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Uomini, territori, desideri, capitale. Per un’analisi di classe dei disastri naturali.

Uomini, territori, desideri, capitale. Per un’analisi di classe dei disastri naturali.

Uno dei ricordi “politici” più vivi che ho di mio padre è legato al Vesuvio. Dalla nostra casa il vulcano si vedeva perfettamente – non a caso la strada dove si trova il palazzo, situata a Napoli est, nelle zone de L’Amica Geniale, si chiamava “via Vesuvio”. Si vedevano nitidamente anche le colate dell’ultima e di precedenti eruzioni e, su ognuna di queste, stavano crescendo come funghi tutta una serie di piccole cittadine, ognuna delle quali aveva od avrebbe raggiunto le decine di migliaia di abitanti. Molte persone, infatti, erano state attratte in quelle zone dai prezzi bassi delle case e dei terreni, decisamente molto inferiori a quelli della città, persino di quelli di periferie degradate come quella in cui abitavamo io e la mia famiglia. C’era però altro che aveva invogliato decine e decine di migliaia di persone a situare la loro abitazione letteralmente nella bocca del drago. Gli speculatori edilizi avevano infatti sparso in giro la voce – giocando sul fatto che dopo l’ultima eruzione del 1944 il classico pennacchio che, per alcuni secoli, aveva caratterizzato il vulcano era venuto a mancare – che il Vesuvio “era un vulcano spento”, per cui le sue pendici potevano tranquillamente essere abitate senza pericolo. Ecco, il ricordo “politico” che ho di mio padre è la sua continua lotta contro la bufala del “vulcano spento”: ricordo il suo timore per le decine di migliaia di morti che la speculazione edilizia avrebbe creato nel futuro in nome di un profitto presente. Ricordo anche come mio padre diceva che la bufala, oltre a servire agli speculatori per tranquillizzare gli acquirenti, aveva tranquillizzato anche l’animo di chi, con i pochi spiccioli messi da parte in una vita di lavoro, si stava costruendo la casa autonomamente – anch’egli nella bocca del drago.

Quando, la mattina del 26 novembre 2022, un’alluvione si è abbattuta sull’isola campana di Ischia – in particolare modo il comune di Casamicciola Terme – provocando, al momento in cui scrivo,  undici vittime accertate, un disperso, cinque feriti, milletrecento persone sfollate e trenta abitazioni colpite, il secondo disastro naturale in Italia nell’autunno del 2022, dopo che dodici persone sono state uccise nell’alluvione delle Marche della notte tra il 15 ed il 16 settembre, le parole di mio padre mi sono risuonate alla mente. Oltre ad essere di per sé un vulcano, sia pure con una storia eruttiva decisamente minore rispetto al Vesuvio, l’isola d’Ischia è geologicamente fragile. Per rifarci solo grosso modo agli ultimi cent’anni, il 24 ottobre 1910 una notevole perturbazione meteorologica, che crea gravi danni e duecento morti nella Costiera Amalfitana, provoca enormi danni anche ad Ischia: dal Monte Epomeo scende di tutto, Casamicciola è allagata e travolta dalla melma così come Lacco Ameno, per un totale di quindici morti, centinaia di feriti, migliaia di sfollati. Notevolissimi i danni alle strutture termali oltre che ad altre strutture civili; anche in questo caso ad essere trascinate via, oltre a persone e case, sono automobili ed autobus. L’8 giugno 1978 una grande frana crolla dalla collina sopra la zona delle Fumarole della spiaggia di Maronti, uccidendo cinque persone; il 30 aprile 2006 una frana di fango scesa dal Monte Vezzi abbatte una casa nella frazione Pilastri uccidendo quattro persone; il 10 novembre 2009 a Casamicciola una frana trascina via numerose auto e perde la vita una ragazza; il 25 febbraio 2015 uno smottamento presso la sorgente dell’Olmitello, nel comune di Barano, travolge ed uccide un uomo… e ci siamo limitati solo grosso modo agli ultimi cent’anni.

Allora come oggi le cause sono sempre le stesse: la totale incuria del territorio che, sia con il disboscamento selvaggio di sempre sia con la recente cementificazione, indebolisce il terreno ed innesca le alluvioni in seguito a forti precipitazioni. Insomma, l’evento di fine novembre non era affatto imprevisto o imprevedibile: eppure, pressoché nulla è stato fatto per mettere in sicurezza il territorio e quel poco è stato lasciato decadere per mancanza di manutenzione. Certo, adesso si invoca l’abusivismo edilizio: proprio perché il territorio non era in sicurezza alcune di quelle case non dovevano venire costruite, non era il caso di fare sanatorie edilizie, ecc. D’altronde, lo stesso si dovrebbe dire per molte zone densamente abitate del nostro territorio: oltre due comuni italiani su tre sono ad alto rischio idrogeologico, per un totale di oltre 21.551 chilometri quadrati (13.760 km2 di territorio a rischio frana, 7.791 km2 di territorio a rischio alluvione) e, infatti, disastri del genere avvengono regolarmente in tutte le parti d’Italia. Lo stesso, ugualmente, si potrebbe dire, del rischio vulcanico con cui siamo partiti all’inizio: anche qui si è costruito abusivamente, ecc. Poniamoci però una domanda: perché le persone vanno a vivere in luoghi così pericolosi? Di là della coscienza dei rischi effettivi che può essere più o meno presente nei singoli, la risposta credo sia abbastanza semplice: specie a ridosso di eventi drammatici precedenti, le zone a rischio sono quelle in cui case e terreni crollano di prezzo. Insomma, a volte correre il rischio di abitare in determinati luoghi per vari motivi pericolosi non è una scelta: per le persone a basso reddito è quasi sempre una necessità, se si vuole un tetto sulla testa. Paradossalmente, dopo che tali persone hanno iniziato a popolare un territorio del genere, si vengono a creare utilità ed infrastrutture che lo rendono maggiormente appetibile e, pertanto, arrivano sempre più ulteriori persone ad abitarlo – il che amplifica il rischio, oltre che il valore di case e terreni. In caso di rischio idrogeologico, insomma, ad un certo punto l’aumento del rischio fa sì che gli ultimi arrivati si ritrovano in una situazione paradossale: pagano di più per ottenere uno spazio edilizio che la loro stessa presenza dequalifica ancora di più.

Le logiche del Capitale e della gerarchia sociale sono anche in questo caso un meccanismo mortale: gli esseri umani, se potessero, eviterebbero di andare ad abitare in luoghi che la memoria storica ed il sapere scientifico qualificano inequivocabilmente ad alto rischio. Il sociologo tedesco Max Weber utilizzò la metafora della “gabbia d’acciaio” per riferirsi alle costrizioni invisibili che la società gerarchica esercita sugli individui; ora, se smettiamo di guardare ai casi singoli ed allarghiamo lo sguardo all’insieme, ha poco senso ragionare sulla storia della singola abitazione e della singola famiglia che l’abitava, gioco cui si stanno dedicando sia i media sia il chiacchiericcio interpersonale. Come terminava la poesia di Roberto Roversi – musicata da Lucio Dalla – Parole Incrociate: “Sei le colonne in fila, il gioco è terminato | Nel bel prato d’Italia c’è odore di bruciato | Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende | Attenzione, dentro ci siamo tutti, è il potere che offende!”

Enrico Voccia

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