Tessere verdi e camicie nere. Riflessioni partendo dai fatti di Roma.

Sabato 9 ottobre a Roma si è tenuta a Piazza del Popolo una manifestazione contro il Green Pass. È stata una manifestazione molto partecipata. Il numero effettivo dei presenti, come sempre in questi casi, è estremamente variabile in base a chi fornisce il dato: 10.000 persone secondo la Questura, il doppio o il triplo secondo chi vi ha partecipato. In ogni caso c’è stato un numero di presenze molto superiore alle aspettative. La piazza è stata chiesta dai fascisti di Forza Nuova che hanno portato l’amplificazione e il camion usato come palco e hanno gestito gli interventi, parlando e decidendo chi poteva parlare. Un’ora e mezza dopo averlo annunciato dal palco, i fascisti sono andati in corteo alla sede della CGIL, a un paio di chilometri di distanza, l’hanno assaltata e danneggiata. Dopo, sono tornati nella piazza da cui erano partiti e, riunendosi a chi non li aveva seguiti nell’assalto, hanno fatto un po’ di gazzarra nel centro di Roma fino a tarda sera. L’iniziativa si è conclusa con l’aggressione ai lavoratori del Pronto Soccorso del Policlinico in cui sono stati feriti tre infermieri, di cui una con una bottigliata in testa. Molte delle persone in piazza hanno detto che ignoravano che fossero stati i fascisti a organizzare tutto. Fa pensare il perché non se ne siano andati subito dopo averlo capito.

Di là della conferma della connivenza poliziesca con le manovre fasciste (se il corteo l’avessimo fatto noi, ci avrebbero caricato dopo 100 metri e non ci avrebbero lasciato tranquilli per 4 chilometri), va sviluppato un ragionamento sul perché si sia arrivati a questa situazione.

È chiaro che l’obbligo del Green Pass per andare a lavorare ha fatto esplodere la preoccupazione e, in parte, la mobilitazione dei 10 milioni di residenti in Italia che non hanno fatto il vaccino. Del resto è ben diverso il divieto di andare all’interno dei ristoranti o al cinema dal divieto di andare al lavoro con tutte le conseguenze, anche sociali, che comporta il mancato pagamento delle retribuzioni.

Dall’inizio della sindemia a Codogno il 21 febbraio 2020, il governo in carica (Conte prima, Draghi poi) ha scelto una gestione disciplinare dell’emergenza sanitaria. Avendo devastato la sanità pubblica negli ultimi decenni non si sono potute utilizzare, come sarebbe stato normale fare, le strutture ospedaliere, di medicina territoriale e di base. Gli stessi posti letto in terapia intensiva si sono rivelati assolutamente insufficienti fin dall’inizio della crisi.

Scegliere altre strade avrebbe comportato il mettere in discussione i 37 miliardi di tagli al bilancio annuale della spesa pubblica sanitaria e i 359 reparti chiusi negli ospedali pubblici negli ultimi dieci anni o chiedersi il perché in vent’anni lo stato abbia chiuso 400 ospedali e tagliato 120.000 posti letto o come si sia passati da 5,8 posti letto a 3,6 posti letto per 1.000 abitanti, uno dei dati più bassi in Europa. O, ancora, perché gli unici che ci abbiano guadagnato negli ultimi decenni siano stati i gestori della sanità privata (chiesa cattolica in primis) cui, con appalti e convenzioni, è destinata quasi la metà della spesa sanitaria e che, visto che i privati non gestiscono le terapie intensive (troppo costose e troppo rischiose), ha fatto scoprire la drammatica situazione delle stesse.

È da notare che questo tipo di gestione, privatistica e di chiusura delle strutture, è stato confermato – nonostante quanto successo con il Covid – anche per i prossimi anni. Dei 235 miliardi di euro del PNRR ne vengono destinati solo 20 alla Sanità e vanno tutti alla digitalizzazione e alla telemedicina, nulla agli ospedali e alla medicina territoriale: ci si dovrà curare da casa con il computer. Le scelte governative presentano una sinistra assonanza con la “terapia domiciliare” tanto osannata da una parte del movimento novax.

Dal punto di vista comunicativo il governo ha scelto di evocare la paura per giustificare le restrizioni delle libertà individuali che ha imposto per l’emergenza: a quanto risulta dai sondaggi (e in linea con le percezioni empiriche) le paure di essere contagiati e di perdere il lavoro hanno superato di molto la paura dei migranti o quella del terrorismo.

Questo ha anche determinato che una serie di organizzazioni fasciste, sovraniste e populiste che utilizzavano migranti e terrorismo per la propria propaganda abbiano dovuto adattarsi a evocare le nuove paure per attrarre consensi. Dopo aver visto che non era sufficiente denunciare i “clandestini che sbarcano senza Green Pass” hanno aggiustato il tiro. Quando si evocano le paure poi bisogna fornire soluzioni semplici, che non possono, se ci si vuole distinguere, essere uguali a quelle autoritarie del governo. Questo è il motivo dell’ambiguità di molti partiti populisti (governativi o meno) sui vaccini, delle varie campagne per le riaperture fatte dalla destra e del relativo (e speriamo effimero) successo di Forza Nuova, che sul movimento novax ha puntato tutte le sue ultime pochissime carte.

Tutto a posto, allora? No. Perché se sono chiari gli obiettivi di chi ieri evocava il razzismo e oggi si muove in questo senso non si può dire che il problema di dieci milioni di persone condannate al limbo non esista e non si può non vedere l’assurdità di un documento obbligatorio per un vaccino che non è obbligatorio.

Spesso – e a ragione – si contesta l’antiscientificità di alcune argomentazioni novax (il 5g, il microchip…) ma si finisce per non vedere l’assoluta antiscientificità delle posizioni governative. Tutte le scelte che il governo ha fatto dall’inizio della pandemia sono state scelte politiche, senza alcuna base scientifica (anzi, spesso, contro le stesse indicazioni scientifiche).

All’inizio della sindemia il Ministero della Salute ha pubblicato un “decalogo” (ancora se ne trovano copie in giro) il cui punto 7 recitava: “Usa la mascherina solo se sospetti di essere malato o assisti persone malate”. Non c’era, ovviamente, nessuna ragione sanitaria che sconsigliasse l’utilizzo delle mascherine come misura di prevenzione. Il motivo era legato solo alla scarsità di mascherine in Italia.

Durante il lockdown i denunciati per violazione del divieto di uscire di casa sono stati il triplo dei malati di covid e i controlli di polizia sono stati 20 volte più dei tamponi effettuati nello stesso periodo: si è preferito chiedere i documenti alle persone piuttosto che vedere se fossero contagiate.

Quando una diciottenne è morta a Sestri Levante per una trombosi correlabile alla vaccinazione con AstraZeneca, il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) ha suggerito di fare la seconda dose con un altro tipo di vaccino. Hanno sostenuto, senza uno straccio di sperimentazione o trial clinico, che fosse addirittura meglio. Tutti si sono chiesti perché – se fosse effettivamente stato meglio – non lo si facesse abitualmente. Il CTS ha allora deciso che la scelta sul tipo di vaccino da usare per la seconda dose fosse di chi doveva vaccinarsi.

Poi si meravigliano che siano diventati tutti virologi.

L’età per potersi vaccinare con AstraZeneca, da quando è stato approvato il farmaco, è passata da “meno di 55 anni” a “meno di 65 anni”, all’attuale “più di 65 anni”. I trial clinici presentati per l’approvazione erano riferiti tutti a soggetti con meno di 65 anni (e questo è il motivo della prima autorizzazione), poi si è visto che il vaccino aveva controindicazioni per chi prendeva ormoni (come la pillola) e hanno deciso di farlo solo a chi, fuori dall’età fertile, non la prendesse. Il tutto senza uno studio depositato all’EMA che convalidasse questa scelta.

La dilazione del periodo intercorrente tra le due dosi di Pfizer è passato, dalle tre settimane oggetto dei trial clinici di approvazione del farmaco, a sei settimane, nonostante la stessa Pfizer sconsigliasse l’allungamento del periodo. Poi le regioni hanno fatto ognuna per conto proprio (la Campania 30 giorni tra le due dosi, il Lazio 35 e la Toscana 42): tutto molto scientifico -.-

Significative anche le scelte governative sul costo dei tamponi (sopra i 20 euro prima, poi “calmierato” a 15). L’Italia è uno dei paesi OCSE che fa meno tamponi in rapporto alla popolazione. C’è richiesta, da parte di tutto il mondo scientifico, di aumentare il numero di tamponi per monitorare (e ridurre) i contagi. Siccome questo avrebbe comportato, per una fetta della sanità privata, una perdita di guadagno significativa (il costo di un kit per il test antigenico è inferiore ai 2 euro) si è deciso di lasciare le cose come stanno, nonostante l’atteso aumento delle richieste di tamponi dato proprio dall’obbligatorietà del Green Pass.

Hanno portato la validità del Green Pass da 270 giorni a un anno. Anche in questo caso, non ci sono ragioni sanitarie (mancano dati certi sulla durata della protezione da vaccino) ma, siccome per grossa parte del personale sanitario (che si è vaccinato per primo) la validità del Green Pass scadeva tra ottobre e novembre, hanno deciso di prendersi altri tre mesi di tempo per decidere come muoversi.

Anche la scelta di imporre il Green Pass per recarsi al lavoro (compreso, per i dipendenti pubblici, il caso – assolutamente ininfluente dal punto di vista del contagio – in cui il lavoro avvenga in smart working da casa) è una scelta politica: in agosto il presidente di Confindustria Carlo Bonomi aveva chiesto l’obbligo di vaccinazione per tutti i lavoratori dipendenti. Il Green Pass per andare a lavorare è l’accoglimento, da parte del governo, di questa richiesta.

Insomma, l’antiscientificità (e il conseguente ricorso al dogmatismo per rivendicare la propria posizione) c’è sia da parte di chi sostiene le scelte governative sia da parte di chi è contrario ai vaccini. Detto per inciso, per quanto abbia scelto di vaccinarmi, delle perplessità (per esempio sulle vaccinazioni in gravidanza o in allattamento e sulle vaccinazioni in età pediatrica) le ho anch’io e penso che siano tutt’altro che antiscientifiche, visto che mancano studi scientifici in materia.

Il governo ha deciso di imporre surrettiziamente, attraverso il Green Pass, la vaccinazione obbligatoria. Oltre all’adesione ai desideri di Confindustria (che vuole scaricare sui lavoratori i costi e i rischi della pandemia) è stata motivata politicamente dalla necessità di non modificare la politica sanitaria seguita in questi anni.

Il governo non ha potuto imporre per legge la vaccinazione obbligatoria perché tutti i vaccini hanno avuto dall’EMA, l’autorità dell’Unione Europea che controlla i farmaci, un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata (CMA). Le autorizzazioni di questo tipo comportano alcune conseguenze. La prima è che la responsabilità degli eventuali danni che il vaccino dovesse causare ricadono sull’EMA stessa e non sulle industrie farmaceutiche che li producono. La seconda è che non è possibile, con questo tipo di autorizzazione, imporre la vaccinazione obbligatoria. È da tener presente che, nonostante a oggi siano state somministrate 6 miliardi e mezzo di dosi di vaccino nel mondo, l’EMA continua a mantenere la condizionalità della propria autorizzazione.

La “furbata” governativa è stata di utilizzare il Green Pass per aggirare questo divieto. Il divieto ha una motivazione importante. I vaccini sono stati autorizzati perché “i benefici del vaccino sono superiori ai rischi”. La valutazione rischi/benefici collettiva non è detto però che coincida con la valutazione rischi/benefici individuale ed è per questo che, nei regimi non autoritari, viene lasciata la scelta al singolo soggetto.

Cerco di essere più chiaro. L’ultimo rapporto AIFA dichiara che, fino al 26 settembre, sono stati segnalati 608 decessi con una possibile correlazione all’assunzione del vaccino. Di questi solo 16 hanno una correlazione accertata con l’avvenuta vaccinazione. In ogni caso, anche se tutte le segnalazioni fossero state correlate, sarebbe comunque vantaggioso, per la collettività, vaccinarsi (608 morti sono molti meno degli oltre 130.000 da inizio pandemia). Il singolo individuo però può avere una valutazione diversa. Se sono giovane e in buona salute, senza patologie note, ho grosse probabilità in caso di contagio di non avere alcun tipo di conseguenze, anche letali (come nel caso della diciottenne di Sestri Levante), che invece potrei avere se prendessi il vaccino.

Per questo è importante che la scelta sia individuale e non imposta. Del resto questa è la scelta di tutti gli altri paesi europei. Nel caso del vaccino anticovid non è neanche contrapponibile la libertà di un individuo a non vaccinarsi con quella di un altro individuo a non infettarsi. La contagiosità (e il rischio di contrarre la malattia), sebbene ridotta, rimane. Le precauzioni per evitare la possibilità di contagio vanno comunque mantenute e le verifiche sul proprio stato di salute, attraverso i tamponi, vanno comunque fatte.

La scelta di libertà non significa dover prendere posizione all’interno di due visioni contrapposte e altrettanto sbagliate: da un lato l’accettazione aprioristica dello Stato e delle sue scelte politiche in nome dell’emergenza sanitaria, dall’altra la negazione dell’esistenza del virus e del metodo scientifico, sostenendo improponibili teorie negazioniste e complottiste.

Scegliere la libertà significa contrastare tutte le misure, che hanno natura politica e non sanitaria, di compressione della libertà individuale e collettiva. L’obiettivo non è tornare alla “normalità”, perché é quella normalità che ha determinato l’emergenza che stiamo vivendo. L’obiettivo deve essere quello di avere una vita non intossicata, oltre che dal Covid, dallo sfruttamento e dall’autorità.

Fricche

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