbe un modello compatibile con una gestione comunitaria e non statale.

Si tratta cioè di raddoppiare o triplicare le attuali sezioni degli alvei, innanzitutto con la delocalizzazione delle strutture che interferiscono con gli alvei riqualificati. È soprattutto questo che crea i contrasti maggiori, perché la proprietà privata è ancora sacra. Da un punto di vista razionale, ed anche economico, questo contrasto è assolutamente fuorviante anche per le istituzioni, poiché espropriare i terreni necessari a ridare ai fiumi il loro spazio vitale, costerebbe molto meno di tutte le spese di gestione, soprattutto di quelle per i rimborsi dei danni e per gli irragionevoli ripristini delle condizioni pre-evento. L’esproprio, invece, è assolutamente accettato e regolarmente praticato (anche in ambiti urbani come il caso del centro di Bologna per il “passante”) quando si tratta di dover addirittura raddoppiare l’autostrada, o per altre opere di urbanizzazione o di infrastrutture, o per le nuove “grandi opere”; nessuno, a livello istituzionale, fa appello al diritto di proprietà. È questa la politica irrazionale del neoliberismo, che aumenta i rischi e i danni territoriali derivanti da quella dei modelli ultra-moderni.

Vincenzo Talerico

1Si rimanda a Ecologia e anarchia. Appunti (e divagazioni) per un approfondimento delle tematiche ecologiste e per una critica all’ambientalismo. https://circoloberneri.indivia.net/contributi-per-il-dibattito/appunti-per-un-approfondimento-delle-tematiche-ecologiste.

2Cfr. James C. Scott, Lo sguardo dello Stato, Elèuthera, Milano, 2019. Scott descrive questi modelli di politica amministrativa, chiamati ultra-moderni, basati sulle “nuove scienze” usate dallo Stato, quelle “riduzioniste” e strumentali che determinano “lo sguardo dello Stato”, quello che focalizza un particolare perdendo tutto il resto.

4Vedi l’Analisi dell’evento meteorologico sul territorio regionale prodotto da Arpae in L’EVENTO METEO IDROGEOLOGICO E IDRAULICO DEL 16-18 MAGGIO 2023, A cura di Arpae-SIMC Centro Funzionale della Regione Emilia-Romagna: “La cumulata di precipitazione registrata nel periodo 1-17 maggio (Figura 10) è il record storico di cumulata a 17 giorni per oltre il 65% dei pluviometri dei bacini del settore centro-orientale della regione, alcune con serie di dati superiori ai 100 anni, con valori oltre i 300-400 mm cumulati nel periodo, e massimi di 609,8 mm a Trebbio (Modigliana, bacino del Lamone), e 563,4 mm a Le Taverne (Fontanelice, bacino del Santerno)”. https://www.arpae.it/it/notizie/levento-meteo-idrogeologico-del-16-18-maggio-2023

5Elisée Reclus nel suo testo Storia di un ruscello (Elèuthera, 2005) racconta la vita di un corso d’acqua dalla sorgente al ciclo delle acque, con 20 capitoli, ognuno dei quali è una funzione e/o un aspetto delle dinamiche naturali del ruscello che interagiscono con la vita naturale e anche con quella sociale (quella dell’uomo). La civiltà umana è nata lungo i corsi d’acqua, con interazioni di uso e di rispetto antico. Oggi sembra, grazie alle politiche emergenziali seguite a quelle ultra-moderne, un rapporto soltanto conflittuale e predatorio, frutto delle logiche di sfruttamento e di prevaricazione anche sull’ambiente.

6Nel 2008 nasce la rivista con questo nome del Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, che promuove anche in ambito istituzionale il recupero morfologico degli alvei. Cfr. https://www.cirf.org/it/cose-la-riqualificazione-fluviale/

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