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Una risposta di movimento alla questione securitaria

Una risposta di movimento alla questione securitaria

Nella notte del 22 novembre a Bologna dieci persone che dormivano sotto il portico di viale Masini sono state multate e allontanate dalla zona, con un “ordine di allontanamento” al quale si accompagna una sanzione dai 100 ai 300 euro. A livello legale, ciò è previsto dalla legge Minniti sulla sicurezza urbana, che si interessa in questo caso a “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico”, ma anche di scuole, siti universitari, parchi, o più in generale luoghi “interessati da consistenti flussi turistici”1. In concreto, ciò significa che se non hai un tetto sopra la testa o un letto nel quale dormire, perché i padroni non sapendo che farsene del tuo corpo ti hanno condannato a una vita di fame e miseria, una banda di criminali in divisa verrà a prenderti con la forza e ti caccerà dal rifugio nel quale credevi di trovare riposo, o magari anche solo un po’ di caldo (ogni anno a Bologna sono numerosi i morti in strada per freddo durante la notte).
Fin dall’emergere del “problema sicurezza” nei primi anni ’90 abbiamo assistito a una crescente intensità nella repressione di fenomeni che non costituiscono di per sé alcun tipo di reato. Nella mente di chi ci governa infatti “fenomeni vari come forme di degrado sociale, di disagio, di non rispetto delle regole, di mancanza di punti di riferimento e forme di arroganza e di prepotenza diffuse” forniscono un contesto che è “ancora più grave dei fatti di criminalità” stessi, poiché è da qui che “nasce la sensazione d’insicurezza che travaglia il paese” (intervento di Marilena Sampieri (PD) alla Camera dei Deputati, seduta n. 33 dell’11 luglio 2008)2. Alla base di questo ragionamento vi è la cosiddetta “teoria delle finestre rotte”, cioè l’idea che comportamenti che non costituiscono un crimine vero e proprio, contribuiscono tuttavia a creare un ambiente favorevole al crimine, costituendo una sorta di “via libera” alle peggiori intenzioni criminali. Un questionario che l’ANCI ha rivolto ai sindaci nel 2009, chiedendo di individuare quali fenomeni nella loro opinione creassero maggiore allarme sociale, è emblematico di questo modo di intendere la questione. I tre maggiori problemi addotti erano: 1. abuso di alcolici, schiamazzi e comportamenti molesti; 2. vandalismo, writers, danneggiamenti al patrimonio pubblico e privato; 3. degrado urbano di specifici luoghi della città. Tra le maggiori cause di insicurezza vi si ritrova anche l’«accattonaggio molesto»3.
Le strategie elaborate dallo stato per far fronte a questa crescente richiesta di sicurezza, dalle più dure e intransigenti (“tolleranza zero”) alle più soft (volte ad assicurarsi legittimità attraverso la collaborazione con realtà locali e a creare nei cittadini un senso di fiducia nelle istituzioni), hanno tutte un elemento in comune: la tendenza è quella di prevenire certi comportamenti prima che si verifichino. Per fare questo, è necessario spostare l’attenzione dal crimine reale ai potenziali reati; quindi dal criminale (chi commette reati) al potenziale criminale. Non è affatto difficile a questo punto individuare i nuovi “criminali in potenza” in quelle categorie di soggetti che rappresentano un fattore di pericolo o più semplicemente di disturbo per l’attuale ordine sociale, fondato su gerarchie sociali ben radicate e profonde disuguaglianze: “accattoni, ubriaconi, tossicomani, giovani attaccabrighe, prostitute, oziosi, malati di mente”, secondo gli ideatori della “teoria delle finestre rotte”; nella realtà dei fatti, poveri, migranti, ma anche attivisti politici.
Se queste istantanee evocano alla mente uno scenario di guerra sociale, con un nemico che valuta la propria efficienza bellica in termini di “quanti nemici sono stati neutralizzati (vedi l’enfasi sui tassi di carcerizzazione); quanti soldati posso mettere in campo e quanto mi costano (vedi enfasi sui costi della giustizia penale e forze di polizia); quali e quanti territori sociali e urbani ho liberato o sono stati dal nemico occupati (vedi enfasi sui tassi di delittuosità diminuiti o aumentati nella loro disaggregazione territoriale)”4 è perché le cose stanno effettivamente così. Lo stato ci dichiara guerra ogni giorno: i suoi discorsi, le sue strategie, le sue azioni lo dimostrano.
È stato detto giustamente da più parti che il “diritto alla sicurezza dalla criminalità” è in realtà un diritto di difesa (garantito alla cittadinanza “perbene”) da quelle persone e gruppi sociali che lo stato non può e/o non vuole includere. A problemi sociali come questi, abbiamo visto come lo stato risponda impostando il discorso in termini di “sicurezza”. Tuttavia, il campo del securitarismo sul quale politici e media hanno deciso di muoversi è un terreno scivoloso, per noi, ma soprattutto per loro. Mi spiego.
All’interno di questo stato di guerra permanente e di criminalizzazione degli esclusi, le classi dirigenti non possono muoversi unicamente sul piano militare. È di vitale importanza per loro cercare continuamente legittimità tra la popolazione; attraverso la “questione securitaria” si cerca infatti di consolidare la fedeltà delle persone verso le istituzioni, in particolare quelle che svolgono un ruolo centrale nel sistema repressivo (polizia, tribunali, carceri), in modo da farle apparire indispensabili, e di conseguenza agevolarne il funzionamento nel senso voluto dal potere. Ed è sul terreno della legittimità, terreno propriamente politico, che si presentano maggiori spazi di agibilità e sul quale si può agire più efficacemente.
Trovo piuttosto insoddisfacente il modo in cui è stata trattata finora la questione del securitarismo dal movimento nel suo insieme. Mi pare che la tendenza predominante sia stata quella di considerare questi problemi con un approccio sostanzialmente accademico, cioè volto a “demistificare” il problema, per restituire al dibattito la reale dimensione sociale (e non appunto “criminale” o “securitaria”) nel quale questi fenomeni si inseriscono. Fin qui tutto bene. Il fatto è che questa opera di decostruzione del discorso, da sola, è una risposta parziale che porta sempre, a forza di decostruire e ridimensionare i termini del dibattito, a negare che la sicurezza personale sia di fatto una cosa importante e che vada trattata seriamente. La conseguenza diretta di questo atteggiamento è consentire allo stato e alle destre di monopolizzare il problema, ed è poi facile per loro strumentalizzarlo facendolo coincidere con le loro politiche in difesa degli attuali rapporti di potere. Rifiutando di considerare quello del crimine e della sicurezza come problemi reali, scopriamo così il fianco ai nostri nemici.
Il rischio effettivo di subire un crimine violento, così come la semplice percezione di insicurezza e paura (anche se sproporzionate al rischio effettivo), sono fatti reali che hanno ripercussioni negative sulla vita quotidiana delle persone. Credo che la nostra risposta debba articolarsi su due fronti.
Da un lato, è necessario attaccare le cause dirette che generano insicurezza (aggressioni e violenze di strada) attraverso l’azione diretta: non possiamo, né dovremmo, chiedere alle forze autoritarie dello stato di farlo per noi. Giusto per fare qualche esempio concreto, l’ambiente statunitense degli anni ’70 offre diversi spunti in questo senso, per i forti movimenti che si andavano creando come quello femminista e quello antirazzista: collettivi come Women Against Rape organizzavano ronde per proteggere le donne durante i loro spostamenti, intervenendo quando episodi di volenza si verificavano; numerosi progetti si occupavano di fornire corsi di autodifesa e di aiuto alle vittime di violenze; le Pantere istituirono gruppi come i “Corpi di Pace”, composti da volontari che operavano nelle comunità di residenza per soddisfare bisogni locali di sicurezza e con l’obiettivo di opporsi (sostituendosi) al sistema di giustizia statale rappresentato da polizia e tribunali; mentre invece un’organizzazione come i Seniors Against a Fearful Enviroment si occupavano di organizzare un servizio di trasporto pubblico che accompagnasse gli anziani, tra le maggiori vittime di violenze di strada (soprattutto aggressioni e rapine), a svolgere le proprie faccende in giro per la città.5 Per venire a tempi più recenti, poco tempo fa mi è capitato tra le mani un volantino, diffuso dallo squat Rosa de Foc nel quartiere di Exarchia, che parlava di un furto di un cellulare avvenuto ai danni di una persona a caso, e sollecitava gli abitanti del quartiere a mobilitarsi e a mettersi in contatto per ritrovare l’oggetto rubato. Una semplice azione come questa ha degli effetti politici enormi: contribuisce a costruisce una rete di persone che si conoscono e si fidano tra loro; aumenta il senso di sicurezza di chi vive il quartiere; ma soprattutto, nella risoluzione di un problema anche banale come questo, le persone acquistano coscienza del fatto che la comunità è una fonte di potere, e che non è necessario in questi casi “chiamare la polizia”:
Il nodo centrale qui non è naturalmente cercare di replicare questi esempi, ma prenderne spunto per adattarli alla nostra realtà: è necessario innanzitutto conoscere il territorio in cui viviamo, le sue specificità e le sue problematiche.
Tuttavia, questo crescente senso di insicurezza e paura è in buona parte non supportato da rischi effettivi. Certamente la propaganda mediatica contribuisce ad amplificare queste percezioni, ma è importante chiedersi perché oggi sia così facile che queste idee attecchiscano trovando terreno fertile anche in città storicamente “antagoniste”. Credo che la ragione vada ricercata nella mancanza di un tessuto sociale forte, di una rete di legami sociali che agisca rafforzando il senso di comunità delle persone che vivono i quartieri e la città. È stato ben compreso in diversi ambienti, per lo più militanti ma ora anche in alcuni settori dell’accademia, che la presenza di un tessuto comunitario coeso gioca un ruolo centrale in due sensi: scoraggiando fenomeni criminali violenti per la semplice azione di controllo informale e diffuso che esercita la comunità stessa; diminuendo la percezione di paura diffusa, poiché la presenza di reti di vicinato, di luoghi pubblici di incontro e socialità e di rapporti sociali forti svolgono direttamente una funzione di rassicurazione per e tra la gente che vive un quartiere. Non è un caso se la questione securitaria abbia preso piede con forza a partire da una fase storica, gli anni ’90, in cui parallelamente si andava affermando anche un processo di ristrutturazione urbana in funzione del puro e semplice consumo, processo che continua tutt’ora e che ha un effetto devastante nel disgregare il tessuto umano esistente nel territorio.
Quindi, come “creare comunità”? La risposta, per nulla retorica, credo debba essere: attraverso lotte sociali radicate nel territorio. Diversi movimenti, collettivi e comitati hanno dimostrato che è possibile costruire qualcosa di più di quello che poteva essere il loro obiettivo dichiarato più o meno immediato: sono riusciti a costruire una comunità, cioè una rete di persone che si conoscono, che si aiutano tra loro, che condividono certi valori e con una propria identità, maturati attraverso la lotta stessa (due esempi su tutti, il movimento No Tav e quello per il diritto all’abitare). Questi legami una volta che si stabiliscono rimangono nel tempo, e continuano a costituire una forma di vero e proprio contropotere rispetto alle forze che tentano di penetrare negli affari della comunità (nel caso della questione securitaria, queste forze sono la polizia e i fascisti).
Insomma, per tirare un po’ le fila del discorso: la questione securitaria si compone di retoriche artificiali e create ad hoc dal potere, discorsi che servono però a strumentalizzare problemi reali e concreti per la vita di molte persone. Occorre saper muoversi bene all’interno di questo campo che, come dicevo prima, è un terreno scivoloso per tutti gli attori coinvolti.
Dalla nostra abbiamo però un vantaggio, e cioè il fatto che il problema della sicurezza non può essere risolto se non all’interno di un ordine sociale radicalmente diverso da quello attuale. Per questo motivo sbirri e fasci non offrono alcuna reale “soluzione” al problema: essi non si pongono il fine della creazione di una società libera, per cui sono condannati a riproporre false rassicurazioni, per lo più simboliche. Se è quindi necessario che qualsiasi strategia militante che si propone di rendere più sicuri i quartieri e le città in cui viviamo sia anche parte di un più ampio movimento di trasformazione rivoluzionaria della società, mi pare dovuto, per quanto banale, concludere con un incitamento a continuare le lotte e ad iniziarne di nuove, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, nelle realtà sociali che viviamo.
Mattia
1. https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=2&ved=0ahUKEwjFn-igjuvXAhUJvxQKHb-YBYEQFgguMAE&url=https%3A%2F%2Fwww.penalecontemporaneo.it%2Fupload%2FRUGARIVA_ET_AL_2017.pdf&usg=AOvVaw2FwJwt-fYRrUEAKWHG-gMF
2. cit. in Andrea Molteni, La devoluzione securitaria, in Studi sulla questione criminale, anno X, n. 1, 2015, Carrocci Editore, p. 21
3. ibidem., p. 32
4. Gli esempi sono quelli fatti da Massimo Pavarini in un saggio su “La neutralizzazione degli uomini inaffidabili”, apparso in “Studi sulla questione criminale”, anno I, n. 2, 2006, Carrocci Editore, p. 26
5. Tutti gli esempi sono ripresi da Kristian Williams, Our Enemies in Blue. Police and Power in America, Oakland, AK Press, 2015, p. 371-379


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