Piazze che si riempiono in questo 8 marzo di sciopero e di lotta che torna ad animare le nostre città e quelle di tutto il mondo. Una giornata che già da qualche anno si caratterizza anche attraverso lo sciopero proprio per segnare, in una data così significativa, un momento forte di rottura, d’interruzione, di cesura da tutto ciò che il lavoro comporta, soprattutto per le donne, in termini di sfruttamento, oppressione, subalternità, precarietà, imposizione di part time spesso fasulli, discriminazione salariale, soprusi e molestie.
Si sciopera anche per chi non può farlo, per chi non ha una situazione lavorativa contrattualizzata. Si sciopera anche per chi è incatenata al ruolo domestico, al lavoro di cura, a quelle attività che il patriarcato assegna alle donne ritenendole confacenti alla loro “natura”: relegate al compito riproduttivo, apparentemente fuori dalle dinamiche del mondo del lavoro ma invece violentemente inserite in un modello di divisione sessuale che la crisi, la disoccupazione, il taglio delle spese sociali rendono ancora più opprimente, facendo della famiglia un nucleo di convivenza obbligata fondata sulla convergenza del reddito come condizione di sopravvivenza, e riportando all’interno della famiglia – scaricate interamente sulle donne – quelle attività che competerebbero ai servizi sociali.
Ha un senso profondo scioperare in questa giornata. Ed ha senso stare in piazza, gridare e rendere visibili i propri corpi. Ora più che mai c’è bisogno di far sentire la propria voce contro un sistema patriarcale e sessista che questo governo incarna ancora più di altri, un sistema incardinato sulla triade mortifera “dio-patria-famiglia”, che si proclama difensore della vita, ma che vuole dominare le nostre vite azzerando la libera scelta, vuole sopprimere vite nei mari, nelle carceri, nelle guerre, ovunque.
Ora più che mai è indispensabile esserci, nelle piazze dell’otto marzo ed oltre, per opporsi alla violenza del patriarcato, che ha vari volti perché è violenza sistemica. È violenza sessuale alimentata e narrata secondo una visione sessista. È violenza economica basata sullo sfruttamento dei corpi e sulla divisione del lavoro su base sessuale. È violenza delle istituzioni che riproducono sessismo nelle aule dei tribunali, nelle caserme, nelle scuole, negli uffici di questura, che patologizzano e psichiatrizzano le persone trans o intersex. È violenza del militarismo, del machismo, della brutalità del dominio, del suprematismo coloniale, della volontà predatoria di corpi e di terre ritenute a disposizione del più forte.
Ed è violenza ostacolare l’accesso alla sanità imponendo tagli di servizi, è violenza accanirsi contro la salute sessuale chiudendo consultori, mettendo ostacoli a contraccezione, aborto, prep, percorsi di transizione, salute sessuale delle persone anziane. È violenza trattare le donne e le soggettività con utero come contenitori di feti, volerle inchiodare al destino riproduttivo attraverso martellanti campagne natalità, attraverso ridicoli incentivi a fare figli. La recente legge di bilancio ha varato le misure a sostegno della maternità che si concretizzerebbero in una riduzione contributiva sbandierata come vantaggio immediato in busta paga per chi fa più figli. Una misura di per sé discutibile, che richiama palesemente il ventennio fascista e le campagne “figli per la patria”. Una misura che si rivolge a una minuscola platea delle donne, quelle che, oltre ad avere 3 figli, hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre si esplicita a chiare lettere che sono escluse tutte coloro che sono adibite a lavori domestici e di cura anche se a tempo indeterminato: una esclusione diretta specificamente contro le molte donne straniere che svolgono queste attività. Ridicola e discriminante la platea delle beneficiarie così come ridicoli sono i tanto sbandierati aumenti in busta paga: da un minimo di 21€ per chi ha reddito annuo lordo di 10.000€, fino a 74€ per chi ha reddito annuo lordo di 35.000€; e forti dubbi anche sulla possibilità che le riduzioni contributive comportino una riduzione economica sulla pensione futura. Dopo che i governi precedenti ci avevano messo del loro con i vari bonus bebè, e addirittura con la concessione di terre da dissodare per le famiglie con un minimo di tre figli, ci mancava la detassazione meloniana per accrescere tutto il peso di una violenza economica che si salda con l’imposizione del ruolo riproduttivo.
Raramente abbiamo sentito messaggi più martellanti di quelli giunti in quest’ultimo anno: “se le donne fanno meno figli avremo la sostituzione etnica e gli stranieri saranno più di noi!” ha detto un ministro fascista qualche mese fa. “Se le donne fanno meno figli non ci saranno più lavoratori attivi per pagare le pensioni” hanno lugubremente sentenziato i sindacati. Landini, pensando di essere più a sinistra, ha detto “date più welfare, così le donne faranno sicuramente più figli e potremo avere lavoratori attivi per pagare le pensioni!”, dando anche lui per scontato che le donne quello debbano fare per natura.
È anche contro tutto questo che scioperiamo e che lottiamo a fianco delle donne che vogliono affermare la loro autodeterminazione e a fianco di tutte le soggettività che si sottraggono al tentativo violento di normare i loro corpi e di assegnare un ruolo sessuale funzionale al sistema patriarcale. Disertiamo il patriarcato! Nelle piazze dell’otto marzo e sempre!
Patrizia Nesti