25 aprile e Primo Maggio sono giornate da celebrare e festeggiare? Quale liberazione si può mai celebrare quando la situazione che stiamo vivendo ci urla ogni giorno che dietro l’angolo c’è la guerra per tutti e tutte, che bisogna riarmarsi, che bisogna obbedire, preparare il kit di sopravvivenza per 72 ore e scavarsi un buco sotto terra come fanno in Polonia o in Svizzera con la restaurazione dei vecchi rifugi antiatomici già presenti nelle abitazioni? Quando orrendi massacri si stanno svolgendo sotto i nostri occhi in Palestina, in Sudan, in Congo, in Ucraina e altrove nell’indifferenza generale?
Quale liberazione si può mai ricordare quando si promulgano leggi costruite apposta per colpire il dissenso in qualsiasi forma si manifesti, quando la carcerazione e la criminalizzazione dei comportamenti non conformi sono ormai diventati l’unico orizzonte dei governi, quando il mega penitenziario di El Salvador voluto dall’autocrate emergente, Nayib Bukele, rappresenta il sogno di tanti governanti e in Albania si compie l’ennesimo sfregio con il campo di concentramento di Gjader?
Quale Primo Maggio si può mai festeggiare quando l’offensiva contro il mondo dei lavoratori e delle lavoratrici è al suo apice, in questa fase storica, con l’attacco alle condizioni di lavoro, con gli omicidi e l’intensificazione dello sfruttamento, l’erosione dei salari, il diniego della stessa possibilità di manifestare?
La guerra di classe è in pieno svolgimento ovunque ormai da anni, con l’obiettivo dichiarato di maggiore ricchezza per ‘chi sta sopra’ a scapito di ‘chi sta sotto’. Oggi questa guerra trova nuova linfa nel rilancio del nazionalismo nel quadro del ridisegnarsi inter imperialistico delle zone d’influenza. La crisi di quella infausta globalizzazione neoliberista – tanto combattuta dai movimenti a cavallo del duemila (ricordiamoci di Carlo Giuliani) – ha dato fiato ai nuovi protagonismi nazionali che dagli Stati Uniti alla Cina, alla Russia, all’India sgomitano per assicurarsi maggiori fette di potere economico. La paura di un conflitto mondiale, che viene diffusa a piene mani in questo contesto, intende giustificare le politiche di riarmo e costringere i ceti popolari a subire tagli significativi a favore degli armamenti – nei servizi sociali, nella sanità, nella scuola – e a mettersi l’elmetto. L’Unione Europea non è estranea a tutto questo, anzi cerca di recuperare il terreno perduto per fare sentire la sua voce nel coro imperialista. Abbiamo già scritto di questo su uno dei numeri scorsi di UN, quello che si può aggiungere è che se un paese come la Grecia, che ha subito dalla UE un’operazione spaventosa di saccheggio delle proprie risorse che ha comportato un numero indefinito di morti per carenze sanitarie e deficit alimentari, arriva a programmare una spesa di 25 miliardi per l’ammodernamento delle sue forze armate; se un paese come la Germania, giostrando sui numeri in parlamento, arriva a modificare la propria costituzione per potere spendere diverse centinaia di miliardi per riarmarsi (si parla di una cifra tra i 1000 e i 1500 nei prossimi dieci anni) c’è poco da stare allegri.
Tra il burro e i cannoni c’è già chi ha scelto. E quando si costruiscono cannoni prima o poi bisogna usarli.
Il gigantesco risiko in corso è ulteriormente alimentato dalla guerra dei dazi, le cui uniche vittime sono e saranno ceti medi e classi popolari alle prese con aumenti dei prezzi, ricollocazione delle produzioni, aumento della povertà. Ma la vita di ‘chi sta sotto’ non interessa a ‘chi sta sopra’, per pochi e ricchi che siano. Il campo di concentramento e di annichilimento è il nuovo paradigma della nostra civiltà, ove i ceti dominanti sono disposti a tutto pur di conservare il loro potere. Le immagini che ci arrivano dagli USA di uomini che dopo essere rastrellati e messi in catene vengono espulsi, o quelle delle persone migranti costrette in quel limbo che sono i CPR italiani e albanesi, si sposano con quelle dei campi di detenzione di Gaza e della Cisgiordania, delle tendopoli sudanesi, ove un’umanità sempre più disperata è alla ricerca di una sempre più impossibile via d’uscita. Mai come ora la potenza della civiltà industriale, tecnologica, digitale, spaziale, robotica dalle mille possibilità di sviluppo e di soluzione delle varie problematiche insite nella condizione umana è così lontana e antagonista rispetto ai bisogni, sia pure elementari, delle popolazioni. Il continuo sbandieramento dei valori della civiltà occidentale cerca di occultare il dato di fondo, che al di là delle formule adottate, democratiche o autocratiche, è sempre l’interesse, cioè il prevalere del dominio dei pochi sui molti.
Leggi e costituzioni sono sempre il prodotto dei rapporti di forza in gioco e pensare di utilizzarle per una nostra liberazione è una mera illusione, soprattutto ora quando tutto gioca a nostro sfavore. Ribaltare i rapporti di forza diventa quindi un imperativo per rimettere la palla in gioco.
Ci fu un’epoca non lontana dominata da una guerra sanguinosa (in Vietnam), dalla contrapposizione di due blocchi nucleari (USA e URSS) che gestivano in proprio le loro aree di influenza (colpi di Stato militari gestiti dagli USA in Sud America, in Europa e in Asia così come in Brasile, Cile, Uruguay, Argentina, Grecia, Turchia, Indonesia, e gestiti dall’URSS in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia). In quell’epoca i fascismi erano al potere in Spagna e Portogallo con Franco e Salazar. L’apartheid dominava in Sud Africa e i colonialisti belgi, portoghesi e francesi massacravano le popolazioni in lotta per l’indipendenza in Algeria, Angola e Congo. Ci volle la rivolta morale e materiale della gioventù di tutto il mondo per mettere in discussione quel modello di oppressione e di sfruttamento, per dare l’avvio ad una stagione che, sia pure per un breve periodo (la breve estate del libertarismo?), riuscì a mettere i bastoni nelle ruote dell’oppressione e dello sfruttamento. Da allora quella rivolta è stata progressivamente trasformata a fenomeno quasi di costume, ma è una narrazione strumentale le cui vere motivazioni risiedono nella paura che un nuovo movimento globale, a partire dal basso, sappia ribaltare i rapporti di forza attuali. Lo stesso è avvenuto con la resistenza armata al fascismo nel periodo del 1943-’45, la cui narrazione è stata spogliata dei contenuti di classe che caratterizzavano le componenti rivoluzionarie per trasformarla in una melassa patriottarda e nazional popolare cui perfino i meloniani post fascisti possono aderire.
Per quanto riguarda il Primo Maggio il discorso è in parte simile: dalla sua istituzione, nel luglio del 1889, come giornata internazionale di lotta per imporre la riduzione dell’orario di lavoro, questa scadenza ha rappresentato la volontà proletaria di emancipazione e di liberazione dal lavoro salariato con scioperi, conflitti, manifestazioni, cortei, scontri con polizie ed eserciti. La sua progressiva legalizzazione/trasformazione in una banale festività, dedicata tra l’altro dalla chiesa nostrana a san Giuseppe lavoratore, e celebrata – tranne poche importanti eccezioni e in poche località – da innocui cortei di burocrati sindacali, ha significato da noi la cancellazione nella memoria proletaria di un esempio importante d’internazionalismo proletario e di conflitto di classe. Non così in altre parti del mondo, come in Turchia, dove le manifestazioni del 1° maggio sono da sempre ostacolate dagli sgherri del potere.
Se oggi vogliamo parlare di 25 aprile e di Primo Maggio dobbiamo farlo nel contesto attuale, per denunciare e ostacolare il clima repressivo e autoritario che circonda ogni forma di dissenso, per rendere chiaro ed evidente lo scenario di guerra incombente, per costruire un’opposizione di massa a tutte le politiche e le industrie di guerra con annessi e connessi, per rivitalizzazione il conflitto di classe e la redistribuzione della ricchezza sociale.
Che queste due giornate ritornino ad essere sinonimo della lotta internazionalista intransigente, contro l’autoritarismo statalista e oppressore e il capitalismo sfruttatore, per la giustizia sociale e la libertà!
Massimo Varengo