L’articolo di Enrico Moroni “Una possibile risposta - Note all’articolo di Cosimo Scarinzi” pubblicato su numero 37 dell’11 dicembre 2016 di Umanità Nova prende le mosse da una considerazione che merita, a mio avviso, un chiarimento preliminare da parte mia. Enrico scrive, infatti:
“Debbo confessare che ho letto con un certo stupore e curiosità l’articolo del compagno Cosimo Scarinzi (ci si conosce da una vita)… innanzitutto sollevando un interrogativo: perché ora tali considerazioni?”
Ammetto che leggendo questa frase mi è venuto subito in mente da quanto conosco Enrico Moroni e che, effettivamente, qualche tempo è passato dal nostro primo incontro. Il fatto che si continui a discutere ed ad appassionarsi alla lotta mi sembra comunque un fatto positivo.
Ora, va detto che vale sia per l’articolo al quale fa cenno Enrico che per quello che lo ha seguito (1), fatto salvo che si tratta di eventi certo non straordinari, quanto afferma Democrito “Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”.
Semplicemente – per quel che riguarda il caso - è avvenuto che la redazione di Umanità Nova chiedesse a me, come ad altri, una cronaca/commento sull’andamento dello sciopero del 4 novembre, che io informassi i compagni, come mi pareva doveroso, che io avevo maturato, e non ero il solo, serie critiche nei confronti della costruzione e conduzione della mobilitazione, che i compagni della redazione valutassero che una riflessione sull’argomento poteva essere ospitata sulle pagine del giornale.
Per quel che riguarda l’argomento della nostra discussione, è bene ricordare come molti compagni e molte compagne avessero fatto rilevare prima dello sciopero, quantomeno nella discussione interna alla CUB ma mi risulta anche altrove, tre cose che continuano a sembrarmi, a distanza di un paio di mesi di non poco momento:
- il fatto che lo sciopero CUB – SGB – USI AIT del 4 novembre venisse a breve distanza dallo sciopero USB ed altri del 21 ottobre poneva i militanti, quantomeno quelli della CUB ma credo non solo, nella difficile situazione di spiegare ai colleghi di lavoro le ragioni di una separazione che a un non esperto di diritto del lavoro non sono chiarissime e soprattutto in quella di spiegarli ai lavoratori che non raggiungono ma che potevano essere interessati allo sciopero;
- era grave poi il fatto che uno dei sindacati che aveva promosso ed animato lo sciopero del 18 marzo 2016, il SI Cobas, avesse scelto di scioperare il 21 ottobre rompendo, per ragioni non esplicitate, a quanto ne so, ufficialmente, il raggruppamento “anticoncertativo” a favore di quello neoconcertativo;
- in ultimo, ma non per rilevanza, il 4 novembre i lavoratori del trasporto non hanno potuto scioperare con l’effetto di depotenziare lo sciopero sia dal punto di vista dell’impatto effettivo che da quello della visibilità mediatica sebbene i fautori ad oltranza dello sciopero del 4 novembre avessero usato, fra gli altri, proprio la necessità di non scioperare nello stesso giorno di USB per evitare che la poderosa macchina da guerra mediatica di USB, che effettivamente ha molto denaro ed è meglio attrezzata dal punto di vista dei rapporti con i media, oscurasse l’iniziativa della CUB e degli altri sindacati di orientamento anticoncertativo.
Ho ritenuto opportuno ricapitolare le ragioni contingenti della critica di molti compagni e compagne alla scelta del 4 novembre perché si comprendano appieno le ragioni del “perché ora tali considerazioni”.
D’altro canto, lo stesso Enrico Moroni nel suo articolo scrive:
“È anche vero che certe cose si possono fare come semplice iniziative di propaganda, come assemblee ,manifestazioni, volantinaggi, ma tutto questo è il corollario di un necessario sbocco dello sciopero. L’organizzazione sindacale non è un circolo culturale, ma un organismo la cui attività principale è legata alla sua capacità d’intervenire attraverso lo sciopero, altrimenti nega la sua missione principale.”
Appunto “intervenire attraverso lo sciopero” e, se si vuole intervenire attraverso lo sciopero, dovrebbe essere massima cura di chi lo promuove, e a maggior ragione in situazioni non facili, l’operare per la massima estensione ed efficacia possibili, non dico desiderabili.
E tutto ciò, in occasione del 4 novembre non solo non è stato fatto al meglio ma non ci si è nemmeno provato e ciò rende opportuno, e forse necessario, andare al di là del caso per cogliere la necessità e cioè le ragioni di fondo di quanto è avvenuto.
Ripartirei da un’altra considerazione dello stesso Enrico Moroni:
“Già prima, anche quando con lo sciopero generale si riusciva ad unificare il sindacalismo di base, lo si sapeva bene che era di un impatto comunque inferiore a quello che realmente occorreva per raggiungere gli obbiettivi preposti, ma è già molto importante che il sindacalismo alternativo riesca a mobilitare e colpire nei luoghi di lavoro dove ha conquistato uno spazio importante.
Alla domanda perché fare dei scioperi generali che non hanno l’impatto dovuto al raggiungimento immediato degli obbiettivi proposti, una prima risposta, a mio avviso, è la coerenza, perché di fronte a tutto quello che sta accadendo, leggi e accordi che eliminano progressivamente le principali conquiste che sono costate dure lotte, e la critica che facciamo alle Confederazioni sindacali che avvallano tutto questo con una finta opposizione a parole oppure danno sfogo alla pressione interna con qualche finto sciopero, non possiamo non dare comunque una nostra risposta.”
La parola chiave dell’argomentazione di Enrico Moroni è “coerenza”, si tratta però di capire coerenza a cosa?
Se si tratta della coerenza rispetto alle proprie posizioni, siamo di fronte ad un atteggiamento eticamente condivisibile ma privo di effettualità pratico/sensibile.
Nello sciopero, infatti, si chiama alla mobilitazione non un gruppo di militanti politico/sindacali dai saldi convincimenti ma l’assieme dei lavoratori e, anche se si è minoranza non si può né deve essere culturalmente minoritari e, al contrario, ci si deve proporre di convincere, coinvolgere, quantomeno dialogare con il maggior numero possibile di lavoratori.
Solo se collocata in questa prospettiva l’azione di minoranza non è minoritaria e, riprendendo una vecchia definizione, siamo minoranza agente e non minoranza testimoniante.
A questo punto credo sia possibile un’ulteriore considerazione o, forse, un’ulteriore domanda e cioè se lo sciopero, visto dal punto di vista soggettivo, e mi riferisco a una soggettività collettiva non, o non solo né prioritariamente, all’opinione individuale di questo o quel lavoratore, dei lavoratori debba essere un atto di liberazione e rottura e, quindi,a rigore un piacere o l’ottemperanza a un dover essere, se debba liberare energie o assorbirne nello stesso, faticoso, percorso di costruzione dello sciopero stesso.
In altri termini, se pensiamo a mobilitazioni di minoranza come quelle che si pongono in essere, comunque e quale che ne sia l’arco dei promotori, in occasione degli sciopero generali del sindacalismo alternativo, come a scintille che dovrebbero incendiare la prateria, si devono sviluppare tutte le azioni necessarie o, quantomeno, utili a questo scopo e se non lo si fa ed anzi si fa il contrario, ci si dovrebbe, credo, interrogare sulle ragioni di questa singolare indifferenza.
Una spiegazione non irragionevole, credo, è una relativa separazione – non solo dal punto di vista della collocazione nei processi produttivi ma anche, e sovente soprattutto, da quello del modo di affrontare i problemi - dei gruppi dirigenti e dello stesso quadro attivo di ampia parte del sindacalismo alternativo dall’esperienza di vita e di lavoro della nostra classe e il predominare di considerazioni che fanno riferimento all’identità se non agli interessi delle diverse organizzazioni.
Per evitare equivoci, non mi riferisco solo al problema del funzionariato che esiste certamente ma che, fatta la parziale eccezione di USB, è poca cosa nel campo del sindacalismo alternativo ma anche a un processo che sta fra l’esistenziale e il culturale e cioè l’identificazione, sino ad un certo punto inevitabile e persino prova di buona salute psichica ma devastante quando diviene feticistica, con la “propria” comunità militante.
Se ciò vero, si spiega perché si discuta molto di cosa fa questo o quel gruppo e poco, se se ne discute, della situazione della nostra classe e della sua disponibilità alla lotta ma ciò dimostra la natura quantomeno ambigua di ciò che chiamiamo sciopero generale.
Per, provvisoriamente, concludere, la pur rispettabile ed anzi necessaria coerenza non può essere una sorta di tavola dei comandamenti alla quale tenersi per la propria sicurezza ma il riferimento forte ad un programma politico sindacale che si traduce in azioni funzionali a questo stesso programma.
E, se è così, la pratica degli “scioperi generali” del sindacalismo alternativo che a volte ha funzionato e in diversi casi si è rivelata uno stanco rituale va, credo, sottoposta alla medesima critica che volgiamo alle relazioni sociali dominanti e alle proposte politiche che nascono nel movimento, una critica che, bruciando l’inessenziale e il nocivo, liberi quanto effettivamente serve allo sviluppo del movimento di classe.
Cosimo Scarinzi
“Uno sciopero generale che ci interroga” su Umanità Nova del 10 novembre e “Prospettiva realizzabile o luogo comune?” su Umanità Nova del 19 novembre