Una pace senza confini e senza nazionalismi. Oltre 2000 a La Spezia contro la guerra e chi la arma.

Alla manifestazione che si è svolta a La Spezia sabato 31 maggio hanno partecipato circa 2000 persone e numerose realtà antimilitariste, pacifiste e solidali della Liguria e delle regioni vicine. Dietro lo striscione del Coordinamento antimilitarista di Carrara si sono raccolte realtà antimilitariste e libertarie che hanno dato un importante contributo alla manifestazione.  Il Coordinamento Antimilitarista di Carrara si è impegnato fin dall’inizio nell’organizzazione e nella riuscita della manifestazione, che è stata un momento significativo di lotta in una città piena di basi militari e di industrie di armi come La Spezia.

Di seguito, l’intervento di “Badabing”:

Ciao a tutte e tutti,
vorrei per prima cosa ringraziare chi ha organizzato negli scorsi mesi e chi ha deciso di partecipare a questo corteo oggi: dopo più di 20 mesi di genocidio a Gaza, dopo più di 75 anni di pulizia etnica, apartheid, colonialismo d’insediamento nella regione della Palestina, quando l’abitudine all’orrore e la stanchezza rischiano di prendere il sopravvento e quando i riflettori mediatici si spengono poco alla volta, questo è il momento più delicato.
La tentazione di chiudere gli occhi davanti a questo orrore senza fine può essere forte: ognuno, d’altronde, ha un limite al dolore che può sopportare, è umanamente comprensibile.
Politicamente, però, non possiamo permetterci di distogliere lo sguardo, se vogliamo la fine di questo orrore.
Per questo è importante, anche oggi, essere in tante a denunciare il fascismo dello stato sionista, la storica complicità degli stati europei ed occidentali, ed il processo di militarizzazione della società che stiamo vivendo.
Con questo intervento voglio provare ad allargare lo sguardo sui motivi che ci portano qui a ribellarci ad un genocidio, voglio provare a scavare un po’ più in fondo alla radice del problema.
Per farlo parto proprio dalla Palestina, e da quello che mi ha insegnato.
La prima volta che sono stato in Palestina ho imparato che c’è una differenza abissale tra pace e giustizia. Io ad oggi ho difficoltà a parlare di pace, perché so che senza giustizia la pace è solo una finzione. Anzi, peggio. La pace di cui parlano gli stati è in realtà pacificazione sociale, ottenuta con la sorveglianza, la repressione, la militarizzazione della società. È la pace che serve a mantenere il potere in mano a pochi, la pace è quel periodo tra due guerre in cui affinare gli strumenti di controllo e sottomissione della popolazione.
La giustizia segue un’altra strada, quella della libertà e dell’uguaglianza. La strada che porta alla radice dei conflitti.
Non può esistere giustizia senza il superamento dei confini entro cui provano a costringerci, ed uso il termine “confine” in senso lato, perché non sono solo le frontiere ad opporsi all’autodeterminazione, o a tracciare il limite tra chi è uguale a noi e chi no.
I confini con cui ci scontriamo ogni giorno sono quelli imposti dal patriarcato, come il binarismo di genere e l’eterosessualità obbligatoria; quelli del suprematismo bianco e del razzismo, con la costruzione e disumanizzazione dell’”altro”, il “diverso”; sono i confini mobili dell’abilismo, quel sistema che produce discriminazione e impone la definizione di disabilità su alcuni corpi, limitandone le possibilità; sono i confini di classe, che garantiscono ai padroni e ai ricchi il possesso dei corpi altrui salariati; sono i confini dettati dallo specismo, che distingue l’essere umano dalla natura e pone il primo al di sopra della seconda per giustificarne lo sfruttamento; e ci sono poi i confini veri e propri, frontiere esterne ed interne che separano persone che sono semplicemente nate in nazioni diverse.
Tutti questi confini sono solo delle costruzioni culturali, con un preciso intento politico: non hanno nulla di naturale, e non sono eterne. Il loro scopo è quello di legittimare e conservare quel sistema gerarchico a cui buona parte dell’umanità, con responsabilità e privilegi diversi, è costretta a sottostare.
Tra tutte queste forme di dominio dentro cui cresciamo e a cui siamo educate ce n’è una in particolare per cui siamo qui oggi qui a La Spezia, città fortemente militarizzata e sede dell’industria bellica: il nazionalismo.
Le frontiere nazionali non si limitano a dividere dei territori, ma sono uno strumento intorno a cui i governi costruiscono l’idea di popolo. I confini nazionali non sono solo delle linee arbitrarie tracciate su una mappa, ma sono un dispositivo per giustificare guerre, sfruttamento, discriminazione. È in nome della nazione che gli stati armano gli eserciti e ci mandano a morire, legalizzando l’omicidio di massa a beneficio del complesso militare-industriale, è in nome della patria che rinchiudono persone nei CPR e ne lasciano affogare altre in mare, è per la sicurezza nazionale che aumentano i poteri delle forze dell’ordine, puniscono vendicativamente le persone rinchiudendole in carcere, dove applicano metodi di tortura come il 41bis.
Ma cos’è la nazione? Chi decide chi ne fa parte? Cos’è la sicurezza di cui parlano se non il mantenimento del privilegio di classe e del potere coercitivo nelle mani di pochi?
Queste sono tutte misure che fanno parte di quella guerra interna contro le persone marginalizzate e contro chi prova a disertare questi sistemi di oppressione. Guerra interna che è sempre funzionale all’imposizione della guerra esterna.
Quello che gli Stati cercano di fare è dividerci, spingendoci a discriminare le persone in base a delle caratteristiche assegnate alla nascita, anziché ad allearci in base ai nostri interessi e bisogni: ci spingono, ad esempio, a distinguere i popoli in base alla nazionalità, per scongiurare la solidarietà tra popolazioni oppresse.
Ci tengo a chiudere questo intervento con una citazione di Gustav Landauer, che secondo me è potente perché decostruisce questa narrazione del dominio e riporta la trasformazione nel presente, ci spinge a partire da sé e a farlo proprio da oggi:
“Lo Stato [suprema forma di dominio] non è qualcosa che può essere distrutto da una rivoluzione: è piuttosto un’abitudine, un modo di relazionarsi, un modo di comportarsi. Per questo può essere distrutto solo comportandosi in modo diverso, promuovendo forme di relazione contrarie alle gerarchie ed al dominio”, già da oggi, già da qui.
Questo è il mio invito a tutte noi: restiamo umane.
Coltiviamo relazioni basate sulla cura, sul mutuo aiuto, sull’uguaglianza sostanziale e sull’empatia, coltiviamo il dubbio e mettiamo in discussione le nostre abitudini tossiche.
Disertiamo dall’odio, dall’omologazione, dall’egoismo e dalla competizione.

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