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Alle falde del Front National

Alle falde del Front National

E’ sotto gli occhi di tutti la grande affermazione elettorale in Francia del Fronte Nazionale. E’ sotto gli occhi di tutti l’avanzata europea, sia in termini elettorali che contenutistici, dei partiti radicali di estrema destra e neo-populisti. Non da oggi.

Mi viene allora in mente una domanda priva di alcunché di retorico: come sarebbe possibile altrimenti? Come sarebbe possibile altrimenti, insomma, da quando la nozione stessa di democrazia ha cambiato radicalmente il suo connotato semantico e procedurale? Appunto non da oggi. Il sistema capitalistico competitivo, vittorioso su scala planetaria, non può più utilizzare, laddove lo faceva, modelli politici aperti, democratici e partecipativi. Non lo può fare pena la riduzione della competitività sui mercati internazionali. La contrazioni dei diritti lavorativi e sociali, delle libertà formali, che oggi subiscono un’accelerazione formidabile, è stato il primo e lungo passo di un processo autoritario. Un processo, si badi bene, che non è stato innescato a destra, ma in egualmisura e a destra e a sinistra, a partire dal mito della governabilità.
Un primo tentativo di definizione di autoritarismo si riconduce a Juan Linz, nel 1964, nello sforzo di stabilire una medianità politica, naturalmente più prossima al secondo termine, tra democrazia e totalitarismo: “Sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su un’ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili.” (Juan Linz[1], 1964, p. 225) Per estensione potremmo far nostre le considerazioni di Linz quando afferma che “la limitazione del pluralismo può essere de iure o de facto, attuata in modo più o meno efficace, circoscritta a gruppi strettamente politici o estesa a gruppi di interesse.(…) Alcuni regimi arrivano persino a istituzionalizzare la partecipazione politica di un numero limitato di gruppi o di istituzioni indipendenti e anche a incoraggiarne l’affermazione, senza comunque lasciare alcun dubbio sul fatto che, in ultima istanza, sono i governanti a determinare quali gruppi possano esistere e a quali condizioni. Il potere politico non è tenuto, né de iure né de facto, a rendere conto del proprio operato, attraverso tali gruppi, ai cittadini, in contrasto con quanto avviene nei governi democratici, dove le forze politiche dipendono formalmente dal sostegno dei collegi elettorali. Nei regimi autoritari gli uomini che salgono al potere come rappresentanti dei punti di vista di diversi gruppi e istituzioni non devono la loro posizione solo al sostegno di questi gruppi, ma anche alla fiducia riposta in loro dal leader o dal gruppo dirigente, che tengono conto del loro prestigio e della loro influenza. Grazie a un processo costante di cooptazione dei leader, diversi settori o istituzioni entrano a far parte del sistema; questo meccanismo spiega le caratteristiche dell’élite: una certa eterogeneità sotto il profilo della formazione culturale e dei modelli di carriera e una prevalenza di burocrati, tecnici specializzati, militari di carriera, rappresentanti di gruppi d’interesse e, a volte, di gruppi religiosi rispetto ai politici di professione.” Se i riferimenti storici di Linz erano ben altri (dittature e governi autoritari di varia natura, in particolar modo presenti nei paesi latinoamericani), possiamo tranquillamente appropriarci di questa analisi e trasporla alle involuzioni autoritarie delle democrazie contemporanee. I processi decisionali passano sempre di più attraverso meccanismi legislativi che, seppur adoperino le istituzioni democratiche, hanno, di fatto, un duplice compito: automatizzare le funzioni di delega verso l’alto per legittimare un impiego, come condizione normale, delle eccezioni procedurali al posto dei procedimenti ordinari. L’eccezionalità è divenuta pertanto condizione normale. Il ricorso al voto di fiducia è un esempio italiano piuttosto noto. Ancora più clamoroso è il ricorso al non-voto: si governa per passaggi di consegne, con imprimatur presidenziale.
In campo europeo sono diversi gli esempi di legislazioni sempre più restrittive sulla rappresentanza elettorale, sulle limitazioni delle libertà sindacali, sugli inasprimenti penali dei comportamenti oppositivi alle scelte operate dai regimi in ogni settore (ambientale, dei diritti…). Già Karl Marx, analizzando il bonapartismo[2], individuò come questi regimi autoritari, rendendo autonomo lo Stato da forme di controllo pubblico, logorassero il potere politico della borghesia proprio nel momento in cui ne proteggevano il potere materiale. A questo si può aggiungere che il ricorso all’autoritarismo può essere interpretato come un bisogno emotivo, individuale e collettivo, di difendersi dalle incertezze, dall’ansia e dalle paure che i sistemi di potere democratici hanno prodotto in maniera sempre più evidente negli ultimi anni e, come si ricordava poc’anzi, con accelerazioni sempre più rilevanti. Questo processo attiva alcune modalità proprie di quello che Altemeyer definì come Right-Wing Authoritarianism (RWA) o autoritarismo di destra (Altemeyer intende il termine “destra” in accezione psicosociale e non politica essendo fondato principalmente sull’obbedienza alle autorità e sulla rigida lealtà alle norme culturali, quali esse siano): “Right-Wing Authoritarianism viene definito dalla covariazione di tre attitudinal clusters: (1) la sottomissione autoritaria: si riferisce al grado di accettazione delle affermazioni delle autorità percepite come legittime (cioè chiunque venga percepito come tale: leader politici, religiosi, militari, genitori, giudici e varie altre) e alla sottomissione a queste ultime all’insegna di valori quali il rispetto, l’obbedienza e l’ordine sociale; (2) l’aggressività autoritaria: una predisposizione a nuocere a singoli o a gruppi, nel caso in cui ciò venga percepito come approvato dalle autorità, e alla tendenza a controllare il comportamento altrui tramite pratiche punitive; (3) il convenzionalismo: il grado di accettazione delle convenzioni sociali sostenute dalle autorità legittime, l’adesione a valori tradizionali (soprattutto in ambito religioso e nelle condotte sessuali) e a norme assolute ed immutabili. Le persone autoritarie si caratterizzano per un’alta considerazione di sé, soprattutto circa la propria superiore moralità, al punto da giustificare il sospetto verso chiunque sia definito dalle figure autoritarie come meno morale[3]”.
Sostengo, infine, che la spinta collettiva a forme di autoritarismo coerente e salvifico (Le Pen, Salvini, …) sono le medesime che hanno sostenuto e muovono altri miti di ordinaria salvezza propugnati da leader politici pienamente inseriti nei partiti democratici, si chiamino essi Renzi, Merkel, Hollande… Non ritengo che siano la stessa cosa: dico soltanto che i secondi, quando si pongono come estremo baluardo in difesa dello sfondamento dei primi, non rappresentano altro che la loro principale porta d’ingresso.
1) Linz, J. J., An authoritarian regime: the case of Spain, in Cleavages, ideologies and party systems (a cura di E. Allard e Y. Littunen), Helsinki 1964,
2) Cfr. Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852); esistono diverse versioni online del testo.
3) Cosimo Talò, L’autoritarismo come difesa della percezione di perdita dei confini della propria comunità, in siba-ese.unisalento.it

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